Novelle (Bandello, 1853, III)/Parte II/Novella XLVI
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restituì gli ottanta ducati che altre volte gli aveva fatto pagare, e gli disse: – Don Bassano, noi siamo tutti uomini: attendi a donarti buon tempo e lascia che altri facciano il simile. Noi faremo che la badessa e la tua monaca si pacificheranno insieme. – E così con poca fatica fecero di modo che, a l’ombra e a le spese del campanile, il vescovo con la badessa e don Bassano con la sua divota andavano spesso a pescare ne la valle di Iosafat e si davano il meglior tempo del mondo.
Sono molti dì, re sacratissimo, che la chiara fama del vostro glorioso valore, non contenta dai termini de l’Europa, se ne va volando per l’altre due parti del mondo, ed ogni ora più agumentandosi induce chiunque la sente ad esser desideroso di poter pascer gli occhi de la real presenza vostra, sì come gli orecchi empie tuttavia di tante vostre eccellenti vertuti. Ma poi che il vostro divotissimo ed affezionatissimo servidore messer Filippo Baldo, gentiluomo milanese, m’ha più e più volte predicate e sommamente commendate tante vostre mirabili doti, tante grazie e la innata vostra umanità e cortesia, che mai non soffre che da voi alcuno mal contento si parta, il mio desiderio in modo s’accese, che sempre ho oltra misura bramato che mi si prestasse occasione che de la vostra divina natura, che così chiaramente vi illustra, e di tante care e belle parti di quante abondate, potessi, quanto si conviene, ragionare. Mi dava io ad intendere che il mio dire, che da sè sempre è stato lieve e basso e poco ingegnoso, potesse grande, abondevole, alto e ricco divenire per la grandezza e maestà de le cose ammirabili che in questo vago fiore de la fanciullezza vostra perfettamente operate. E di questo intenso desiderio mio non sarà già mai ch’io mi penta, non possendo quello se non da animo generoso procedere, ancor che l’effetto assai sovente non segua uguale a la voglia, perciò che, come dice uno dei latini poeti, ne le cose grandi l’aver voluto è assai. E così intraviene a me, chè, come io ho presa la penna in mano per scrivere, molto di leggero avveduto mi sono questa non esser impresa da me, con ciò sia che tanto dubio di me in me è caduto, e tanta caligine e sì folta m’ha adombrati ed offoscati i deboli lumi de l’intelletto, che io non veggio ove fermar i piedi e quasi mi pare che quelle poche lettere, – se alcune mai da fanciullo e per tutti gli anni miei imparai, – siano vane e che poco di loro prevaler mi possa. Mi commove nel vero e tutto mi sbigottisce la religione posta negli animi nostri, perciò che troppo avvicinato mi par d’esser a la sublimità de lo stato vostro reale, del quale la vera lode è più tosto la taciturnità con ammirazione di quello, che il presumere con rozzo e zotico stile parlarne. Ed in effetto i regi ottimi, quale voi conosciamo essere, condecente cosa è d’inchinevolmente riverir ed onorare a par dei dèi; nè può fuggire e schivar la colpa del sacrilegio chi il nome vostro senza prefazione d’onore osa nominare. Ecco che io veggio dinanzi agli occhi miei distesa la pompa di tutte quelle opere e fatti eccelsi che in ogni secolo sono stati mirabilissimi, ed ora da voi di maniera superati che, se da noi non si vedessero, non saria chi le credesse. Si racconti un poco la vita di tanti eccelsi eroi e con diligenza siano essaminati gli egregii fatti loro, e vederemo qual azione loro si possa a le vostre, non dico preporre, ma a pena agguagliare. Quivi grida con sonora tromba la chiara, viva e volante fama, che quasi nel principio de la fanciullezza vostra a voi, di varie lingue adornato, ne l’imperiali germaniche diede, gli affari di grandissima importanza che essaminare e trattare vi si devevano, in idioma purissimo alemannico ed in lingua purgata ed elegantissima latina, in nome di vostro zio Carlo, quinto di questo nome, Cesare Augusto, proponevate con tanta grazia, con sì florida e pura eloquenza e con tanta maestà, che tutti gli auditori si vedevano d’estremo stupore pieni, intenti tuttavia a quanto da voi si proponeva. Da l’altra banda già in ogni luogo è divolgato e da verissimi testimoni si conferma, che ne la guerra sassonica voi, non come tirone e giovinetto, ma come milite fortissimo e veterano e da prudente ed essercitato con lunga esperienza capitano, diportato vi