Novelle (Bandello, 1853, II)/Parte II/Novella XXII

Novella XXII - Il signor Giovanni Venlimiglia ama Lionora Macedonia, e non è amato. Egli si mette ad amar un’altra. Essa Lionora poi ama lui; e non essendo da lui amata, si muore
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[p. 355 modifica]Fatto poi levar il corpo, quello ne la publica piazza così sanguinolente fecero porre. Quivi Bruto, con accomodate parole, di maniera accese il popolo di Collazia che tutti contra i Tarquinii in vendetta di Lucrezia presero l’arme; onde poste a le porte le guardie a ciò che nessuno al re, che intorno Ardea con i figliuoli era, la cosa dicesse, verso Roma se n’andarono tutti di brigata, ove non meno più tumulto Bruto concitò che a Collazia concitato avesse. Ivi ottenne che il popolo levò il reame a Tarquinio; indi con armata mano verso Ardea s’inviò, lasciato in Roma Lucrezio a governarla. E intendendo che il re verso Roma veniva, egli per altra via a l’oste d’Ardea pervenne, di modo che in un’ora Bruto ad Ardea e Tarquinio a Roma arrivarono. A Tarquinio fur chiuse le porte, essendo già di poco innanzi la scelerata Tullia sua moglie con grandissimo vituperio da Roma fuggita. Bruto come liberator de la patria lietamente fu ne l’oste ricevuto, e subito i figliuoli del re dal campo cacciati. Il re con i due figliuoli maggiori se ne fuggì in Toscana, e diverse vie tentando di ricuperar Roma, uno dei figliuoli, che Aronte aveva nome, vide in battaglia esser morto. Sesto, che l’adulterio aveva commesso, ne la città dei gabini si ridusse, avendosi scordato le gravi offese a’ gabini fatte: quivi dai nemici suoi crudelmente fu ammazzato. Il re con l’altro figliuolo, dopo l’aver indarno tentato di racquistar il perduto per le sue sceleraggini e dei figliuoli reame, a Cume, città non molto lungi da Napoli, in essiglio si ridusse e quivi miseramente morì. E così fu la morte e l’adulterio de la castissima Lucrezia vendicato, il cui virile e generoso animo penso io che tanto lodar non si possa quanto merita.


Il Bandello al valoroso signore il signor Paolo Battista Fregoso


Provano tutto ’l dì questi miseri innamorati quanta sia l’instabilità e durezza d’alcune donne e come elle assai spesso s’attaccano al lor peggio. Provano medesimamente le semplici donne quanto grande talora sia la fierezza e la superbia d’alcuni uomini e quanti gli inganni e tradimenti manifesti che [p. 356 modifica]loro, fingendo d’amarle, sono usati. Avviene nondimeno, nè saperei dir il perchè, che nè questi da quelle nè quelle da questi si sanno disbrigare, o per dir meglio, non vogliono svilupparsi, correndo tutte due le parti al lor danno, come le semplici farfalle volano, veggendo la fiamma, a la manifesta morte. E di questi errori se ne vedeno continovamente molti. S’è anco visto molte fiate che uno amerà una donna e non ritroverà in modo alcuno corrispondenza del suo amore, e così avverrà a la donna se ama l’uomo, anzi si fanno mille dispiaceri come se mortali nemici fossero. Ecco poi, come fortuna va cangiando stile, che chi odiava ama e chi amava cangia l’amor in odio. E chi prima aveva l’amante offeso, scordato l’ingiurie che a quello fatte non stima, pazzamente se gli dà in preda nè può sofferir di vedersi disprezzare, onde bene spesso riceve il convenevol guiderdone de la sua crudeltà. E ancora che gli uomini diano talora del capo in questa rete, nondimeno le donne, come men caute e di natura assai facili a credere a le lusinghevoli e fallaci parole degli amanti, più sovente in questi intricati lacci si vedono esser irretite. Dicasi pur la verità: elle anco sono per l’ordinario più compassionevoli di noi e con poca fatica perdonano le fatte lor ingiurie, del che non bisogna venir in prova, veggendosi la natura averle fatte delicatissime e pietose. E se talora una o due se ne ritrovano che tengano del crudele, forse che n’hanno talora cagione. Nè per questo l’altre deveno esser biasimate se non si mostrano così pieghevoli agli appetiti poco regolati degli uomini, perciò che fanno come i cani, i quali tócchi una volta da l’acqua bollita fuggono la fredda. Ora di questo ragionandosi questi dì ne la ròcca di Castiglione a la presenza de la molto vertuosa e gentilissima signora Ginevra Rangona e Gonzaga, messer Mario Biscanti narrò una bellissima istoria a Napoli avvenuta, la quale affermava aver intesa da uomo degno di fede, onde io, essendomi mirabilmente piaciuta, la scrissi. E perchè molte fiate voi ed io abbiamo di tal materia ragionato, ve l’ho donata ed al nome vostro scritta, essendo certo che vi sarà cara, poi che tutte le cose mie vi sono accette. Certo che il caso che si narra è degno di compassione, e ciascuno si deve guardare di non cascar in cotali errori. State sano. [p. 357 modifica]

Il signor Giovanni Ventimiglia ama Lionora Macedonia e non è amato. Egli si mette ad amar un’altra. Essa Lionora poi ama lui e non essendo da lui amata si muore.


