Novelle (Bandello, 1853, III)/Parte II/Novella XLVIII
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senza spargimento di sangue madonna Penelope si levò, col conseglio del saggio marito, la seccaggine del giovine da le spalle.
Quel dì medesimo che voi questo carnevale da noi partiste, dopo che si fu desinato, s’entrò a ragionare di quegli avvenimenti che talora impensatamente e fuor d’ogni intenzione accadeno, volendo alcuni la cagione di questo investigare. Chi diceva la fortuna e il caso esser la causa di cotali effetti. Altri in contrario affermavano non ci esser nè fortuna nè caso, ma cotali nomi esser stata invenzione d’uomini che negano la providenza di Dio e non vogliono che egli s’intrometta in queste azioni umane, misurando l’infinito poter divino con erroneo giudizio. Altri contendevano la fortuna e il caso prender da la providenza divina le cause loro. Ci fu chi disse che quegli effetti [che] per l’ordinario d’un medesimo tenore sempre si veggiono succedere o che il più de le volte tali divengono, non aver dipendenza alcuna nè da fortuna nè da caso. Che ordinariamente la notte succeda al dì e il giorno a la notte, e che in oriente si levi il sole e verso occidente conduca il suo aurato carro e quivi si corchi, in questo la fortuna non ha che fare e meno il caso. Che poi il più de le volte l’uomo dopo l’età giovinile comincia a cangiar pelo e di nero e biondo che l’avesse se gli veggia divenir bianco, di ciò nè il caso nè la fortuna si prende cura, e la cagione assai è nota. Perciò dicevano alcuni che in quelle cose che fuor del pensamento nostro ci avvengono, come è che io mi parta di casa per andar a visitar un amico mio e caminando ritrovi una borsa piena di ducati, o mi sia a l’improviso presentata una ricca badia non l’aspettando io; dicevano, dico, costoro che in questi avvenimenti pare che la fortuna e il caso abbiano alcuna giurisdizione. E questi tali a cui avvengono queste cose, chiamiamo noi «fortunati» e «aventurosi», con ciò sia che trovar danari od esser assunto a dignità ecclesiastica non si può attribuire a necessità nè a consuetudine, ma sì bene a fortuna o a caso, che sono cagioni «per accidente» in quegli effetti, che non semplicemente nè il più de le volte sogliono avvenire. Ci è ben poi differenza tra il caso e la fortuna, perciò che il caso a più effetti assai distende le sue ali che non fa la fortuna. Onde ragionevolmente si può dire che tutto quello che da la fortuna proviene, altresì dal caso provenga; ma non già diremo che la fortuna in cose pur assai che a caso provengono abbia parte alcuna. Ma perchè di questi casuali avvenimenti e fortunevoli ed altri simili effetti, nei ragionamenti che si fecero a Milano in nove giornate a la presenza de la sempre onorata ed acerba memoria de la illustrissima eroina la signora Ippolita Sforza e Bentivoglia, assai a lungo ne scrissi, per ora mi rimarrò di farne più lungo parlare. Ragionandosi adunque, come v’ho detto, di cotali avvenimenti, e andando il tenzionare più in lungo che ad alcuni non parve che si convenisse, il nostro piacevole messer Filippo Baldo si pose in mezzo, e con quella sua effabilità pose a ciò che si tenzionava silenzio, e ci narrò una festevol novella ne la vostra e sua patria Milano avvenuta. Ed avendola io scritta, a voi la mando e ve la dono, a ciò resti appo voi per testimonio de la nostra scambievole benevoglienza.