sète. Tutti, così grandi come piccioli, che in quel perigliosissimo conflitto si trovarono, con una voce gridano che voi, con la sanguinolenta e fulminea spada in mano, a tutto l’essercito, così imperiale come nemico, deste manifesto segno de la strage ed occisione che degli avversari con la invitta vostra destra animosamente faceste. Onde l’imperador augusto, giudicioso essaminatore de le vertù di ciascuno, mosso da vero vostro valore e da la disciplina militare che in quel fatto d’arme mostraste, v’armò negli occhi di tutto quello invitto essercito cavaliero di san Giorgio. E questo è il vero titolo de l’onore che agli aurati cavalieri meritamente si dona. Ma che dirò io di quella salda speme che nei cori di tutta Germania la vostra incomparabile creanza ha piantata e mandate le radici fin nel profondo, e di quella generale e ferma openione che tutto il mondo di tante vostre rare doti ha concetto? E quale è colui che una volta, o Dio buono! vi veggia, vi parli, vi senta ragionare e consideri le regolate azioni vostre, conosca la modestia, la umanità, la bontà, la mansuetudine senza fuco o simulazione veruna, tutta pura, tutta candida e tutta nativa e vostra propria, e quanto moderatamente i soggetti a voi popoli governate, quanto sète giusto, quanto clemente, e come in ogni azion vostra così grave come onestamente piacevole vi mostrate degno di lode, – chi sarà, dico, che servo non vi rimanga, legato da le dolcissime e adamantine catene de la vostra infinita cortesia e tante altre carissime doti che in voi di continovo germogliano e si fanno maggiori? Certo, che io mi creda, nessuno. Ma io mi lascio trasportar dal valor de la vertù vostra a dir ciò che se Marco Tullio o Demostene, chiari lumi de la eloquenza così greca come latina, vivessero, senza dubio confesseriano, che ogni dotta e facondissima lingua, volendo dire quanto è il devere, resteria muta. Mi si perdoni adunque da la clemenza che in voi come rubino in oro fiammeggia, che io sia stato oso di tanta e sì real vostra altezza ragionare, se a par del vero non arrivo. E chi può de le divine cose a bastanza parlare? chi può quanto sia lo splendor del sole e come riluca dimostrare? Serenissimo re, chi potrà la rena del mare e le stelle del cielo quando è più sereno annoverare ed altrui mostrarle, egli potrà de le vostre singulari grazie e rare vertuti quanta sia la degnità, quanto il valore, altrui scoprire. Nondimeno, poi che io bastante non sono a fare al mondo manifesto il colmo e l’eccellenza dei doni a voi da Dio e da la natura donati, mi basterà, a chi più che ceco non sia, accennare che la sublimità de le grazie e vertù vostre non si può da umano ingegno esplicare; onde conviene che ciascuno, come cosa divina e fuor d’ogni credenza rara e mirabilissima, v’inchini e adori. Ora perchè queste mie poche incolte parole dinanzi al sacro vostro tribunale vòte non appaiano, m’è paruto cosa non indegna insieme con quelle mandarvi una breve istorietta d’un generosissimo atto che Massimigliano Cesare, – di cui voi l’onorato nome portate, e fu vostro proavo paterno, – magnificamente e con infinita cortesia operando, diede al mondo essempio quanto in ogni grandissimo personaggio l’umanità e cortesia sempre sia lodevole e agli alti prencipi stia bene. Ma dei mille e mille memorabili atti d’esso Massimigliano Cesare, questo per aventura fu forse il minimo dei pertinenti a le azioni sue morali, secondo che il trombetta dei vostri onori, il già detto messer Filippo Baldo, narrò; il quale ovunque si ritrova, mai nè stracco nè sazio si vede di predicargli. Degnate adunque, invittissimo re, d’accettar questo picciolo dono che vi mando, non avendo per ora appo me altra cosa degna de l’altezza vostra. In questo faccio io come fece un pover uomo, il quale veggendo molti che gran doni davano al re Artaserse, non avendo egli altro che dare, corse al vicino fiume ed ambe le mani empì d’acqua ed al re allegramente l’appresentò. Il magnanimo re con lieto viso la pigliò, avendo risguardo a l’animo del donatore e non al vile e picciolo dono. Così i poveri che nostro signor Iddio non ponno d’incenso e di sabei odori onorare, con feste e verdi frondi i sacrosanti e venerandi di lui altari adornano. Feliciti Iddio tutti i vostri pensieri; ed inchinevolmente, a la vostra buona grazia raccomandandomi, con ogni riverenza vi bascio le reali mani.
