Novelle (Bandello, 1853, III)/Parte II/Novella XLVII
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Più e più volte s’è questionato onde proceda tanta varietà d’amori che dai diversi effetti che ci nascono si conosce, perciò che rari si trovano che d’un medesimo modo amino, e talora si vede un uomo ferventissimamente amar una donna, e quella non solamente non l’amare, ma volergli peggio che al mal del corpo. Sarà poi una donna che miseramente s’affligerà e si consumerà dietro ad un uomo, il quale nè più nè meno di lei si curerà, come se mai veduta da lui non fosse stata. Altri amanti ora lieti si veggiono, ed indi a poco in lagrime si consumano. E la cagione di queste varietà attribuiscono i platonici a l’influsso dei lumi del cielo e a la diversità de le nature degli uomini, che volgarmente chiamiamo «complessione» e i più savii nomano «temperamento». Vogliono essi platonici che ogni volta che duo corpi sono informati da l’anime loro sotto l’influsso d’un pianeta o d’altre stelle, che costoro per la conformità de la natura s’ameranno, e sempre il più formoso sarà il più desiderato e richiesto. Ed ancor che una donna od uomo veggia uno od un’altra più bella di quella persona che ama, non si moverà perciò ad amarla, con ciò sia cosa che il cielo la spinge ad amar quella che di natura a lei od a lui è più simile. Più facilmente dopoi restano quelli nei lacci de l’amore irretiti e presi, i quali, quando nascono, si trovi Venere nel segno del Lione, o che l’argentata Luna con felice e grande aspetto si fermi a vagheggiar Venere. Questi tali sono i più inclinati di tutti gli altri a lasciarsi soggiogare da le passioni amorose. Sono, dico, inclinati e facili, ma non isforzati nè astretti; onde saviamente il gran Tolomeo, nel libro de le sue Cento' 'sentenzie, disse che il savio può schifare molti influssi de le stelle, quando egli conosce la natura di quelle, e, prima che l’effetto de l’influsso loro segua, si prepara se stesso a vincerle. E questo lasciò egli scritto ne la quinta sua sentenzia del libro di greco in latino tradotto e commentato dal gran Pontano. Ma tornando dove lasciai, di quelli che facilmente amano si deve sapere che gli uomini, nei quali la flemma tutti gli altri umori tiene soggetti, quasi non mai o molto di rado s’innamorano. I malinconici, la cui natura è da la còlera negra abbattuta e vinta, fuggono per l’ordinario amore; ma se per sorte una volta montano su la pania amorosa, non se ne sanno distrigare ed uscirne già mai. Se a caso avviene che l’uomo e la donna che siano di natura sanguigna insieme s’innamorino, tra tutte le sorti che provengono da l’amore, le quali sono infinite, non ci è il più leggero e piacevol gioco, nè il più soave e dolce nodo, nè catena più amabile di questa specie d’amore, perciò che la simiglianza de l’uno e l’altro sangue genera uno vicendevole e cambievole amore, e la soavità di questo gioioso umore insieme di tal maniera si conface e tanto bene conviene, che a l’uno e a l’altro porge fiducia e dà speranza d’una vita amorosa e tranquilla. Ora, per il contrario, quando l’amante e l’amata s’abbatteno ad esser di natura colerica, provano manifestamente non trovarsi più fieri nè più noiosi amori, causandosi una intolerabile e fastidiosissima servitù piena di risse e di rampogne, ancor che la convenienzia degli umori vorrebbe pur generare una certa reciprocazione di benevoglienza; ma l’infiammato umore da la furibonda ed accesa còlera gli fa stare in continova ed iraconda guerra. Ma che avverrà se dei dui amanti, uno è tutto di complessione sanguigna e l’altro per gli occhi e per le nari e in ogni sua azione spira còlera? Questi tali, per la commistione de la soavità ed allegria del sangue con il forte e quasi acetoso umore colerico, provano a vicenda or bene or male, ora si turbano ora ritornano in grazia, ora sono in un mare di piacere ed ora travagliano e si consumano in dolore. Che fa poi quando uno è tutto impastato di malinconia e l’altro si