Voi sète, signori miei, entrati in un cupo e ondoso mare a ragionar de la materia che ragionavate, appartenente in tutto ai filosofi e ai teologi, per quello che altre volte io n’ho sentito disputare. Noi siamo su l’ultimo del carnevale, e il tempo vorrebbe esser dispensato in giuochi festevoli e parlari piacevoli, a ciò poi possiamo esser più forti a sopportar il peso de la quadragesima che ci è su le porte, non si disdicendo in questi pochi giorni alquanto licenziosi a le persone religiose da le mondane cose allontanate in giochi onesti diportarsi. Vi narrerò adunque una faceta novella che non è molto a Milano avvenne. E perchè i padri non deveno dar il battesimo ai loro figliuoli, io non vi dirò se la cosa avvenisse a caso od a fortuna, ma vi lascerò porre quel nome che più vi piacerà, imitando in questo l’eccellente dottor di legge e poeta volgare non volgare, messer Niccolò Amanio di buona e recolenda memoria. Egli componeva rime piene di tutti quei colori poetici che se le convengono, ma' 'ne le testure molte fiate non osservava quella strettezza d’ordine che si ricerca. Onde, essendo di ciò ripigliato, egli soleva dire di non voler dar il battesimo a le composizioni sue: che chi quelle leggeva, le appellasse come più gli era a grado, e se non erano nè ballate nè madrigali, che tuttavia perciò erano versi. Vi dico adunque che ne la mia patria Milano sono innoverabili conventi di frati e monaci di varie religioni e monasteri di vergini mariali assai. E di tutte le sorti ce ne sono, così d’uomini come di donne, che viveno santamente con osservanza grandissima degli instituti e ordini loro, così mendicanti come d’altra sorte. Ce ne sono poi di quelli che «conventuali» si chiamano, licenziosi, dissoluti, poco onesti, che menano una vita scandalosa e di pessimo essempio, a cui starebbe meglio in mano la spada e la rotella che il breviario. Di questi ce ne era, in un convento che non accade nomare, un fratacchione troppo più amico de le donne che non era convenevole; e non gli bastando il giorno trovarsi in casa di questa e quella meretrice e giacersi amorosamente con loro, soleva anco sovente menarne alcuna la notte a la sua cella e quivi tenerla sino a l’alba e poi mandarla fuori. Avvenne che una volta ce ne condusse una e seco la notte si corcò, correndo gagliardamente di molte poste. E mentre che con quella scherzando se la metteva sotto, venne l’ora del mattutino, e sentendo messer lo frate sonar la campana, si levò e disse a la donna: – Dormi, vita mia, chè io vo’ andar in coro, perciò che questa settimana tocca a me a dar principio a l’ore. Io tornerò subito che l’ufficio sarà compìto. – Accese poi un lumicino, ed aperto un suo banco ov’erano molte guastarette ed ampolle, una ne prese. Era del mese di giugno e faceva il caldo grande. Il perchè cominciò il frate con l’acqua che era ne l’ampolla, sentendosi per la fatica durata del giostrare tutto pieno di caldo, a lavarsi le mani e la faccia, e poi ritornò dentro il banco l’ampolla, ed, ammorzato il lume, uscì de la cella e, quella inchiavata, se n’andò a la chiesa. Aveva veduto la donna ciò che il frate fatto aveva e sentito l’odore de l’acqua rosa, e le venne voglia di rinfrescarsi anco ella; onde levatasi, così al buio andò ed aperse il banco, e credendosi pigliare l’ampolla de l’acqua rosata le venne presa quella de l’inchiostro; e non sentendo odore d’acqua rosa, s’imaginò che fosse acqua a lambicco stillata per far belle carni: il che le fu più caro. Cominciò adunque a piena mano a lavarsi tutto il viso e bagnarsi benissimo il volto, il collo, il petto e le braccia, e di tal maniera, credendosi far belle carni, le tinse in nero che rassembrava il gran diavolo de l’inferno. E votò tutta l’ampolla, e così vòta la rimise nel banco. Poi tornò di nuovo con amendue le mani a fregarsi fortemente la faccia e l’altre parti bagnate, a ciò che meglio l’acqua s’incorporasse; e si corcò e in breve s’addormentò. Ora, circa il fine del mattutino, si partì il frate dal coro e se ne venne con una candela accesa in mano, ed aperta la cella vide nel letto la donna che dormiva. E veggendola tanto contrafatta da quello che esser soleva, dubitò che il diavolo de l’inferno