Cose assai, oggi, amabilissime donne e voi cortesi giovini, dette si sono, tutte nel vero piacevoli e belle, e da le quali si può prender essempio al nostro vivere, facendo de gli altrui azioni profitto a noi stessi. Ma poi che volete che anco io ragioni ed alcuna cosa od utile o dilettevole vi dica, venendo io d’Alamagna per passar in Ispagna, imiterò i mercadanti che tornando di Soria recano de le cose di quel paese. Discoprirò adunque de le robe germaniche, dicendovi che assai sovente l’uomo, per non esser conosciuto e talora mal vestito, incappa in perigliosi accidenti e spesso in cose ridicole, come avvenne a Filopemone megalipolitano, duce degli achei e ne l’arte militare eccellentissimo. Deveva egli andare a Megara a cena a casa d’un suo amico, ed ancora che gente assai solesse seco condurre, pur quella volta tutto solo entrò in Megara e andò a l’albergo de l’amico, ove l’apparecchio grande si faceva. Il padrone non era in casa, e la moglie di quello attendeva a preparar il convito. Ella, che non conosceva Filopemone, come lo vide, pensò che fosse uno dei servidori del duce e gli disse: – Tu sia il ben venuto. To’ questa scure e spezza cotesti ceppi. – Filopemone senza dir altro, cavatasi la cappa, cominciò a lavorare. Venne in questo il padrone de la casa, il quale, come vide il duce spezzar legna, tutto pieno d’ammirazione disse: – O Filopemone, che cosa fai? – A cui egli lietamente rispose: – E che altro pensi tu che sia, se non che io porto la pena de la disformità del mio vile vestire? – Quasi a simil modo fu trattato Massimigliano Cesare. Egli, come si sa, meravigliosamente de la caccia si dilettava, essercizio da Zenofonte molto lodato. Ebbe egli openione che i soldati greci per la assiduità de le venazioni divenissero prodi de la persona. Plinio nipote commenda senza fine Traiano perchè ne la caccia si essercitava. Essendo adunque un dì Massimigliano Cesare con i suoi a la caccia su quello di Tiroli circa le confini de la Baviera, s’abbandonò dietro ad un cervo e buona pezza lo cacciò. Ma, o che egli avesse meglior cavalcatura degli altri o i cortegiani con diligenza nol seguitassero o che che se ne fosse cagione, egli uscì di vista a tutti e sì a dentro ne la selva s’imboscò, che nè egli averebbe potuto udire le sonanti corna dei suoi, nè da loro, se sonato avesse, saria stato udito. E come gli altri avevano perduto l’imperador di vista, così egli, essendosi il cervo dinanzi a lui dileguato, quello aveva smarrito, nè traccia alcuna vedeva nè orma da poterlo seguire. Così errando per quei folti boschi, pervenne a la fine in una assai larga ed aperta campagna. Era quivi un pover uomo, il quale aveva caricato un suo cavallo di legna che nel folto bosco fatte aveva; e per disgrazia era la soma caduta in terra e il buon uomo molto di mala voglia s’affaticava per ricaricar il cavallo. Vide Massimigliano che colui indarno s’affaticava e che senza aita averia durata gran pena a ricaricarlo. E poi che alquanto da lontano stette a mirarlo, non riconoscendo forse la contrada, e quello accostandosi, gli domandò che paese era quello e in qual confine e se v’era villaggio appresso. Il buon uomo, che per ventura non aveva forse mai veduto l’imperadore, a quello rivoltatosi ed altrimenti nol riconoscendo, gli rispose quanto del luogo sapeva; poi in atto di pietà gli disse: – Messere, voi fareste una gran cortesia ad aiutarmi un poco, fin che io potessi caricare ed acconciar questa caduta soma su ’l mio cavallo e andar per i fatti miei. – Cesare, che di natura sua era il meglior gentiluomo del mondo e