Avendo il re Alfonso di Ragona lasciati i regni suoi di Ragona e Catalogna sotto il governo de la reina Maria sua moglie e posto il seggio suo in Napoli che con tante' 'fatiche si aveva acquistato, essendo uomo degno d’esser per le rare sue doti a qualunque imperador romano comparato, attese a pacificar con ogni diligenza il regno, che era per molti anni innanzi da molte guerre stato quasi tutto posto in rovina. Ed avendo messo ordine al tutto, diede il ducato di Calabria a Ferrando suo figliuolo, col quale pose molti suoi creati che in tutte quelle guerre per mare e per terra erano stati seco. E tra gli altri vi fu nobilissimo barone siciliano al quale aveva donato il marchesato di Cotrone, che si chiamava il signor Giovanni Ventimiglia, cavaliero pronto di mano e prudente di conseglio. Era la corte del re Alfonso la scola di tutti i gentili costumi, e gli studii de le lettere in quella città fiorivano. Ora essendo il Ventimiglia fermato in Napoli, avvenne che facendosi una grandissima festa ove si trovavano quasi tutte le prime donne de la città, egli vide una bellissima giovane di venti anni, che si chiamava la signora Lionora Macedonia, maritata nel signor Giovanni Tomacello, uomo assai giovine e ricco. La signora Lionora nel vero era una de le belle e vaghe gentildonne di Napoli, ma tanto superba e sì schifevole che ella non averia degnato di far buon viso al re, e da tutti era chiamata per sovranome «la sdegnosa». Il Ventimiglia, che era poco tempo che in Napoli aveva preso la stanza e non conosceva molto le donne, giudicò l’animo de la Macedonia dever essere conforme a tanta beltà quanta in lei vedeva, non possendo imaginarsi che crudeltà albergasse con così vago volto. Onde nei lacci d’amore per lei irretito, deliberò usar tutti quei mezzi che per amante alcuno fossero possibili ad usare, a ciò che l’amor de la donna ne acquistasse. Egli era in Sicilia molto ricco di patrimonio e nel Regno aveva parecchie migliaia di ducati d’entrata. Cominciò adunque a passarle spesso dinanzi a la casa, e quando gli era la fortuna favorevole che veder la potesse, le faceva sempre onore e riverenza, ma di modo che a nessuno dava di sè sospetto. Se festa si faceva ove ella andasse, egli vi compariva molto ben in ordine e si sforzava [p. 358 modifica]con ogni modestia farla del suo amor avvista, e cercando con la vista di lei pascer gli occhi, faceva le sue amorose fiamme assai maggiori. Se si giostrava o bagordava, nessuno meglio in punto vi veniva di lui, il quale essendo quanto altro che ci fosse prode de la sua persona, sempre ne portava grandissimo onore. Come ella si faceva dal sarto tagliar vestimento nessuno, egli che aveva per tutto le spie, di quei medesimi colori sè e la sua famiglia vestiva e de la medesima foggia i cavalli faceva coprire. Quando s’armeggiava, egli dinanzi a la baltresca ove ella sedeva, sovra gagliardi e ferocissimi cavalli si faceva vedere, e quelli destrissimamente spingeva, ritirava, faceva levar in alto con tutti quattro i piedi, faceva balzare, girarsi ad ogni mano e spesso saltar oltra le sbarre, di tal maniera che quanto ogni gran cavalcatore sappia fare era da lui leggiadramente fatto. E perciò che era giovine molto galante e cercava di far piacer a tutti, generalmente ciascuno l’amava. Ora non seppe egli mai tanto fare nè tanto affaticarsi che ella mai gli mostrasse buon viso, del che egli ne viveva molto di mala voglia, come quello che ogni suo amore aveva in lei messo, senza la quale non era cosa al mondo di cui gli calesse. Ritrovandosi il Ventimiglia in così penoso stato, ebbe modo di scriverle una lettera che averia mosso a pietà i sassi, e quella le mandò segretissimamente, e a bocca anco le fece dir molte buone parole. Ma il tutto fu buttato via, perciò che la signora Lionora non volle la lettera accettare nè udire l’ambasciata, anzi per l’avenire s’asteneva assai d’andar a le feste. Ed in vero difficil cosa è a conoscer il cervello e l’appetito di molte donne, le quali nobilissimamente nasciute, gentilmente nodrite, altamente maritate e da nobilissimi e vertuosi giovini vagheggiate, scherniti i mariti, sprezzati gli amanti e dietro le spalle gittato l’onore, spesse fiate a uomini d’infima sorte si sottomettono, a vilissimi servi talora si dànno in preda. Altre poi ci sono che saranno da dui gentiluomini amate, dei quali uno sarà vertuoso e bello, e con ogni modestia, per non far accorger la gente, farà tutto quello che deve far un innamorato che sia gentil e segreto; l’altro pur che abbia il suo intento, de l’onor de la donna non si curando, attenderà se non al suo piacere, sarà presontuoso, poco fedele, ciarlatore e maldicente: e nondimeno elle, lasciato il primo che è da bene, prenderanno il secondo, dal quale altro che biasimo non acquistano. Che diremo di queste cotali? Nel vero, se fosse lecito dir mal de le donne, io so ben ciò che ne direi; ma non si potrebbe far senza accusar il sesso [p. 359 modifica]loro, dal quale par che siano inclinate al peggio. Or che diremo di quelle elle, da vertuoso e gentil amante unicamente amate e servite, quello fuggono e in preda a tale si dànno che chiaramente conoscono esser de l’amor d’altra irretito, anzi che per ogni contrada de la città dà del capo, non si contentando d’una ma volendone quante può ingannare? Nè crediate che io parli al vento, chè quando bisognasse venir ai particolari io vi farei stupire. Ma torniamo a l’istoria nostra. La signora dunque Lionora che con uno sguardo, senza ingiuria del marito e senza biasimo di persona, averebbe potuto intertener e guiderdonar il suo amante, che essendo gentil e discreto non voleva da lei cosa che fosse di vergogna, quanto men poteva si lasciava vedere, e se a sorte si fosse trovata in chiesa od a festa ove il Ventimiglia fosse stato, da la chiesa subito si levava e andava altrove, e su le feste mai non gli volgeva il viso. Di che chiaramente il cavaliero avvedutosi, ebbe di doglia a morire. E perciò che nessuno prode e generoso guerrero more fuggendo, il Ventimiglia che sovra ogni altro era magnanimo e costante, e nel cui core era con saldi chiodi il nome de la donna fitto, non si rimosse punto da la sua ferma impresa, anzi costantemente perseverò più che prima ad esser fieramente di lei acceso. E deliberandosi provar tutto quello che possa una vera servitù con una donna, si pose, amando e servendo, a far ogni cosa per vedere se era possibile di spezzar tanta durezza di lei e la gran fierezza pacificare, in modo che l’amore, che assai segreto era, si fece a tutto Napoli palese e manifesto, e fu publico qual fosse la donna per cui tante fogge e spese egli aveva pomposamente e con inudita magnificenza fatte. Ora a lungo andare, chè già più di dui anni in queste pene era l’infelice amante dimorato, parve che la donna più si mostrasse dura, ritrosa e superba e che non degnasse ch’egli le scrivesse; onde il misero Ventimiglia fu più volte vicino a darsi di propria mano la morte, tanto gli era noioso il vivere senza la grazia di costei. Il perchè essendo un giorno solo ne la sua camera ed a la crudeltà de la sua donna pensando e circa questo d’uno in altro pensiero travarcando, a la fine, poi che buona pezza ebbe tacitamente passeggiato, sovra un lettuccio tutto lasso e stracco si gettò, ove con gli occhi pregni di lacrime in queste voci proruppe: – Ahi, sventurato Ventimiglia, quanto fu fiera la stella sotto cui nascesti, quanto sfortunato quel punto che in guardar così cruda beltà gli occhi apristi! Com’è egli mai possibile che sotto sì leggiadro e vago viso alberghi tanta crudeltà? Veramente [p. 360 modifica]l’aurea testa, quella serena fronte di pura neve, le nere e arcate ciglia cui sotto dui folgoranti e mattutini soli fanno invidia a Febo, il condecevol e profilato naso, le guancie che due colorite rose rassembrano, quella rosata bocca a che sotto dui finissimi rubini perle orientali nasconde, la candida e rotonda gola, il mento bellissimo, l’eburnee spalle, il rilevato e marmoreo petto, quelle due mammelle piene di mele ibleo, le belle braccia, le bianchissime e quanto convien lunghe e sottili mani, la persona tutta leggiadra e snella, quei piccioli piedi che a pena la terra toccano e tutto quello ch’io in quel divinissimo viso contemplo, mi promettono pure ch’ella sia donna. E se è donna, se è così bella, se è così leggiadra, come è cruda?' 