trova tutto sanguigno? Questo nodo suole per lo più de le volte esser perpetuo, e questo amore non si deve misero chiamare, perciò che la dolcezza del sangue lieto e gioioso tempera la saturnina amarezza de la grave malinconia. Ma se degli amanti uno è da capo a piedi colerico e ne l’altro signoreggia ed ha il freno in mano la trista e velenosa malinconia, da questo amore, se amore chiamar si deve, nasce una perniziosissima peste. L’acutissimo e penetrevolissimo umore del colerico ingombra di modo il malinconico, che la grandezza de la còlera, che troppo è impaziente, spinge e stimola ad ira, a lacci, a ferro, a veleno e a mille mali, a la malinconica natura invita a perpetuo pianto ed amarissime querimonie. Onde assai sovente questo sfortunato amore finisce per miserabile e fiera morte, come di Fili, di Didone, di Lucrezio poeta e molti si legge. E per conchiudere, se di dui amanti la natura è diversa, mai tra loro non nascerà amore. Ragionandosi adunque questi dì tra molti nel nostro giardino, messer Filippo Baldo con la sua solita piacevolezza ci narrò brevemente una beffa fatta da una galantissima gentildonna ad un giovine in Milano, la quale io subito scrissi; e pensando a chi darla, voi mi veniste in mente. Tanto più volentieri poi ve la dono, quanto che con questa vengo a sodisfare al valoroso vostro fratello, il signor Paolo Battista Fregoso, a cui già promisi di far questo che ora faccio. State sano.
A me pare, signori miei, che voi vogliate che ognora io monti in banco e con le mie ciancie v’intertenga e vi narri di quelle cosette che vi fanno ridere. Io n’ho dette alcune e la presenza di madama Gostanza Rangona e Fregosa nostra signora, come fu quella de la duchessa di Savoia ed alcune altre novelle da me narrate. Ora che essa madama è ritirata e siamo qui tra noi buon compagni, io vi vo’ narrare un’istoria avvenuta ne la mia patria Milano ad un giovine nobile e ricco. Chè se io questi dì vi lodai esso Milano, non vorrei perciò che voi credeste che tutti i milanesi fossero Salomoni e tra loro non fossero assai feudatarii de la badia di San Sempliciano. Vedete voi questo giardino come è ben coltivato? come ha grasso e buon terreno? E nondimeno, ancor che dui ortolani fatti venir fin da la bella Toscana ognora ci siano dentro ed altro non facciano già mai che purgarlo e levarne le cattive erbe, tanto non si ponno affaticare nè tanto mondarlo, che tra le buone erbe non ce ne siano di quelle che per l’uso de l’orto non vagliono nulla. Così è' 'il giardino del grasso Milano, nel quale ci è d’ogni erba sorte, e tra quei nostri ambrogiani molti si trovano che non sono mai passati sotto l’arca di san Longino: onde meraviglia non è se talora fanno de le cose sgarbatissime. S’è a questi giorni parlato pur assai de le divine e poderose forze che suol adoperare Amore, e de le mirabilissime trasformazioni che talora fa, come fu di Cimone e di molti altri che di bestioni fece uomini. Tuttavia egli talvolta, per esser fanciullo e cieco, alberga in certi cori sì sgarbati e ottusi che, quanto più gli accende, quanto più si sforza di fargli avveduti a scaltriti, tanto più ne le azioni loro si mostrano scemonniti e, come dice il romagnuolo, restano decimi. Eglino fanno come le simie, che quanto più s’innalzono più mostrano le parti vergognose. Nè si deve questo errore attribuire a l’Amore, perciò che egli dal canto suo s’affatica quanto può; ma alcuni nascono sì indisciplinabili che non è possibile d’ammaestrargli. Molti vanno a Parigi, a Pavia, a Padova, a Bologna e in altri luoghi agli Studii generali per farsi dotti in diverse scienze; ma a la fine tanto ne sanno l’ultimo anno quanto il primo, e pure i lettori dottissimi fanno il debito loro. Ora per narrarvi l’istoria che v’ho promessa, vi dico che in Milano fu, ed ancora forse è, un giovane nobile e molto ricco, il cui proprio nome per ora vo’ tacere per buon rispetto, e lo domanderemo fintamente Simpliciano. Era egli bello de la persona e vestiva