fosse in vece di quella venuto a giacersi nel letto; onde còlto a l’improviso da così strano accidente, ebbe tanta paura e tanto tremore ne la persona che si mise a fuggire, quanto le gambe il potevano portare, verso la chiesa, ove ancora i frati erano. Quivi giunto, tutto tremante si gettò ai piedi del presidente del convento. Era tanta la paura che aveva, e tanto si trovava sbigottito, che non sapeva nè poteva formar parola; ma ansando e di freddo sudor pieno, si sforzava di pigliar fiato e di parlare. Tutti gli altri frati, ammirati di tal novità, gli erano a torno, ed il presidente lo confortava, domandandogli ciò che aveva. A la fine egli, preso alquanto di lena, publicamente il suo peccato confessò, e piangendo narrò come aveva introdutto la meretrice, la quale in un demonio infernale s’era convertita. Il presidente, fattosi dar la stola e fatto pigliar la croce e l’acqua' 'Santa, con i frati processionalmente andò a la cella ove la donna dormiva, ed entrando dentro con molti torchi allumati, e dicendo salmi e loro orazioni, furono cagione che ella, a quel romore destandosi, alzò il capo. Come i frati videro quel mostro scapigliato, chè le era caduta la cuffia dal capo, tennero per fermo che fosse uno spirito diabolico. Il presidente fu il primo a fuggire, dietro al quale chi portava la croce quella in terra gittò, e il medesimo fece un altro de l’acqua santa. Ella, meravigliatasi di tal avvenimento, saltò fuor di letto. Come coloro la videro saltar su e che aveva la camiscia indosso tutta macchiata di nero, beato chi più correr poteva! Di modo che per la calca tra loro alcuni cascarono in terra, e quelli che avevano i torchi, per esser più spediti a sgombrar il camino, lasciarono andar per terra i torchi. Ella non si sapendo imaginar che cosa fosse questa, uscita de la cella così in camiscia come si trovava, cominciò a correr loro dietro e, come colei che quasi con tutti aveva giocato a le braccia e per l’ordinario l’era toccato andar di sotto, gli chiamava a nome per nome. S’abbattè in uno di quei torchi che in terra ardeva e, stesa la mano per pigliarlo, tutta si smarrì veggendosi in quel modo contrafatta, e s’accorse che invece di prender acqua da farsi bella, tutta s’era tinta d’inchiostro. Ella pur tanto gridò che, a la voce conosciuta, dicendo che era fatta nera da l’inchiostro, fu cagione che alquanti frati se le accostarono e riconobbero l’errore. E per la stagione che era caldissima, alcuni fratacchioni con acqua fresca e sapone tanto la lavarono e fregarono che ella tornò bianca come prima. E più volte poi di questa beffa tra loro risero assai. Io lascio mò giudicar a voi se questo avvenimento fu a fortuna o a caso, e se, dopo che lavata fu e tornata come prima netta e bianca, fu ventura la sua che più d’una decina di quei frati seco amorosamente si giacque.
Abbiamo fatto, questo carneval passato in Bassens, di quella maniera che a la gravità e gentilezza di madama vostra amorevole ed onorata madre fu convenevole, pigliando quegli onesti piaceri e leciti trastulli che la stagione e il luogo ci concedevano. Erano con noi alcuni gentiluomini italiani, la cui conversazione ne dava lieto e gioioso diporto, non ci mancando parlari piacevoli e faceti già mai, di modo che furono narrate di molte bellissime novelle, che secondo che si narravano furono da me scritte. Tra l’altre una ne narrò messer Filippo Baldo, che di novelle ed istorie è più copioso che non è una florida e temperata primavera di varii fiori e di nuove erbette, e ci disse un atto d’un lione che a tutti parve cosa mirabile, e massimamente ad alcune dame e damigelle de la contrada che con noi si trovarono di brigata. E questionandosi onde potesse provenire che un lione si lasciasse levar fuor degli artigli suoi un cagnolino da una giovanetta, molte cose de la natura dei lioni furono raccontate, che tutte, nel vero, sono notabili e meravigliose. Parve gran cosa che il lione, che è re degli animali quadrupedi, così fieramente tema il canto del gallo, e da sì disarmato e picciolo augello via se ne fugga, come fa il semplice agnello dal fiero lupo. E tanto più fuggirà e si colmerà di terrore nè potrà sostener l’aspetto di quello, s’avviene,