'come è fiera? Oimè, quanto male stanno insieme estrema bellezza e somma crudeltà! Chè se fosse pia, qual mai parte in donna desiderar si potrebbe ch’in lei non fosse? Ma ella dirà forse che io nel mio giudicio troppo m’inganno, perciò che quella parte che io chiamo crudeltà è vera onestà e modestia e desio d’onore, e non fierezza. Ed io che cosa men che onesta le chiedei già mai? che altro volli io da lei se non lo splendore di quei suoi begli occhi? che altro le ho io ricercato se non che per servo m’accettasse? che fosse contenta farmi quel favore che onestamente far mi poteva, o che almeno degnasse che io le fossi servidore, ch’io l’amassi e la servissi? Oimè, signora Lionora, e qual maggior crudeltà può al mondo essere che aver in odio uno che più assai che se stesso t’ama? uno che in altro mai non pensa se non in farti cosa grata, in servirti, onorarti e adorarti? Ben è vero il cognome che le dànno e al nome suo conforme, cioè che è una lionessa sdegnosa. Non è costei certo donna, ma è un’aspra e fierissima tigre, nè solamente è crudele, ma è sovra tutte l’ingratissime la più ingrata. Che giova a me, oggimai tre anni sono, aver ferventissimamente amata anzi adorata costei, aver perduto tanto tempo, tante volte giostrato, vigilate tante notti, sparse tante lagrime, sprezzate mille altre nobilissime donne e tante venture perdute? Che debb’io altro di lei pensare se non ch’ella brami il mio sangue e sommamente appetisca che io di me stesso divenga omicida? Ma ella non averà già cotesta contentezza, chè io mi delibero cacciarla fuor del mio core e divenir altr’uomo da quello che fin qui sono stato, essendo più che sicuro che io per costei sia divenuto favola del volgo. Egli non sarà già vero che io l’ami più. E perchè debbo amarla, se ella m’odia? – Così l’amoroso cavaliero, vinto e stracco de la crudeltà infinita de la sua sdegnosa donna e pentito di [p. 361 modifica]tante fatiche indarno spese, fece questa deliberazione, e già gli pareva d’esser del tutto sciolto. Da l’altra parte ad un tratto in lui si destò il concupiscibile appetito, in modo che tutto il contrario disse di quello che detto aveva e gravemente se stesso riprese, parendogli aver follemente errato: – Ahi, perfido e sleale che io sono, che ho io detto? che pensiero folle m’è in petto entrato? Come ardirò io già mai andar dinanzi a quella che ora così indebitamente e villanamente ho crudele, ingrata, fiera, superba e micidiale chiamata? sarò io cotanto temerario e sì presontuoso che osi senza grandissima vergogna comparirle dinanzi? E che so io che ella tale contegno non mostri per sperimentar la mia fede e la mia perseveranza? Che cosa ho io per lei mai operata, che pegno le ho io dato che ella debbia esser de la mia fede sicura? Se io tante fiate per ischiavo me le sono donato, non può ella di me come di cosa sua far tutto quello che più le gradisce? Dunque sarò io così villano e perfido cavaliero che quel che liberamente le ho dato le voglia rapacissimamente tòrre? Lievi da me Iddio questo peccato e non permetta che io le rubi ed involi ciò che è suo. Io nacqui per servirla, e così farò. Attenderò adunque a servirla ed amarla come fin qui ho fatto, avvengane mò ciò che si voglia. – Con questo pensiero perseverò circa dui anni come prima faceva, servendola ed onorandola, nè mai ebbe da lei una sola rivolta d’occhi. E perchè in effetto egli amava ardentissimamente, non poteva talora essere che egli non facesse de le cose stracuratamente, per le quali tutta la corte e quanti erano in Napoli s’accorsero di questo amore, ben che prima ancora da molti se n’era alcuna cosa detta. Furono molti baroni amici suoi i quali, veggendo che egli dietro a costei si consumava, agramente lo sgridarono, e tanto più lo garrivano quanto che la superbia ed ostinazione de la donna appo tutti era notissima. Non era dentro Napoli cittadino nè gentiluomo a cui non dolesse che il Ventimiglia fosse così da la donna sprezzato, perciò che da tutti era ben voluto e generalmente amato. Ci erano ancora de le signore e gentildonne napoletane che volentieri averebbero dato il lor amore al Ventimiglia, se egli l’avesse amate e ricercate; ma il povero amante era tanto fitto in costei che a nessuna metteva mente. Ora avvenne che essendo di state, il duca di Calabria, per fuggir l’aria che in Napoli suol esser molto calda, andato a starsi qualche dì ai bagni di Pozzuolo, – luogo, come tutti sapete, ameno e dilettevole, che ai tempi antichi era il diporto dei gentiluomini romani, come ancora [p. 362 modifica]le rovine di molti superbissimi palazzi fanno fede, – andò il Ventimiglia ancor egli fuora col duca. E mentre che a Pozzuolo si stette, soleva il Ventimiglia dagli altri rubarsi, ed ora sul lito del mare, ora per gli aperti e dilettevoli campi qualche antichità contemplando, ora per i fruttiferi e non troppo erti colli, per le frequenti e fresche caverne, per quei laghi e luoghi sulfurei, per le selvette di cedri e naranci e per tanti altri luoghi di piacere che ci sono, andarsi diportando; e sempre il suo pensiero era come deveva fare per acquistar la grazia de la donna. Il signor Galeazzo Pandono che era suo grand’amico aveva un grandissimo dispiacere de la vita che far gli vedeva, e volentieri averebbe fatto ogni cosa per levarlo da questo amore. Onde un giorno fra gli altri, essendo a buon’ora levato il duca e andando diportandosi là verso la spelonca de la Sibilla, il signor Galeazzo, preso per mano il signor Giovanni Ventimiglia, gli disse: – Signor marchese, lasciamo andar il signor duca ove vuole e andiamo noi dui là ove sono quegli allori, chè io desidero molto appartatamente parlar teco. – Andiamo, – disse il Ventimiglia, chè ad ogni modo io me ne voleva andar in altra parte. – E così tutti dui pervennero al luogo dissegnato e sotto gli allori su la minutissima erbetta s’assisero. – Signor marchese, – cominciò alora il Pandono, – io lascierò da parte le cerimonie, essendo fra noi la fratellevol amicizia che già molti anni è stata, e verrò al nodo de la cosa che io vo’ dirti. E comincierò da la vita che questi dì qui a Pozzuolo t’ho veduto fare, perchè, a dirti il vero, tu mi sei paruto uno di quei filosofi che vanno investigando l’origine de le cose naturali, così sei stato pensoso e solitario, chè tutto il dì sei andato per questi luoghi fuggendo la compagnia. E non sono, credo, cinque giorni che essendo il conte di Celano ed io là su quel poggetto, ti vedemmo tutto solo qui a questa fontana starti piangendo, e più d’un’ora stemmo a mirarti, che tu sempre lagrimando e spesso levando gli occhi al cielo dimostrasti. – Ecco, – mi disse il conte di Celano, – a che termine è condotto il marchese di Cotrone per la signora Lionora Macedonia moglie del signor Giovanni Tomacello. Egli l’ama e sèguita già sono molti dì, ma ella che è sdegnosa com’un can bottolo, di lui nè di cosa che si faccia punto non si cura, che, per l’anima di pàtremo, m’è venuto più volte voglia di sgridarlo e fargliene un gran romore. Ma perciò che io non ho seco molta domestichezza rimasto mi sono, e nondimeno io l’amo come mio fratello, sapendo quanto è onorato e gentil cavaliero. A te, signor Galeazzo, starà bene, che sei suo domestico, a levarlo fuora di questo laberinto. – [p. 363 modifica]Io gli promisi di farlo con la prima comodità che mi occorresse, ancor che mi sia molte altre fiate deliberato di farlo. Ma ora egli sarà assai per tempo, se avviene che le mie parole fruttino a te la tua libertà. Egli sono già alquanti anni che tu ami costei, e se pensassi che il tuo amore fosse segreto, tu largamente t’ingannereste, perciò che non è favola in Napoli più nota di questo tuo amore, e ciascuno ne parla e infinitamente si meraviglia che tu ti perda dietro a costei, essendo la più sdegnosa e superba femina che si truovi. E tu pur sì fitto in lei ti sei che ad altro l’animo rivolger non puoi. Le spese che tu per lei fatte hai lascio andare, perciò che questo è il minor male che ci sia, chè essendo, come sei, in Sicilia e qui nel Regno ricchissimo, per aver fatte le fogge che fatte hai e comparso sempre su le feste e su le giostre pomposamente, hai il tuo e mio signore onorato e acquistato nome d’esser il più liberal e splendido barone che sia in corte, il che non poco caro esser ti deve. Del tempo poi perduto dietro a costei, d’aver mill’altre vie utili ed oneste lasciate da parte, d’esser di te stesso quasi ogni dì micidiale e andar d’ora in ora di mal in peggio, questo ben ti deveria calere e di questo per amor tuo a me ne vien di continovo dolor infinito, e tanto più quanto io sento dirsi sovente in corte da tutti, che tu dietro a costei sei in modo perduto che più di nulla ti cale e che di te più non sei signore. Molti sono ancora che, come di te si favella, dicono che tu più non sei il solito marchese di Cotrone, ma che sei trasformato in Lionora Macedonia e che altro dio tu non hai al mondo che lei, la quale tanto di te e de le cose tue fa stima, quanto tien cura de le prime scarpette che mai le furono poste in piede. Nè creder già che questo dichino chè mal ti voglino; ma la pietà che di te hanno, l’amore che ti portano e il desiderio che in loro regna di trarti fuor di questo inferno, gli astringe a dir ciò che favellano ed aver di te compassione. E per Dio! a dirti liberamente il vero, tu ti sei pur lasciato fuor di misura a l’appetito trasportare. Tu che ne l’altre cose tue sempre dimostrato ti sei prudentissimo, in questa impresa sei di modo accecato che hai dinanzi agli occhi la tua manifesta morte e, che peggio è, la vergogna, il vituperio e il biasimo eterno del tuo nome, e nol vedi. Tu che nel mestieri de l’arme sotto il nostro glorioso re Alfonso tante volte hai le squadre nemiche rotte, e le genti a te commesse per mezzo i nemici a salvamento condotte, ora te regger non sai e in luogo sicuro ritrarti non puoi, anzi da una feminella vinto, a lei per schiavo ti sei reso e come fanciullo dinanzi al maestro [p. 364 modifica]che lo sferza, tremante te ne stai. Ma da qual femina, Dio buono, sei tu vinto? Non negherò già che non sia de le belle giovani di Napoli e nobilissimamente nasciuta ed altresì in nobile e ricco gentiluomo maritata, perciò che negarei quello che ciascuno vede e sa. Ma dimmi: qual vertù è in lei? che costumi degni di commendazione ci hai veduti? che modi donneschi e leggiadri in lei hai notati? che accoglienze, che maniere e quai sembianti di gentilezza t’è paruto conoscere che meritin lode? Dirà forse alcuno: «Ella è casta e onesta, e non vuol far cosa che possa nè a sè nè al marito suo recar infamia». Sta bene: cotesto è ben fatto, perciò che la donna, come ha perduto l’onestà, ha perduto tutta la gloria e tutto il ben suo. Ma quelle che veramente sono oneste, quelle che bramano per tali esser tenute, sono gentili e cortesi, e se vedeno che uomo ci sia che cerchi espugnar la lor pudicizia, fanno loro intender con bel modo che si levino da l’impresa e che eglino pestano acqua nel mortaio e lavano i matoni. Non sono come è costei, sdegnose, superbe, capricciose e piene di mille tristi vezzi. Non vedi che questa che tu segui non si cura di te, e meno cura