molto riccamente, e spesso di vestimenta si cangiava, ritrovando tutto il dì alcuna nuova foggia di ricami e di straffori ed altre invenzioni. Le sue berrette di velluto ora una medaglia ed ora un’altra mostravano. Taccio le catene, le anella e le maniglie. Le sue cavalcature che per la città cavalcava, o mula o giannetto o turco o chinea che si fosse, erano più polite che le mosche. Quella bestia che quel giorno deveva cavalcare, oltra i fornimenti ricchi e tempestati d’oro battuto, era sempre da capo a piedi profumata, di maniera che l’odore de le composizioni di muschio, di zibetto, d’ambra e d’altri preziosi odori si faceva sentire per tutta la contrada. Soleva Romano profumiero publicamente dire che messer Simpliciano gli dava più guadagno in una settimana che non davano venti altri giovini nobili di Milano in tutto l’anno, levandone perciò sempre il signor Ambrogio Vesconte, il quale ne lo spender circa i profumi era prodigalissimo. Era adunque il nostro Simpliciano il più polito ed il più profumato giovine di Milano, e teneva un poco anzi che no del portogallese, chè ogni dieci passi, o fosse a piede o cavalcasse, si faceva da uno dei servidori nettar le scarpe, nè poteva sofferire di vedersi a dosso un minimo peluzzo nè altro. Si dava poi egli ad intendere che in Milano non fosse gentildonna nè signora, che non si tenesse bene appagata che egli degnasse di far a l’amor con lei. E perchè troppo più si stimava di quello che valeva, non aveva molta intrinsica pratica con altri gentiluomini, non gli parendo trovarne uno che la sua compagnia meritasse. Per questo quasi per l’ordinario si vedeva sempre solo, seco non avendo altra compagnia che alcuni suoi servidori. Aveva poi un certo suo parlare pieno di melensaggine e fastidio, parlando molto adagio e da se stesso ascoltandosi, di modo che nessuno o ben pochi seco praticavano. Ora, andando ogni dì per Milano, avvenne che una volta vide in porta una bellissima gentildonna, moglie d’un nostro gentiluomo molto ne la città stimato, sì per la nobiltà e ricchezze, come che anco era uomo che valeva assai. Parve a Simpliciano di mai non aver vista la più bella nè la più graziosa donna di lei, e così de l’amore di quella s’infiammò che, lasciato ogni altro pensiero da canto, tutto si diede in anima e in corpo a seguir costei. Cominciò adunque a passarle molte fiate il dì dinanzi a la casa, ed ogni volta che in porta si trovava, egli, o a piede o a cavallo che si fosse, quivi si fermava e con lei entrava in ragionamento. La gentildonna, che cortese ed umana era, gli rispondeva graziosamente; ma veggendolo poi parlare così sazievolmente e senza alcuna grazia, cominciò a dargli del grosso e non gli far quelle accoglienze che egli averia volute, di che lo sciagurato amante senza fine s’attristava. Nè perciò da l’impresa si levava, anzi più che prima la teneva sollecitata: e ben che da lei non potesse nè buoni visi nè risposte a modo suo cavare, essendo per aventura meglior profumiero che intenditore, quanto ella più ritrosa si mostrava, tanto più egli ferventemente e senza sbigottirsi la seguitava. E trovatala un giorno in porta tutta sola, le fece assai lungo ragionamento, caldamente supplicandola che volesse di lui aver compassione, che tanto e unicamente l’amava, chiedendole in tutta somma che una notte gli volesse dar segreta audienza. Era la donna di natura e complessione totalmente contraria a Simpliciano, e punto di bene non gli voleva; anzi veggendolo così sazievole e fastidioso, gli voleva male e non l’averebbe mai voluto vederselo innanzi. Onde con rigido e fiero viso e quello voltatasi, in questa guisa iratamente gli disse: – Sia questa, poco discreto e scostumato giovine che voi sète, l’ultima volta che voi più d’amore mi parliate: chè se per l’avvenire sarete tanto temerario e presuntuoso che vi basti l’animo di parlarmi mai più di cose d’amore, io ve ne farò quell’onore che meritate. Vi sia questo detto per sempre. – E lasciato lo sbigottito