Novelle (Bandello, 1853, II)/Parte II/Novella XXIII
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San Domenico, a la cui sepoltura fu attaccato questo sonetto, fatto da non so chi:
Tu che qui passi e ’l bel sepolcro miri,
ferma li piedi e leggi il mio tenore,
chè di bellezza è qui sepolto il fiore,
cagion a molti d’aspri e fier martìri.
Infiniti per lei gettó i sospiri
gran tempo un cavaliero, ed ella fòre
di speme sempre il tenne e sol dolore
gli die’ per premio a’ tanti suoi desiri.
Egli, sprezzato, altrove il suo pensiero
rivolse, e quella a lui piegossi alora
ch’era a lui stata sì ritrosa e dura.
Ma piegar non potendo il cavaliero,
morir elesse e uscì di vita fuora,
sì fiera fu la doglia oltra misura.
Infinite volte s’è veduto una pronta e arguta e talor faceta risposta aver al suo dicitore apportato grandissimo profitto e sovente una grave lite aver resa ridicola. Di questo si parlava non è molto tra alcuni gentiluomini ove io mi trovai. Era quivi il signor Paolo Battista Fregoso, giovine valoroso e gentiluomo di monsignor d’Orliens, che poco avanti era venuto da la corte del re cristianissimo; il quale dopo il ragionamento che si faceva, a proposito di quanto detto s’era, narrò una novelletta, di nuovo parte a Poittieres e parte a Parigi accaduta, che agli ascoltanti molto piacque. Il perchè io quella secondo il mio consueto scrissi. Sovvenutomi poi del tempo che a Milano insieme eravamo, e quanto spesso voi le cose mie così in verso come in prosa leggevate e volentieri di molte prendevate copia, ho voluto che questa ovunque voi sarete col nome vostro in fronte vi venga a ritrovare, e vi faccia certo che io sono quel vostro Bandello che sempre fui e sarò, mentre piacerà al nostro signor Iddio di tenermi in vita. Il che mi persuado esservi per molti effetti chiarissimo. State sano.
Verissimo essere che le pronte e facete risposte date in tempo rechino utile e spesso cavino di fastidio chi le dice, ancor che più volte si sia per isperienza visto, io non reputo se non bene ricordarsi sovente simili essempi e dirvene uno che non è molto che avvenne. Uno dei tesorieri de la Francia detto Morenes dimorava per lo più a Poittieres vi teneva la moglie, giovane, bella, e molto gentile. A Poittieres è l’università o sia studio generale d’ogni sorte di scienza, e vi concorrono scolari assai. Era quivi scolare un giovine che era nobile, il quale teneva in commenda una abbadia assai ricca e viveva molto splendidamente, sempre con buona compagnia. Con questo abbate prese il tesoriero una stretta domestichezza e più volentieri con lui che con altri teneva pratica, di maniera che cominciò a invitarlo seco a mangiare. Non aveva ancora' 'messer l’abbate vista la moglie del tesoriero, la quale, venutagli a l’incontro, quello graziosamente raccolse e secondo la costuma del paese basciò. Era l’abbate bellissimo giovine, e la donna, come s’è detto, oltra la beltà, era leggiadra molto, il perchè meravigliosamente l’uno a l’altro in quel primo aspetto piacque. Desinarono di compagnia allegramente e tennero tra loro diversi propositi. Ragionando, l’abbate tuttavia considerava le bellezze de la donna, la quale anch’ella non teneva gli occhi troppo sovra le vivande, ma quanto poteva quelli pasceva de la vista del bello abbate. Finito il desinare, si mise Morenes a giuocar a toccadiglio con l’abbate, e giuocando fu esso tesoriero astretto a lasciar il giuoco e andar a ricever una somma di danari, onde pose in luogo suo la moglie. Pensate se a tutti dui fu grato. E non v’essendo persona a vedergli giuocare, cominciarono ad entrare in ragionamenti amorosi e scoprirsi insieme i lor amori. Nè ad accordarsi vi bisognarono troppe parole, di modo che posto l’ordine ai casi loro, si trovarono poi insieme e molti mesi goderono amorosamente l’un de l’altro. Ed usando non troppo celatamente il lor amore, uno di casa se n’avvidde e n’avvisò Morenes. Di che egli, entrato in còlera grandissima, s’armò e fece armar gli scrivani e servidori suoi, e di lungo se n’andò a la casa de l’abbate, che, desinando la famiglia, giuocava al tavoliero con un gentiluomo che seco aveva desinato. Entrato Morenes in sala, cominciò a dire le più villane parole a l’abbate che sapeva, ma non s’accostava a la tavola. Conobbe l’abbate la