che tutto il mondo sappia che per lei tu faccia sì strana e penosa vita? E il tutto avviene per ciò che ella in sè non ha nè costumi nè gentilezza. Questa sua beltà che tu tanto apprezzi è come un fiore, che il matino bello appare e la sera languido e secco si mira. Un poco di febre e il corso del tempo ogni bellezza le involeranno, e resterà un pezzo di carne senza bene alcuno. Dunque una semplice bellezza senza il fregio di qualche vertù terrà l’animo tuo sì vituperosamente legato? Perdonami, fràtemo, e odi pazientemente il vero. Veggio che tu ti adiri, chè il viso tuo cangiato me ne dà indizio. Turbati e adirati quanto vuoi, chè poi che ho cominciato a scoprirti l’error tuo, io seguirò il camino col lume de la verità. E se tu metti un poco da canto questa tua amorosa passione che ti acceca, vedrai che io dico il vero, e se ben adesso mi vuoi forse male, col tempo me ne vorrai bene, chè a lungo andare questa tua pazienza infinita resterà vinta e conoscerai da te stesso l’errore ove sarai tanto tempo dimorato. Ma questi tali pentimenti sono di poco profitto. Quello che il tempo, che è padre de la verità, ti farà col' 'suo veloce corso conoscere, fa che tu con la prudenza tua ora conosca, e sarai da tutti commendato. Ov’è l’ingegno tuo? ove è il valore? ove è l’avvedimento e il discorso de l’intelletto che tante fiate ne l’imprese marziali t’ha fra gli altri fatto tanto di onore? ov’è il pregio de la tua cavalleria che hai acquistato, non farneticando dietro a femine e a vani amori, [p. 365 modifica]ma operando cavalerescamente? ove sono tante altre doti tue che in questa corte ti fanno così riguardevole? Certo che di te troppo mi duole, e troppo mi spiace vederti perduto come ti veggio. Nè voglio già ora diventar un frate e predicarti la castità e l’aborrire tutte le donne, chè so che sei ancor giovine e che difficil cosa è a chi vive delicatamente e in libertà astenersi dagli abbracciamenti de le donne. Io vorrei che tu amassi ove l’amor tuo fosse ricambiato, o almeno avessi speranza dopo la fede e lunga servitù aver qualche guiderdone. Ma tu ami costei che t’odia e che è più superba e ritrosa che il nemico de l’umana natura. Non è ancor guari che essendo io a Santa Maria Piedigrotta con una nobilissima e bella compagnia di dame a cena ne l’amenissimo giardino del Caracciolo, che a caso si parlò di Lionora Macedonia moglie del Tomacello; de la quale tutte dissero che in effetto era bellissima, ma che non era possibile che una così superba, sì disdegnosa e poco cortese si potesse trovare, e che non aveva compagnia di parente nè d’amica con la quale potesse lungamente durare, perchè si stima più che persona del mondo e non degna nessuno, sia chi si voglia. Questo è il nome che questa tua donna appo uomini e donne s’ha con le sue sì schifevoli maniere acquistato. Il perchè usa omai la libertà de l’arbitrio tuo e getta a terra questo così gravoso peso che non ti lascia respirare. Purga questo mortifero veleno che il cor t’ammorba. E se pur amar vorrai, non ti mancheranno belle donne, gentili e vertuose, che averanno caro d’esser da te amate e di reciproco amore t’ameranno. Pon fine omai a questo tuo male, chè quanto più tarderai tanto ti sarà maggiore, e potria di modo fermarsi che diverria peggio che il fistolo. Mettiti di prima Iddio innanzi agli occhi, poi gli amici e l’onor tuo e la vita, chè in vero n’è ben tempo omai. Ed io per ora non saperei che più dirti. – Qui tacque il Pandono aspettando ciò che il marchese risponderebbe. Il quale, dal vero ed onesto parlare de l’amico trafitto, stette un poco senza dir nulla, tutto nel viso cambiato; ma dopo un gravissimo sospiro così rispose: – Io conosco assai chiaramente, signor mio, tutto esser vero quello che ora così amorevolmente m’hai dimostrato, e senza fine te ne resto ubligatissimo. Vivi allegramente, chè a sordo cantato non averai nè spese le tue parole invano. Io spero con l’aiuto del nostro signor Iddio che tutto Napoli conoscerà il profitto che le tue vere parole in me faranno. E per questa mano che ora ti tocco, io t’impegno la fede mia da leal cavaliero, che io ora in tutto ammorzo quelle voracissime e ardenti fiamme che fin qui per la beltà dannosa de la Macedonia [p. 366 modifica]m’hanno distrutto ed arso, e così il nome suo e la rimembranza mi levo dal core, che in me luogo non averanno già mai. Nè più di lei si ragioni. Andiamo, che io veggio il signor duca che va verso l’alloggiamento. – Queste parole dette, si levarono ed entrarono in altri ragionamenti seguitando il camino del duca. Quel giorno stesso pensando il Ventimiglia che era ben fatto che per qualche tempo stesse fuor di Napoli, pigliata l’oportunità del tempo, chiese licenza al duca d’andar in Calabria a Cotrone al suo marchesato e poi passar in Sicilia. Avuto il congedo, se ne venne a Napoli a far riverenza al re Alfonso; e dato ordine a’ casi suoi, cavalcò in Calabria e vi dimorò qualche dì. Dapoi se ne passò in Sicilia, ov’erano molti anni che non era stato. Nè crediate che egli stesse in ozio: egli cavalcò tutta l’isola, veggendo ogni dì cose nuove e macerando con le continove fatiche l’appetito che talvolta la beltà de la Macedonia gli appresentava e quasi lo faceva pentire' 'd’esser partito. Tuttavia ancor che spesso egli fosse tentato di ritornarsene e provare per qualche tempo se poteva con perseveranza romper la durezza de la donna crudele, tanto in lui potè la ragione che egli in tutto la gittò dopo le spalle; e in lui essendosi quell’indurato affetto molto rallentato, cominciò con sano giudizio le durezze di quella e gli sgarbati modi a considerare. Onde sentendosi del tutto esser libero, deliberò ritornarsene a la corte. E così essendo stato circa sette mesi fuori, tornò a Napoli, e mai più non passò dinanzi la casa de la donna, se per sorte non si trovava in compagnia d’altri che facessero quella via. Alora se ben ella era a le finestre od in porta, egli faceva vista di non vederla, nè più nè meno come se mai veduta non l’avesse. Nè in Napoli dopo il ritorno di Sicilia stette dui mesi, che ciascuno s’avvide di questa mutazione, e ne fu da tutti sommamente commendato, tanto era a tutti la ritrosa natura de la Macedonia in fastidio. E perchè come dice il divin poeta messer Francesco Petrarca che a questa malizia d’amore altro rimedio non è che da l’uno sciogliersi e a l’altro nodo legarsi, come d’asse si trae chiodo con chiodo, ancor che de l’amor de la signora Lionora fosse libero, nondimeno se qualche scintilla di fuoco era sotto le vecchie ceneri sepellita, egli del tutto l’estinse, perciò che a nuove fiamme il petto aperse, cominciando a riscaldarsi de l’amor d’una giovane molto bella, la quale, conosciuto il vero amor del cavaliero, non si dimostrò punto schiva, di modo ch’egli acquistò la grazia di lei ed ella di lui. Di questo secondo amore trovandosi il signor Ventimiglia molto contento ed ogni dì [p. 367 modifica]più ritrovando la donna costumata e cortese, in tutto si scordò la prima amata, ma seco di se stesso si vergognava che mai amata l’avesse. E di tal sorte in questo secondo amore si governò che nessuno mai se n’accorse. Era già quasi passato un anno dopo il ritorno di Sicilia in Napoli del signor Ventimiglia, quando avvenne che al signor Giovanni Tomacello marito de la Macedonia fu da alcuni suoi parenti mossa una molto intricata lite, in modo che per alcune scritture alora ritrovate dagli avversari suoi era il Tomacello a periglio grandissimo di perder roba per più di quaranta mila ducati del suo patrimonio. Il che in quanto travaglio lo mettesse, pensilo ciascuno che a simil rischio si ritrovasse. Piatendosi dunque questa lite dinanzi al Gran conseglio del re, e al Tomacello parendo che i suoi avversari avessero più favore di lui, e per questo temendo rimaner perdente de la lite, non sapeva che si fare. Aveva egli consegli dei più eccellenti dottori del regno che la ragione era per lui, ancor che fosse molto intricata. Egli fu da qualche amico suo consegliato che devesse ricorrer ad uno dei favoriti di corte, a ciò che la lite senza tante prolungazioni si determinasse, perciò che i parenti suoi, avendo il favore che avevano, cercavano far depositar i beni che si piativano, e poi menar la lite in lungo; il che se si metteva in essecuzione, era la total rovina del Tomacello. Onde egli considerando bene tutti gli uomini di corte e pensando di cui meglio si poteva prevalere, fu consegliato che ricorresse al marchese di Cotrone, perchè non ci era persona in corte più servigiale nè più cortese di lui, ed era il più favorito del duca di Calabria e molto dal re Alfonso amato. Il Tomacello che niente mai aveva inteso de l’amor del marchese con la moglie ed altre fiate aveva sentito predicar la liberalità, umanità, cortesia ed affabilità con altre rare doti che in quello erano, ancor che seco domestichezza non avesse, deliberò andargli a parlare ed impetrar da lui che in questa lite lo volesse favorire. Fatta tra sè questa deliberazione, non diede indugio a la cosa; ma il seguente giorno, subito che ebbe desinato, montò su la mula e a casa del marchese se n’andò, che abitava presso a seggio Capuano. Smontato, trovò a punto che il Ventimiglia aveva finito il desinare e a tavola s’interteneva con alcuni suoi amici e gentiluomini che seco erano stati a pranzo. Egli di lungo entrò in sala e fece la debita riverenza al marchese, il quale, come quello che era gentile ed umanissimo, come vide entrar il signor Giovanni Tomacello, si levò da sedere e andogli incontro, e con graziosa accoglienza lo raccolse e gli dimandò ciò che andava facendo. – [p. 368 modifica]Io vengo, – rispose il Tomacello, – per parlar di secreto per certi miei affari con teco. – Il marchese, udendo questo, forte se ne meravigliò, e