amante in strada solo, se ne entrò in casa. Era il marito de la donna uomo in simil materia terribile, il quale, se una volta sola si fosse avveduto de l’amor del nostro Simpliciano, e a lui e forse anco a la moglie averebbe fatto uno strano scherzo. La gentildonna, che in conto alcuno disposta non era d’amare Simpliciano nè far cosa che egli si volesse, averia volentieri voluto che da se stesso egli si fosse ritratto da la mal cominciata impresa; ma ella cantava a’ sordi, perciò che in luogo alcuno comparir non poteva che l’amante non ci fosse. Se in chiesa andava, egli la seguitava; se sola in carretta od in compagnia d’altre gentildonne per la città andava a diporto, egli dietro le era; di modo che chi orbo non era, avvedere di leggero si poteva da qual tarantola Simpliciano fosse morso. Veggendo la gentildonna questo fastidioso fistolo andar di male in peggio, ed avendo dubio che per altra via non pervenisse a l’orecchie del marito, deliberò d’esser quella che la trama del giovine innamorato gli manifestasse; onde una notte in letto, con lui di varie cose parlando, così gli disse: – Marito mio caro, io vi vo’ dire una cosa che mi pare di non poca importanza, ma vi piacerà prima di darmi la fede vostra di proveder a quanto vi dirò senza venir a l’arme, perciò che io mi do a credere che facilmente senza scandalo saperete e potrete dargli oportuno rimedio. – Promise il marito di fare quanto ella voleva. Il perchè madonna Penelope, – chè così nominaremo la donna, – fattasi da capo, narrò puntalmente al marito l’amoraccio di ser Simpliciano. Come egli ebbe intesa questa istoria, tra sè subito pensò il rimedio che far voleva, e lo disse ridendo a la moglie; e le impose che come prima vedeva l’amante, cominciasse a dar principio a la comedia. Madonna Penelope, lieta d’aver trovato il marito in buona disposizione, parendole che la cosa riuscirebbe in riso senza spargimento di sangue, e che non si verrebbe a pericoli d’esser bandito e perder i beni, come il dì seguente, essendo a la finestra, vide per la contrada passar l’amante, così contra il suo consueto cominciò a fargli un buon viso e mostrò di vederlo volentieri. Simpliciano, che mai sì buona vista da la donna ricevuta non aveva, cominciò per gioia a gongolare e non capeva ne la pelle; onde, data una volta, ritornò di nuovo ne la contrada. Il che avendosi madonna Penelope imaginato, scese a basso e andò in porta. Come il giovine la vide, arrivato ove ella era, amorevolmente la salutò. Ella tutta ridente lo risalutò e gli disse che per cento mila volte egli fosse il ben venuto. Stava il buon Simpliciano tutto fuor di sè e non sapeva formar' 'parola, fisamente la sua donna guardando in viso. Ella alora, tratto un gran sospiro, in questa guisa gli parlò: – Io porto ferma openione, signor mio dolcissimo, che voi molte volte vi debbiate esser meravigliato di me ed insiememente doluto de la mia poca amorevolezza verso voi per lo passato usata; ma spero, quando da voi le mie ragioni saranno intese, che appo voi troverò perdono, essendo quel gentile, costumato e grazioso giovine che sète. Se per a dietro mi vi sono mostrata ritrosa ed ho fatto sembiante di non istimare nè gradir il vostro amore, questo non è già proceduto da poco amore che in me fosse, non essendo il mio in conto alcuno minor del vostro; chè io so bene come ardo, vinta da la vostra bellezza e dai vostri modi gentili, e quanta passione e tormenti ho sofferti e soffro tuttavia per l’amor immenso che vi porto. Ma, signor mio, due cagioni sforzata m’hanno che io chiusamente ardessi e non scoprissi di fuori via il mio fervente amore. Prima per dubio che il signor mio consorte non se n’accorgesse, perciò che se egli avesse una minima mala sospezione de la mia onestà, io son certissima che senza rispetto veruno m’ancideria ed io restarei la più vituperata femina che fosse già mai. Ed anche voi mettereste la vita vostra sovra il tavoliero a periglio grandissimo, chè devete pur conoscere l’uomo