nato per compiacer a tutti e mai non offender persona, udita la pietosa e necessaria domanda del contadino che vedeva senza pro travagliarsi, senza dir motto dismontò subito da cavallo e quello per le redine attaccò ad un ramo d’un arbuscello. Era Massimigliano di persona grande e di membra ben proporzionato, con un aspetto veramente imperatorio, la cui nativa bontà e liberalità più che cesarea tutti gli scrittori che di lui parlano, e quelli che praticato l’hanno, sommamente commendano, perciò che mai non chiudeva le mani a chi a lui ricorreva. Ma quando andava a caccia, vestiva certi panni di bigio mischio, in abito vile, ed ancor che egli fosse bellissimo prence, quel suo abito da cacciatore non gli accresceva punto di grazia. Si credeva il contadino che egli fosse alcun cacciatore de la contrada che a caso quivi capitasse, e come dismontato da cavallo lo vide ed apprestarsi per dargli aita, tutto allegro gli disse: – Messere, tenete forte qui, mettete le spalle sotto la soma, porgetemi quella fune, allentatela un poco, alzate quel legno, spignetelo avanti, fate così e fate colà, – e nè più nè meno gli comandava come averebbe fatto ad un suo pari. Il buon imperadore puntalmente faceva il tutto che il contadino gli imponeva e con allegro viso l’aiutava, di maniera che chi veduto l’avesse, non lo conoscendo, l’averebbe giudicato o compagno del contadino o servidore, così gli ubidiva. In questo mezzo cominciarono a quattro, a cinque, a più e meno, ad arrivar i cortegiani ed altri signori che con l’imperadore erano venuti a la caccia, che buona pezza l’erano ito cercando. Eglino, come in tal mestieri occupato lo videro, tutti pieni di meraviglia grandissima dismontarono e con i capèlli in mano gli fecero riverenza; ma egli accennò a tutti che non si movessero, nè volle che uomo di loro mettesse mano a la soma. Veggendo il contadino che tutti che venivano, mentre arrivavano a Cesare, riverentemente s’inchinavano, s’imaginò quello esser l’imperadore, del quale più volte udito aveva dire che molto ne la caccia s’occupava; il perchè, dinanzi a quello inginocchiato, gli chiese perdono de la sua usata trascuraggine. Volle l’imperadore che il buon uomo si levasse e gli domandò chi era. Egli con tremante voce gli disse che era un povero paesano, che aveva moglie e figliuoli e che con vender le legna che faceva, e la moglie filando e lavando panni, guadagnavano il vivere loro, e che altro al mondo non avevano che quel ronzino. – Sia con Dio! – disse Cesare. – Aspetta un poco. – E cavatosi il capèllo, vi mise dentro quanti danari a dosso si trovava. Andando poi ad uno ad uno a tutti quelli che quivi seco si ritrovarono, volle che ciascuno facesse elemosina al pover uomo; e prima gli diede tutti i raccolti danari, poi gli disse: – Tu verrai dimane a trovarmi al tal albergo ove io sarò, e non far fallo. – Montò Massimigliano con i suoi a cavallo e si partì; ed il contadino, andato a la sua capanna, lieto de la sua buona ventura, il tutto a la moglie narrò. Il seguente giorno, ricordevole di quanto l’imperadore detto gli aveva, dinanzi a quello s’appresentò. Cesare, dopo molte buone parole che gli disse, gli fece annoverare grossa somma di fiorini renensi e gli donò alcune essenzioni con privilegii amplissimi in autentica forma per lui e suoi successori. Il perchè il buon uomo puotè onestamente maritar due sue figliuole da marito che aveva, e del resto comprar alcuni beni stabili, che a lui con la sua famigliuola dessero il vivere, a ciò che così miseramente più non andasse stentando. Bella nel vero fu questa pietosa