presolo per mano, lo condusse in un bellissimo giardino, ove passeggiando e la bellezza del verzieri commendando, che era pieno di naranci, limoni, cedri ed altri fruttiferi arboscelli con mille varietà di vaghi ed odorati fiori, in una loggetta che dal sole era diffesa si posero a sedere. Poi che furono assisi, così il Tomacello a dir cominciò: – Ben che per il passato, splendidissimo signor marchese, teco amicizia o domestichezza non abbia avuta, nè mi sia occorso poterti far servigio alcuno per cui io debbia presumer di chiederti il tuo favore in un mio importante bisogno, nondimeno il nome che in questo regno appo tutti acquistato t’hai d’esser cortesissimo e mai non negar piacer a nessuno che ti ricerchi, m’ha dato animo che io, forse da te non conosciuto, venga a supplicarti che tu degni spender venticinque parole in mio favore. Io sono Giovarmi Tomacello gentiluomo di questa città, a cui nuovamente certi parenti miei, anzi pur mortali nemici, hanno mosso lite per la quale, ottenendo la vittoria, mi leverieno vie più de la metà del mio patrimonio. Io ho fatto veder le mie scritture, e mi dicono i miei dottori che ancora che il caso sia molto intricato, che nondimeno io ho ragione. Ma i miei avversari, per il favore che in Conseglio hanno, cercano farmi depositar quella parte de le facultà che si mette in lite, e poi menar la questione in lungo, con speranza, dicono essi, di ricuperar altre scritture. Il depositar la metà dei miei beni sarebbe la mia rovina, ed io essendo in possesso già tanti anni sono, vorrei in quello perseverare e far che la lite avesse presta spedizione. E questo senza il tuo favore ottener non posso. Onde umilmente ti supplico che essendo tu, come è la fama, liberale a ciascuno de le tue facultà, che a me non vogli esser scarso di parole, chè ottenendo per mezzo tuo la sentenza per me, come spero e vuole la giustizia, io ti resterò eternamente ubligatissimo de la roba, de la vita e de l’onore, oltre che in parte farò tal cosa che conoscerai non aver speso le tue parole per uomo ingrato. Basta che col mezzo tuo mi sia fatta giustizia quanto più tosto si può. – E qui il Tomacello si tacque. Alora il marchese con lieto viso in questa forma al Tomacello disse: – Io sarei contento, signor mio, che il favore che tu mi chiedi non ti bisognasse, non perchè io sia per negarti in questa tua lite tutto quello che per me si potrà, chè il tutto farò io di core, ma perchè vorrei che le cose tue fossero in quello assetto che tu [p. 369 modifica]desideri. Io ti ringrazio ed ubligato ti sono del bene che di me dici, ed ancor che in me non sia quello che di me si predica, mi piace perciò esser tenuto tale, e quanto per me si può mi sforzo che l’opere mie a la fama corrispondano. Tutto quello che io potrò far a tuo profitto, vivi sicuro che io lo farò con quella prontezza e diligenza che usarei ne le cose mie proprie. Se seguirà buon effetto, mi sarà tanto caro quanto a te proprio. Se anco, che Dio nol voglia, il contrario succedesse, non sarà che io non abbia fatto il debito mio. Ma avendo tu ragione come mi affermi, io spero che dimane prima che il sole s’attuffi sentirai qualche buona novella, perciò che, innanzi che ceni, io alla cosa tua darò tal principio che il fine non sarà se non buono. A le proferte che in ultimo fatte m’hai, se sono di restarmi amico e fratello, io te ne ringrazio e mi parrà oggi aver fatto un grandissimo acquisto. Ma come mostri con le parole che tu accenni, se pensassi donarmi cosa alcuna, dico che se io fossi mercadante o per premio servissi, che forse l’accettarei. Ma essendo Giovanni Ventimiglia, la mia professione è da gentiluomo e da cavaliero e non' 'da mercadante. Il perchè averei io cagione di rammaricarmi di te, che a la mia cortesia cerchi far questo incarco. Questo non è quello che poco dianzi mi dicevi che di me si predica. Io nacqui di cavaliero e di signore il cui valor e fama ancor in Sicilia risuonano, e dal mio magnanimo re fui cavaliero e marchese fatto, tale forse qual a sua cortesia parve che la mia vertù od almeno l’openione ch’ebbe di me lo meritasse. L’oro che al collo portar mi vedi nol porto io per segno di mercantare, ma per dimostrar in me del mio glorioso re la liberalità e cortesia, ed altresì per usarlo e spenderlo cavallerescamente. Onde oltra al servigio che da me di parole ricerchi, quando de le facultà mie avessi bisogno di prevalerti, io tanto t’offero quanto ne vuoi. E se di questo farai l’esperienza, ritroverai molto più in me per l’opere che io farò, che non è quello che io con parole t’offerisco. – Il Tomacello, avuta la promessa e questa magnanima offerta dal Ventimiglia, si tenne per ben sodisfatto e quello senza fine ringraziò, offerendosi per la pariglia con le più amorevoli parole che seppe. E così tutto pieno di buona speranza a casa se ne ritornò, e a la moglie disse tutto quello che col marchese di Cotrone aveva operato. Ella forte si meravigliò de l’umanità del cavaliero, e senza dir altro al marito si venne ricordando tra sè la lunga servitù del marchese, lo spender largamente che fatto aveva, l’armeggiare, le magnificenze e tante cortesie da lui per amor di lei usate, e [p. 370 modifica]che mai a quello non aveva compiaciuto d’una sol vista d’occhi, onde era astretta a credere che costui fosse il più compìto uomo che si trovasse. Ora partito che fu il Tomacello de la casa del marchese, andò esso marchese a corte e caldamente col re e col duca parlò del negozio del Tomacello, di maniera che il re, chiamato a sè un suo cameriero, lo mandò a parlar a tutti i conseglieri e strettamente comandargli che, per quanto loro era cara la grazia dei re, il giorno seguente pronunziassero la sentenza de la lite che vertiva tra Giovanni Tomacello e i suoi parenti. I conseglieri, avuto questo comandamento, lo posero in essecuzione, perciò che essendo il processo in termine che si poteva giudicare, mandarono le citazioni a le parti che la seguente matina fossero a udir dar la sentenza de la lite che tra loro si piativa. L’altro dì i giudici congregati, essendo già per lo innanzi stato il caso tra gli avvocati pienamente disputato, e conoscendo tutti che la ragione era per Giovanni Tomacello, a favor di quello la diffinitiva sentenza pronunziaro; la quale il Ventimiglia, per far il servigio più compìto, fece da uno dei suoi rilevare e autenticata la mandò al Tomacello. Al quale questa parve una bella ed alta ventura, e quanto seppe e puotè ne ringraziò il marchese, e cominciò spesso a visitarlo ed anco a mangiar seco. Ma per questo non venne perciò al signor marchese mai in pensiero di voler la moglie di lui rivedere o di ritornar a la prima impresa, anzi, come dianzi faceva, nè più nè meno di lei si curava come se mai conosciuta non l’avesse. Dopo questo, cavalcando il duca di Calabria per la città, un giorno dopo cena passò per innanzi a la casa del Tomacello, il quale con sua moglie era in porta a prender l’aria fresca de la sera. Avvenne alora che il Ventimiglia ch’era restato con un gentiluomo molto di dietro a la cavalcata e veniva passo passo ragionando con colui, che come egli fu quasi per iscontro a la porta de la casa del Tomacello, egli, lasciata la moglie, a mezza la strada si fece incontro al marchese e strettamente il pregò che con la compagnia volesse smontare e rinfrescandosi ber un tratto. Il marchese ringraziò il Tomacello e non volle accettar l’invito, ma di lungo se ne passò, seguitando il duca. La donna alora, come se scordata si fosse il gran beneficio che poco avanti aveva suo marito dal marchese ricevuto, disse: – Che hai tu a fare, marito mio, col marchese Ventimiglia, che sì affettuosamente l’hai invitato in casa? – Egli alora con turbato viso a la moglie rivolto: – Per l’anima di pàtremo, – disse, – io' 'non credo che sia al mondo la più ingrata femina di te. Tu non sei buona se non [p. 371 modifica]da polirti, specchiarti e tutto ’l dì cercar fogge nuove e startene sul tirato come se tu fossi prencipessa di Taranto, e sprezzar quanti uomini e donne sono in questa città. Può egli essere che ti sia già uscito di mente il gran piacere anzi beneficio che il marchese questi dì n’ha fatto, che possiamo dire che egli ci abbia donato la maggior e meglior parte de le facultà che abbiamo? Se egli non era, non eravamo noi rovinati in terza generazione? Certo noi siamo ubligati basciar la terra ov’egli tocca con i piedi. Io per me conosco essergli ubligato de la vita propria non che de la roba, e voglio che sempre possa di me e de la roba mia disporre come de le cose sue proprie. E possa io essere ucciso se al mondo conosco par suo, chè quando egli mai non m’avesse fatto piacer nessuno, deve perciò per le sue rare doti esser da tutti amato, riverito ed onorato. Egli è nobile, cortese, gentile, umano, liberale, magnifico, servigiale e il più generoso signore che mai fosse in questa città, e per le sue vertù è fin dai sassi amato. E per Dio! non ci è così gran barba d’uomo che non abbia di grazia essergli amico, e tu non vuoi che io l’onori e festeggi? La sua modestia e i suoi leggiadri costumi farebbero innamorarsi in lui un cor di marmo. Sì che, mógliema, io sono per lui ubligato a vie maggior cosa che non è d’invitarlo a far colezione in casa mia. Volesse pur Iddio che io gli potessi far qualche rilevato servigio! come di core il farei! – Queste parole trafissero senza fine il core de l’ingrata e superba donna, la quale senza risponder motto alcuno al marito se ne stette, e più tosto che puotè, da quello sviluppatasi, se n’andò in camera, ove gettata sul letto a le lagrime allargò il freno. Il marito come vidde partir la moglie conoscendo la natura di quella che non voleva in conto alcuno esser garrita, montò su la mula e andò per la città a