che egli è. Mi sono anco mostrata agli amorosi vostri desiderii renitente, dubitando che voi non faceste come il più dei giovini fanno, che fingono fervidissimamente amare e, come hanno goduto de l’amor loro, non solamente abbandonano le ingannate donne, ma si vanno gloriando, e con questi e quelli vantando di ciò che hanno fatto, e talora dicono assai più del vero, parendo loro di trionfare se le innamorate che hanno metteno in bocca al volgo. Questi rispetti adunque mi sono stati un freno che finora m’ha ritenuta ed hammi vietato che io potessi con effetto mostrarvi quanto v’amo e quanto desidero farvi cosa grata. Ma a la fine, vinta e superata da l’ardore che mi abbruscia, e stimolata da la grandezza de l’amore che io vi porto, non gli ho potuto far più resistenza, e sono sforzata di condescendere a compiacer agli appetiti vostri. Ben vi prego affettuosissimamente che due cose ne seguano: l’una, che le cose così segretamente si facciano che nessuno lo sappia già mai, e sovra tutti il signor mio consorte; l’altra, che voi deliberiate esser sempre mio, come io mi confido, perchè tal mi pare la gentilezza vostra che voi non m’abbandonarete per qual altra donna che si sia. Chè se io altrimenti credessi, non pensate già che io volessi cominciar questa amorosa impresa, per restar poi da voi ingannata. Io v’amo per amarvi sempre, e ne le braccia vostre mi metto e vi raccomando la vita mia e il mio onore. A voi sta, che uomo sète, l’aver cura de l’una e de l’altro. – Il buon Simpliciano al dolce ragionamento de la sua donna era tutto pieno di dolcissima gioia, ed attuffato restava in un mare di contentezza, di modo che non sapeva che risponder dovesse. Pure a la fine tanto in se stesso si raccolse che, a la meglio che puotè e seppe, con semplici parole il ringraziò, e le giurò mille volte che mai non l’abbandoneria, ma che le resteria eternamente servidore. Le domandò poi quando sarebbe che insieme esser potessero, assicurandola che di nessuno si fidarebbe, ma che ove ella volesse, di notte e di giorno sola si ritroveria. La donna a questo rispose che mentre che suo marito fosse in Milano, non ci sarebbe ordine a ritrovarsi insieme, sì per il marito, che era troppo avveduto, ed altresì per la molta famiglia che seco dimorava; ma come egli andasse fuori in contado a la caccia o per altri bisogni, che vederebbe di trovar modo che potessero di notte esser insieme, e che glielo faria intendere. Rimase il buon giovine con questa conchiusione e da la donna si partì, non attendendo altro se non che il marito di lei andasse fuor de la città, ed ogni ora che tardava ad andarvi gli pareva un anno. Tutto il dì adunque più e più volte passava per la contrada, per veder se madonna Penelope gli dava segno alcuno. Egli era tanto ebro de la gioia de la promissione che ella fatta gli aveva, che non trovava luogo che lo tenesse, e per Milano ora a piede ora a cavallo andava come smemorato e proprio pareva che fosse incantato; ed ogni volta che in porta trovava la donna, sempre la sollecitava di ritrovar la commodità d’esser insieme. Madonna Penelope, a cui punto non piaceva questa pratica, disse al marito un giorno, essendo tutti dui insieme: – Voi m’avete fatto entrar nel pecoreccio de le ciancie con il veramente semplice Simpliciano, che ogni ora mi rompe il capo. Io vorrei che voi mi levaste questa seccaggine da le spalle e metteste fine a cotesta pratica. – Or via, – disse il marito, – lasciate far a me, che vi farò ridere. – Avevano in casa una donna attempata che si chiamava Togna, la quale era di circa sessanta anni e lavava in cucina le scudelle ed altri vasi, e nodriva alquanti porci e le galline, e sempre era unta e bisunta, e putiva da ogni canto come fanno i solfarini. Aveva l’unghie che parevano quelle di Lanfusa madre di Ferraù, con tanto grasso e mal nette sotto che averebbe ingrassata una caldaia di cavoli. Era poi guercia da un occhio, con la tigna in capo, e l’altro occhio di continovo gli colava, e