cortesia e liberalità di Massimigliano ed incitativo essempio a tutti i grandi, ben che da pochi sia imitata. Dimostrò Cesare, ne lo smontar da cavallo e con allegra cèra aiutar il bisognoso contadino, una indicibile e degna d’ogni lode umanità, ed in sollevarlo con danari e privilegii da la sua faticosa vita aperse il suo veramente' 'animo cesareo. Queste, per finire la mia novelletta, sono di quell’opere che i soggetti rendono amorevoli oltra modo ai lor prencipi, veggendogli umani e liberali e che con larga mano soccorrono a questi e a quelli, premiando sempre i benemeriti; sì come per lo contrario rendeno essi signori odiosi ai lor popoli l’opere tiranniche e malvagie, veggendosi tutto il dì i poveri sudditi esser aggravati con gravissime estorsioni senza bisogno veruno. Chè quando occorre la occasione per diffesa e conservazione de lo stato, quel prence che giustamente ha governato i suoi uomini non ha da temere che gli diventino rubelli e l’abbandonino, cercando nuovo signore; anzi gli trova saldi e dispostissimi non solamente a metter tutte le facultà in servigio suo, ma chiaro conosce che in conto alcuno non sono per risparmiare, per conservarlo, la propria vita. Onde si può bene con verità conchiudere, che una de le megliori e più sicura fortezza che possa avere un bene instituito prencipe è l’amore e la benevoglienza dei suoi popoli.
Più e più volte s’è questionato onde proceda tanta varietà d’amori che dai diversi effetti che ci nascono si conosce, perciò che rari si trovano che d’un medesimo modo amino, e talora si vede un uomo ferventissimamente amar una donna, e quella non solamente non l’amare, ma volergli peggio che al mal del corpo. Sarà poi una donna che miseramente s’affligerà e si consumerà dietro ad un uomo, il quale nè più nè meno di lei si curerà, come se mai veduta da lui non fosse stata. Altri amanti ora lieti si veggiono, ed indi a poco in lagrime si consumano. E la cagione di queste varietà attribuiscono i platonici a l’influsso dei lumi del cielo e a la diversità de le nature degli uomini, che volgarmente chiamiamo «complessione» e i più savii nomano «temperamento». Vogliono essi platonici che ogni volta che duo corpi sono informati da l’anime loro sotto l’influsso d’un pianeta o d’altre stelle, che costoro per la conformità de la natura s’ameranno, e sempre il più formoso sarà il più desiderato e richiesto. Ed ancor che una donna od uomo veggia uno od un’altra più bella di quella persona che ama, non si moverà perciò ad amarla, con ciò sia cosa che il cielo la spinge ad amar quella che di natura a lei od a lui è più simile. Più facilmente dopoi restano quelli nei lacci de l’amore irretiti e presi, i quali, quando nascono, si trovi Venere nel segno del Lione, o che l’argentata Luna con felice e grande aspetto si fermi a vagheggiar Venere. Questi tali sono i più inclinati di tutti gli altri a lasciarsi soggiogare da le passioni amorose. Sono, dico, inclinati e facili, ma non isforzati nè astretti; onde saviamente il gran Tolomeo, nel libro de le sue Cento' 'sentenzie, disse che il savio può schifare molti influssi de le stelle, quando egli conosce la natura di quelle, e, prima che l’effetto de l’influsso loro segua, si prepara se stesso a vincerle. E questo lasciò egli scritto ne la quinta sua sentenzia del libro di greco in latino tradotto e commentato dal gran Pontano. Ma tornando dove lasciai, di quelli che facilmente amano si deve sapere che gli uomini, nei quali la flemma tutti gli altri umori tiene soggetti, quasi non mai o molto di rado s’innamorano. I malinconici,