diporto. Ella sentendosi tuttavia un rimordimento al core, che pareva che da le profonde radici le fosse fieramente svelto, ad altro non poteva rivolger l’animo che al marchese, di maniera che quante cose egli mai per lei fatte aveva, tutte ad una ad una se le rappresentavano innanzi agli occhi. E rimembrando la durezza, la crudeltà e la superbia che contra lui tante fiate usò, si sentiva di doglia morire. Che diremo qui, signori miei e voi signore nobilissime? Quello che in tanti anni con balli, feste, canti, giostre, torniamenti, suoni e con larghissimo spendere, lagrimando, ardendo, agghiacciando, sospirando, servendo, amando, pregando, e tutte quelle summissioni ed arti usando che Lucrezia a Tarquinio averebbero resa amica, non puotè il valoroso e gentilissimo marchese [p. 372 modifica]fare, fecero le semplici parole e vere del malaccorto marito. Le quali quel superbo e indurato core di maniera umiliarono e resero molle, che ella, sempre stata rubella d’amore, sentì in un punto così accendersi ed infiammarsi de l’amor del cavaliero, che quasi le pareva impossibile viver tanto che seco una volta ragionar potesse, e le voraci fiamme, che miseramente la struggevano, manifestargli. Il perchè quella sera stessa deliberò di ritrovar ad ogni modo la via d’esser seco. Tutta quella notte ad altro mai non puotè rivolger l’animo. Venuto il giorno, a la donna sovvenne del messo che il marchese mandato con la lettera le aveva, onde per mezzo d’una buona vecchia ebbe modo di parlargli e a lui scoprire quanto desiderava che col signor Ventimiglia egli facesse. Il messo, udita la donna, la confortò assai, dicendole che teneva per fermo che il marchese ancora l’amasse e che gli dava il core di condurlo a favellar seco; del che la donna mostrò meravigliosa festa. Andò il messo e trovato il marchese, gli disse: – Signor mio, io ti porto una meravigliosa nuova la quale penso che mai non saperesti indovinare. Non sai tu che la signora Lionora Macedonia, pentita di tante stranezze che teco ha usate, è tutta adesso tua ed altro non desidera che compiacerti, pregandoti molto caldamente che tu' 'voglia degnarti oggi, su l’ora di nona, andarle a parlare, che ella ti attenderà nel giardino che risponde dietro la casa, e l’uscio del giardino sarà aperto? Messer Giovanni Tomacello suo marito stamane andò a Somma e non sarà di ritorno questi otto dì. – Il marchese a simil ambasciata molto si meravigliò, ed infinite cose tra sè ne l’animo ravvolgendo e stando in dubio s’andar vi deveva, al messo così rispose: – Io ho alcune faccende oggi di grandissima importanza. Se averò tempo a l’ora che detto m’hai, io anderò a parlar a la signora Lionora. – Partito, il messo ritornò a la donna e le disse che il cavaliero verria a l’ora prefissa. Ma il signor Ventimiglia, che in tutto s’aveva de l’amor de la donna spogliato, attese ad altro e non v’andò. Ella tutto il giorno attese la venuta dei marchese e, quello non veggendo venire, restò molto dolente. Essaminò il messo e diece volte si fece ridir le parole che ’l marchese gli aveva detto. Onde credendo che per negozii di gran momento fosse rimasto di venire o che forse avesse avuto rispetto di venirle a casa, ritornò mandargli un’altra volta il messo e pregarlo che il tal dì a la tal ora egli le facesse grazia di ritrovarsi in certa chiesa che non era frequentata. In questo mezzo ella dubitava che il cavaliero avesse convertito il suo ferventissimo [p. 373 modifica]amore in odio, e biasimava se stessa di tanta durezza quanta gli aveva usata. Parevale poi impossibile che tanto amore si fosse del tutto estinto. E quanto più ella tardava a scoprir la sua passione al cavaliere, tanto più si sentiva struggere e il suo fuoco farsi maggiore. Il cavaliero, avuta la seconda ambasciata, si deliberò andar a veder ciò che ella voleva dire, non si sapendo imaginar onde questa subita mutazione fosse nasciuta. Venuto il tempo di ritrovarsi a la chiesa, avendo la donna avuta la certezza che il cavaliero a l’ora pattuita verrebbe, si vestì ricchissimamente, e fattasi più polita e più leggiadra che puotè, accrescendo maestrevolmente con l’arte le native sue bellezze, al segreto tempio si condusse, ove poco innanzi era con un picciolo paggio, che il cavallo di fuora gli teneva, il marchese arrivato. Quivi ella, con tre donne e dui servidori giunta, vide il marchese che solo passeggiava, al quale andando incontra, cortesemente lo salutò, ed egli lei. E così fattosi le debite accoglienze, disse il cavaliere: – Signora, voi, piacendovi, mi perdonarete se io l’altra volta non venni a casa vostra, perciò che le faccende che per le mani aveva nol permissero. Ora io son venuto per udir quanto vi piacerà dirmi. – La donna dopo alquanti pietosi sospiri che dal profondo del core le venivano, i dui suoi begli occhi pietosamente nel viso al signor marchese fermando, in questa maniera con sommessa e tremante voce a parlar cominciò: – Se io, unico signor mio, fossi stata verso te tale, quale la tua vertù sempre ha meritato, potrei molto più arditamente dinanzi a l’alto e magnanimo tuo cospetto i prieghi miei porgere; ma quando io penso la mia ingratitudine e la durezza esser verso te stata più che infinita, e che mai non ho degnato d’un solo sguardo compiacerti, non ardisce la fredda lingua quello dirti che per supplicarti qui venuta sono. E nel vero, se solamente a quello che io merito avessi riguardo, come mai sarei stata osa venirti innanzi? Ma la tua umanissima umanità, la tua sì larga cortesia di cui tanto sei commendato, mi dànno animo non solamente di manifestarti il desiderio mio e liberamente spiegarti il mio concetto, ma mi promettono che io appo te ritroverò pietà non che perdono. E che altro da così gentil e magnanimo cavaliero, la cui professione è giovar a tutti, si deve sperare? Io, signor mio, se fin qui son stata cieca e trascurata, ora ho aperto gli occhi, ed avvedutami de la mia pazza ostinazione, de le tue singolar vertù e rarissime doti son divenuta non solamente ammiratrice ma serva, di maniera che senza l’aita tua, senza la grazia e senza l’amore non è possibile [p. 374 modifica]che io resti viva. Nè creder già, signor mio, che tante spese da te inutilmente per me fatte, tante feste, tanto tempo che' 'perduto hai e tante altre cose quante già per me indarno facesti, mi sia smenticata, nè che altresì abbia dopo le spalle gettata la mia crudeltà, l’ingratitudine e la poca stima che di te ho fatto, perciò che tutte queste cose ho io dinanzi agli occhi de la mente mia, che mi sono di continovo un mordace verme intorno al core, onde tanta pena ne ricevo che il morire sarebbe assai minore. Pertanto io ti confesso il mio gravissimo errore e umilmente perdono te ne chieggio, e ti supplico che per umil serva degni accettarmi, chè per l’avvenire ad ogni tua voglia ubidientissima mi troverai, rimettendo io ne le tue mani l’anima e la vita mia. E qual maggior ventura può egli l’uomo avere che vedersi il nemico suo prostrato dinanzi ai piedi gridante mercè? Questo ora vedi tu, signor mio, perciò che la tua buona sorte vuole che quanto contra te commisi già mai, ora con doppia pena io paghi. Se questi miei che in chiesa sono non mi vedessero, io mi gettarei a terra e gridando misericordia ti basciarei mille volte i piedi. Eccomi adunque qui tutta tua: fa di me ciò che più t’aggrada. Se per vendetta de le passate tue fatiche brami ch’io mora, dammi con quella spada che cinta porti, di tua mano la morte, chè ad ogni modo, se io non ho la grazia tua, vivi sicuro che in breve la mia vita finirà. Ma se favilla del mal guiderdonato tuo amore che già mi portasti ancor in petto porti, se tu quel magnanimo prencipe sei che tutto questo regno grida, degnati aver di me pietà. E se forse saper desideri come sia nasciuta questa mia subita mutazione e onde creato questo mio ferventissimo amore verso te, io lo ti dirò. Il mio marito, che più di sè t’ama e che tanto t’è ubligato, questi dì mi fece una predica de le tue lodi, e tanto ti commendò che gli occhi miei, che accecati erano, alora s’apersero, onde così fervidamente di te mi accesi e sì mi sentii divenir tua che più in poter mio non sono. Per questo qui venuta sono a manifestarti il mio disire, a ciò che una de le due cose ne segua, cioè o che io viva tua o ch’io mora. Ne la tua mano adunque sta la vita e la morte mia. – E dicendo questo lasciò cader un nembo di lacrime, e da’ singhiozzi impedita si tacque. Mentre che la donna parlò, il marchese stette cheto ad udirla e mille e mille pensieri tra sè fece. Egli la vedeva più vaga che mai, e il dolore in lei accresceva beltà e grazia, di modo che veggendola disposta a far tutto quello che egli comandarebbe, si sentì destar il concupiscibile appetito, che gli persuadeva che [p. 375 modifica]egli, compiacendole, di lei prendesse amoroso piacere e con buona risposta e ordine d’esser insieme la mandasse consolata. Ma più in lui puotè la ragione che il senso. Onde, poi che vide che impedita dal piangere nulla più diceva, in questo modo le rese la risposta: – Non poco, signora Lionora, del tuo venir a parlar meco meravigliato mi sono, e quanto più sovra ci penso più me ne maraviglio, e a pena, quantunque qui ti veggia, il credo, avendo risguardo al contegno che tanti anni rigidamente meco usasti. Quello che io per il passato feci, essendo fieramente di te innamorato, non accade che mi sia ricordato, perciò che di continovo come in un lucidissimo specchio lo veggio molto chiaro, e meco stesso di me mi vergogno. E se io alora per te arsi ed alsi e se sovente fui vicino a la morte, sanlo questi dui occhi miei che in quel tempo avevano preso qualità di due fontane. Me ne può anco esser testimonio tutta la città di Napoli, che le mie ardentissime voglie e le gelate paure