sempre la bocca era bavosa, con un fiato puzzolente sovra modo, di maniera che la Ciutaccia con cui giacque il proposto di Fiesole era sette mila volte men brutta. Questa eletta fu per druda di Simpliciano. Chiamatala adunque a sè, il padrone de la casa le disse: – Togna, io vo’ porti dimane di notte con un bellissimo giovine, e voglio che a lui ti lasci maneggiare e far tutto quello che vorrà; ma guarda non parlar mai. – Promise ella di far il tutto, ed il padrone le disse che la vestiria di nuovo. Il dì seguente le fece far un bagno e le mise a torno due fantesche, che da capo a piedi tutta la stropicciarono e lavarono benissimo, e le tagliarono l’unghie de le mani. Il marito di madonna Penelope dopo desinare diede la voce d’andar a caccia, e, a cavallo montato, andò fuor di Milano. Madonna Penelope si mise subito in porta, nè guari vi stette che Simpliciano comparse e la salutò. Ella alora gli disse: – Signor del mio core, voi sète venuto a tempo: mio marito è andato fuori e non ritornerà questi dui dì. Voi questa sera tra le cinque e sei ore ve ne verrete qui, ove troverete questa porta aperta; spingetela soavemente e fermatevi tra la pusterla e la porta. Io ci sarò, ma non parlate nè fate romore, chè io farò il medesimo, perciò che ci sono restati molti de la famiglia che non sono iti fuori. – Dato questo ordine, la donna entrò in casa, e Simpliciano tutto gioioso andò a mettersi ad ordine per comparir galante cavaliero su la giostra. Come fu notte, il marito di madonna Penelope ritornò in Milano ed entrò in casa, ove fece vestir la Togna con sottana di tela d’oro ed una veste sopra di damasco cremesino, con cuffia d’oro in testa ed altri ornamenti a torno, che proprio pareva una bertuccia vestita; e di nuovo l’ammaestrò e la fece metter tra la porta e la pusterla sua, chè quasi tutte le buone case de la città ne l’andito hanno prima la porta verso la strada e la pusterla dapoi verso la casa. Se ne stavano il marito e la moglie con altri di casa con grandissimo silenzio ne l’andito presso a la pusterla, per sentir tutto ciò che Simpliciano farebbe con la Togna, la quale, tutta alor sola, era tra le due porte. E sapendo che deveva esser tosto nuova sposa, se ne stava molto lieta. Simpliciano poi, per mostrarsi bene valoroso cavaliero, come fu da la sua donna partito, andò a casa e con buona vernaccia fumosa e pistachea ed altri preziosi confetti si rinfrescò. Dapoi questo, fatto ben profumare una camiscia di bucato, tutta bella e lavorata d’oro e di seta, se la mise indosso, e tutto da capo fin a’ piedi si profumò con composizione di zibetto, ambra fina e muschio; e così profumate le vestimenta parte con la detta composizione e parte con augelletti di Cipro ed altre buone polveri odorifere e preziose, tutto d’ogn’intorno spargeva assai' 'buon odore. Vestito e messosi ad ordine, con più desiosa voglia aspettava la dessignata ora che non aspettano i giudei il Messia. Cento volte l’ora si levava da sedere e mirava se il sole s’affrettava a correr verso l’occaso. Ogni atomo e punto di tempo gli pareva pure troppo lungo, e malediceva Febo che non isferzasse i suoi cavalli. Venne la notte, e quelle cinque ore che ancora aspettar deveva gli parevano più d’un anno. E pensando di deversi trovar con la sua cara amante, diceva tra sè: – Qual fu mai di me più fortunato e più aventuroso innamorato? Io debbo pur questa notte esser con la mia signora, la quale di bellezza e leggiadria non ha pariglia in questo mondo. E qual è gentiluomo dentro Milano che meco parangonar si possa? O me beato! o me felice! – E farneticando tra sè e mille pappolate dicendo, sentì toccar le cinque ore. Il perchè, avendo indosso un giuppone di raso morello ricamato con cordoni d’oro, prese una rotella e la spada, e andò verso la casa di madonna Penelope, e spinta soavemente la porta, essendo chiarissima la luna, vide a quel birlume la Togna starsi aspettando. E creduto fermamente che fosse la sua diva, risospinta la porta, se le