tante volte vide. Il premio al mio servir sì lungo, sì penace, sì costante e sì fedele, come tu con verità hai detto, fu niente. Nè io questo attribuii ad ingratitudine che in te fosse, non a durezza o crudeltà, anzi portai sempre ferma openione che a’ colpi d’amore ti dimostrassi rubella per conservar senza macchia il pregio de la tua invitta onestà. Il che, poi che io chiaramente m’avvidi affaticarmi invano, ho io sommamente commendato, e dove di te s’è parlato, accusando molti la tua durezza, io sempre con vere lodi t’ho celebrata come una de le' 'più caste e pudiche donne del mondo. Che novamente mò, per le lodi che il signor tuo marito di me predica, tu ti sia piegata ad amarmi, ed in quel laberinto entrata ove io prima chiuso acerba ed amarissima vita viveva, tanto più mi par strano quanto che a la tua passata vita volgo la mente. Ma se m’ami come ricerca la nuova amicizia che io col signor tuo consorte ho contratta, questo m’è caro e te ne ringrazio, e t’essorto in questo a perseverare, perciò che amando lui, come amo, da onorato fratello, amerò te da vera sorella, e sempre in tutte quelle cose che l’amicizia nostra ricerca mi troverai a’ servigi tuoi prontissimo. Ora se altro pensiero in petto hai e desideri che io ritorni al giogo antico, e che sarai eternamente mia e farai quanto io vorrò, depuon questo sensuale e disordinato appetito e persevera nel tuo casto proponimento, come fin qui mi persuado che sia stata tutta la tua vita. Che cessi Iddio che mai io pensi fare ingiuria al signor tuo marito, amandomi egli, come da te mi vien detto, da fratello. Poi quando altro rispetto unqua non [p. 376 modifica]ci fosse, evvi che io la mia fede a nobilissima e non meno di te bella donna ho data, la quale a par e più degli occhi suoi mi ama, ed io lei come il cor del corpo mio amo, riverisco ed onoro, e viviamo tutti dui sempre d’un medesimo volere essendo. Sì che per l’avvenire mi terrai come se tuo fratello fussi. – Qui si tacque il marchese, e veggendo che la donna s’apparecchiava con nuovi preghi più focosi de’ primi a ripregarlo, per troncar questa pratica disse: – Signora Lionora, a te mi raccomando. Sta con Dio. – E con questo si partì e lasciò la donna tanto confusa e di mala voglia, che ella restò buona pezza stordita e non sapeva ove si fosse. In sè poi ritornata e tutta afflitta, a casa se n’andò, ove pensando a la risposta del marchese e veggendo che egli non era disposto a far cosa che ella volesse, venne in tanta malinconia che di sdegno e di cordoglio infermò. Sapete esser commune openione che a le donne non può avvenir cosa che loro apporti maggior tormento nè più le trafigga, quanto è che si veggino disprezzare. Pensate mò come si deveva trovar costei, che era da tutti tenuta la più altiera, superba e sdegnosa donna che in Napoli si trovasse. Messasi adunque nel letto, non faceva tutto il dì altro che sospirar e piangere. Da un canto talor pareva a lei che ella meritasse molto peggio di quello che aveva, pensando a la durezza e rigidità che contra il cavaliero aveva per lo passato usata, e il tutto le pareva dever pazientemente sofferire. Ma come ella si ricordava averlo sì umilmente pregato ed essersi poi di bocca propria a lui scoperta, smaniava e non voleva più vivere. Da l’altra banda, ingannando se stessa, diceva fra sè: – Perchè mi voglio io disperar così fieramente per una semplice repulsa? Egli molti anni m’ha seguitata, e perchè io non l’abbia voluto udire nè ricever sue lettere nè ambasciate ed ogni dì me gli sia mostrata più ritrosa, per questo egli non s’è sbigottito, non s’è ritirato da l’impresa, non è voluto morire, anzi più perseverante sempre s’è dimostrato. Che so io ch’egli, se un’altra volta gli parlo, se gli dico meglio la mia ragione, non si pieghi e non divenga mio? La fortuna aiuta gli audaci e discaccia i timidi. Chi fugge non ha animo di vincere. Bisogna adunque che io un’altra volta tenti quello che saperò fare e gli porga le preghiere più calde che non ho fatto. Io non deveva mai proporli di parlargli in chiesa. Deveva far ogni cosa per farlo venir qui in casa mia, chè se fossimo stati in una camera ed io gli avessi gettate le braccia al collo, non credo già che si fosse dimostrato così ritroso. Egli non è già fatto di marmo o di ferro, egli è pure di carne e d’ossa [p. 377 modifica]come gli altri. – Così la povera donna se ne stette vaneggiando dui o tre giorni, e ad altro non sapeva nè poteva rivolger l’animo che a pensar ciò che deveva fare per conquistar l’amore del marchese. E da non so che speranza aitata, cominciò a cibarsi e prendere un poco di lena. I suoi di casa, che erano stati seco e l’avevano veduta parlar col' 'marchese e sapevano il servigio ch’egli a la casa fatto aveva, non sospettarono d’altro male, non avendo potuto intender parola che essi dicessero; ma pensarono che forse ella l’avesse ricercato d’aver qualche favor in corte. E veggendola giacersi in letto, le volsero far venir i medici; ma ella nol consentì nè altresì volle che a Somma si mandasse a dir niente al marito. Ora pensando ella che mezzo ci fosse di poter parlar al marchese e nessuno non gliene occorrendo che le paresse a proposito, pensò mandargli a parlare da quel messo che prima mandato gli aveva. E fattoselo chiamare, a lui narrò tutto ciò che col marchese l’era occorso, pregandolo molto caldamente che egli l’andasse a trovare e da parte sua lo pregasse tanto affettuosamente quanto poteva, che non volesse esser così duro che volesse consentire che ella per sua cagione morisse. Ed avendolo ben instrutto di tutto quello che voleva che egli a bocca gli dicesse, stava aspettando la risposta. Il messo, ben informato di quanto aveva a dire e carco di promesse se buone novelle a la donna recava, andò a ritrovar il marchese, e trovatolo che con alcuni gentiluomini nel seggio di Capoana passeggiava, poi che vide che cose di credenza non ragionavano, se gli accostò e fatta la debita riverenza gli disse: – Signor mio, quando non vi sia grave, io vi direi volentieri in segreto venticinque parole. – Il marchese con licenza de la compagnia si ritirò in un canto del seggio, e affacciatosi al parapetto del muro che su la strada risponde, attese ciò che il messo voleva dire. Il messo alora con molte parole manifestò lo stato al marchese in cui la signora Lionora Macedonia si trovava, pregandolo affettuosamente che di lei degnasse aver pietà e non permetter che sì bella donna sul fiorir degli anni suoi morisse. E qui disse di molte cose per moverlo a compassione. Il marchese, udita questa nuova ambasciata, rispose al messo che certo molto gli dispiaceva del mal de la donna, che tutto quello che egli poteva con onor suo fare, che sempre era prontissimo a farlo. Ma che egli confortava la donna in questo caso a moderar il suo appetito e che non pensasse più in questa cosa, perciò che egli era deliberato non voler il suo amore in questa maniera, e che più non gli venisse a parlar di questo. Il messo molto di [p. 378 modifica]mala voglia si partì, e ritornato a la donna le disse l’ultima resoluzione del signor marchese. A questo annonzio rimase la donna più morta che viva, e non sapendo distorsi dal desiderio che aveva d’amare ed esser amata dal marchese, e di giorno e di notte ad altro non possendo rivolger l’animo, deliberò di non restar più in vita, parendole assai più leggero passar il terribil passo de la morte che sopportar la pena che l’affliggeva. Onde perdutone il sonno e il cibo, andava d’ora in ora mancando. Era tornato il marito, il quale non sapendo che infermità fosse quella de la sua donna, fece venir a visitarla i più solenni medici di Napoli; ma nessun profitto al male de la donna apportavano le lor medicine. Ed essendo già tanto la passione del core cresciuta che in tutto le forze del corpo s’erano perdute e smarrite, nè rimedio alcuno trovandosi che le giovasse, ella che vicina a la morte si vedeva, fattosi venire un venerabil sacerdote, a lui di tutti i suoi peccati si confessò. Il padre sacerdote, udendo sì strano caso, l’essortò assai a deporre questa fantasia e pentirsi che di se stessa ella fosse stata micidiale. Difficile fu levarle questo suo farnetico di capo e fare ch’ella si pentisse. Pure ebbe tanta grazia da Dio col mezzo de le divote e sante essortazioni del frate, che ella conobbe in quanto periglio era di perder non solamente il corpo, ma di mandar l’anima in bocca a Lucifero; onde venne in tanta contrizione che con infinite ed amarissime lagrime si riconfessò e divotamente domandò perdono a Dio, e volle che il marito sapesse tutti i casi suoi. Fecelo adunque chiamare, e a la presenza del frate tutta l’istoria de l’amor del marchese di Cotrone verso lei e di lei verso lui, e la costanza di quello e le savie risposte' 'da lui avute, puntalmente gli narrò, e con debole e roca voce umilmente gli chiese perdono. Dapoi ricevuti con divozione i santi sacramenti de l’eucarestia e de l’estrema unzione, dui giorni visse e ben pentita se ne morio. Il marito che sommamente l’amava e dui figliuolini maschi, di dui uno e l’altro di tre anni, n’aveva, nè perchè ella avesse avuto tal voglia la disamava, assai la pianse e del morir di lei mostrò gran dolore. L’essequie si fecero a la foggia di Napoli pompose e belle. Ed essendosi sparsa la fama de la cagione di questa morte, il marchese ne rimase molto di mala voglia e stava in dubio se deveva mandarsi a condoler col Tomacello o no. A la fine v’andò egli in persona e fu raccolto graziosamente. Al quale il Tomacello narrò il tutto e sempre l’ebbe per grande e special amico e per il più da ben cavaliero che si trovasse. Fu la donna sepellita ne la chiesa di [p. 379 modifica]San Domenico, a la cui sepoltura fu attaccato questo sonetto, fatto da non so chi:


Tu che qui passi e ’l bel sepolcro miri,

ferma li piedi e leggi il mio tenore,

chè di bellezza è qui sepolto il fiore,

cagion a molti d’aspri e fier martìri.

Infiniti per lei gettó i sospiri

gran tempo un cavaliero, ed ella fòre

di speme sempre il tenne e sol dolore

gli die’ per premio a’ tanti suoi desiri.

Egli, sprezzato, altrove il suo pensiero

rivolse, e quella a lui piegossi alora

ch’era a lui stata sì ritrosa e dura.

Ma piegar non potendo il cavaliero,

morir elesse e uscì di vita fuora,

sì fiera fu la doglia oltra misura.


Il Bandello al gentilissimo fra Michele Brivio


Infinite volte s’è veduto una pronta e arguta e talor faceta risposta aver al suo dicitore apportato grandissimo profitto e sovente una grave lite aver resa ridicola. Di questo si parlava non è molto tra alcuni gentiluomini ove io mi trovai. Era quivi il signor Paolo Battista Fregoso, giovine valoroso e gentiluomo di monsignor d’Orliens, che poco avanti era venuto da la corte del re cristianissimo; il quale dopo il ragionamento che si faceva, a proposito di quanto detto s’era, narrò una novelletta, di nuovo parte a Poittieres e parte a Parigi accaduta, che agli ascoltanti molto piacque. Il perchè io quella secondo il mio consueto scrissi. Sovvenutomi poi del tempo che a Milano insieme eravamo, e quanto spesso voi le cose mie così in verso come in prosa leggevate e volentieri di molte prendevate copia, ho voluto che questa ovunque voi sarete col nome vostro in fronte vi venga a ritrovare, e vi faccia certo che io sono quel