avvicinò e le gettò le braccia al collo ed amorosamente in bocca la basciò. Ben si può dire che in lui faceva l’imaginazione il caso: aveva la Togna duo labroni grossi da schiava, e il fiato fieramente le putiva; nondimeno a l’innamorato Simpliciano parve la più delicata bocca e i più dolci labri e il più soave fiato che trovar si potesse, e non si poteva saziar di basciare e ribasciare senza fine. Sentendo poi che roba a dosso gli cresceva, pose la Togna suso una panchetta che a caso v’era, ed entrò gagliardamente in possessione di quei beni che tanto credeva aver desiderato. Nè contento d’aver fatto tre arringhi, corse il quarto e il quinto. Messosi poi a scherzar con la Togna, le basciava il petto e le poppe lunghe e grosse e le ruvide e corte e gonfie mani, tuttavia imaginandosi di basciar madonna Penelope. E in bassissima voce le diceva: – Vita mia cara, quando sarà mai che possiamo liberamente esser insieme? Non volete voi alcuna cosa da me? Pigliate questo rubino, prendete questa catena e queste maniglie per memoria del nostro amore. – La Togna, nulla dicendo, faceva pur cenno di non voler quei doni. A la fine, stimolandola il fervido amante, perchè era la Togna molto balbuziente, balbettando gli disse che le comprasse un pettine d’osso per pettinar le lendini. A queste interrotte parole conobbe il misero Simpliciano con cui giaciuto si fosse, ed aperta la porta per meglio chiarirsi, aiutato da lo splendor de la luna, vide manifestamente quella esser la Togna. Onde disperato, presa la sua rotella e la spada, se ne fuggì via. Madonna Penelope ed il marito, sentendo colui andarsene, apersero la pusterla, e il marito disse: – Poi che Simpliciano da sè s’è sgannato, non accade a far altro. – Simpliciano poi mai più non passò per la contrada, e se per Milano vedeva madonna Penelope andar ad una banda, egli si voltava ad un’altra e quella fuggiva come il morbo. Così adunque senza spargimento di sangue madonna Penelope si levò, col conseglio del saggio marito, la seccaggine del giovine da le spalle.
Quel dì medesimo che voi questo carnevale da noi partiste, dopo che si fu desinato, s’entrò a ragionare di quegli avvenimenti che talora impensatamente e fuor d’ogni intenzione accadeno, volendo alcuni la cagione di questo investigare. Chi diceva la fortuna e il caso esser la causa di cotali effetti. Altri in contrario affermavano non ci esser nè fortuna nè caso, ma cotali nomi esser stata invenzione d’uomini che negano la providenza di Dio e non vogliono che egli s’intrometta in queste azioni umane, misurando l’infinito poter divino con erroneo giudizio. Altri contendevano la fortuna e il caso prender da la providenza divina le cause loro. Ci fu chi disse che quegli effetti [che] per l’ordinario d’un medesimo tenore sempre si veggiono succedere o che il più de le volte tali divengono, non aver dipendenza alcuna nè da fortuna nè da caso. Che ordinariamente la notte succeda al dì e il giorno a la notte, e che in oriente si levi il sole e verso occidente conduca il suo aurato carro e quivi si corchi, in questo la fortuna non ha che fare e meno il caso. Che poi il più de le volte l’uomo dopo l’età giovinile comincia a cangiar pelo e di nero e biondo che l’avesse se gli veggia divenir bianco, di ciò nè il caso nè la fortuna si prende cura, e la cagione assai è nota. Perciò dicevano alcuni che in quelle cose che fuor del pensamento nostro ci avvengono, come è che io mi parta di casa per andar a visitar un amico mio e caminando ritrovi una borsa piena di ducati, o mi sia a l’improviso presentata una ricca badia non l’aspettando io; dicevano, dico, costoro che in questi avvenimenti pare che la fortuna e il caso abbiano alcuna giurisdizione. E questi tali a cui avvengono queste cose, chiamiamo noi «fortunati» e «aventurosi», con ciò sia che trovar danari od esser assunto a dignità ecclesiastica non si può attribuire a necessità nè a consuetudine, ma sì bene a fortuna o a caso, che sono cagioni «per accidente»