viltà del tesoriero, che non averebbe ferito una mosca, e gli diceva: – Signor tesoriero, voi sète mal informato. Io vi son buon amico e la donna vostra io la tengo onestissima. Beviamo e lasciamo andar queste ciancie. – Pur alora Morenes bramava, nomandolo traditore, di che l’abbate si rideva. Si partì Morenes, parendogli d’aver cacciati gli inglesi di Bologna. Si deliberò l’abbate di far una beffa al tesoriero, e un giorno presi alcuni scolari e tutti i suoi servidori, essendo ciascuno armato, andò a la casa del tesoriero, il quale subito se ne fuggì in alto a nascondersi, e i suoi di casa chi andò in qua e chi andò in là. Mentre che gli scolari saliti di sopra facevano romore con l’arme, l’abbate con la donna fece un fatto d’arme amoroso, il qual finito, scesero gli armati a basso e veggendo la donna che faceva vista di piangere, le dicevano che deveva dar un’accusa al marito per averla svergognata. Partito che fu l’abbate con i suoi, il tesoriero tutto tremante venne a basso e se n’andò a la giustizia, a la quale diede l’accusa contra l’abbate, dicendo che a mano armata gli era entrato in casa per rubargli i danari del re. L’abbate fece rivocar la lite al parlamento di Parigi ed ivi se n’andò. Morenes andò a Fontanableo per aver favore da monsignor di Orliens. E conosciutosi in corte che era uomo di poca levatura, alcuni che volentieri viveno a le spese del compagno si misero con lui, promettendogli far e dir gran cose, e seco a Parigi se n’andarono. Ora essendo poi tutte due le parti dinanzi ai signori consiglieri, e facendo il tesoriero dal suo procurator proponere come monsignor l’abbate gli era ito a la casa per rubargli il tesoro del re, e in questo con molte parole aggravando il caso e chiedendo a quei signori che ne facessero severissima giustizia, fu poi detto a l’abbate ciò che rispondeva a sì enorme e vituperoso delitto come Morenes gli imponeva. Alora l’abbate, dette alcune cose in escusazione de l’innocenzia sua e mostrando che non era ladrone, disse sorridendo: – Signori miei, se il conno de la moglie di Morenes è segnato del cunio del re, io vi confesso esser quivi ito per impatronirmene. – Questa piacevol risposta risolse il tutto in riso e più del caso non si parlò.
Più volte ragionandosi, come si suole, a la presenza vostra di varie materie, signora e padrona mia molto illustre e valorosa, sovviemmi aver udito ad alcuni dire che lo scrivere i fortunevoli e diversi casi che a la giornata si veggiono in varii luoghi accascare, oltra che sarebbe opera perduta e di pochissimo profitto, che sarebbe anco in tanto accrescer il libro che di simiglianti accidenti si componesse, che l’età d’un uomo a leggerli non basterebbe, perciò che tanti e tali talora in un tempo n’accadono, che stancherebbero le mani e le penne di tutti gli scrittori. Ricordomi che a questi tali alora convenevole risposta data. Nè io ora voglio questionare quanto sia lodevol di tener memoria d’ogni cosa che occorra, chè almeno crederei che non potesse recar nocumento alcuno; ma porto ben ferma openione che descrivendo alcuni accidenti che ai mortali sovente sogliono avvenire e quelli consacrando a l’eternità, che sarebbe opera molto lodata e di non poco profitto a chiunque le cose descritte leggesse. E chi dubita che non sogliano mirabilmente restar ne la memoria fitti tutti quei casi ed accidenti che si leggono, quando hanno in loro qualche atto degno di compassione e di ricordanza? Chi non sa medesimamente che colui che gli ha letti, quantunque volte quelli va tra sè rammentando, tanto si sente di dentro moversi, o a compassione se il caso n’è stato degno, od a lodar gli atti se ve ne sono meritevoli di lode, od a biasimargli se tali sono che di biasimo abbiano di bisogno? Suole anco assai sovente ciascuno con la rimembranza di quello che legge discorrer la sua vita propria e quella con giudizioso occhio essaminare e, come fanno i saggi, con giusta bilance pesare tutte le sue azioni. Da questo senza dubio ne nasce che l’uomo, se si vede d’un diffetto macchiato il quale senta dagli scrittori vituperare, con l’altrui lezione diventa a se stesso ottimo pedagogo e maestro, e di così fatta maniera se stesso corregge che, in tutto messa da parte la mala consuetudine che prima aveva d’andare ne l’operazioni sue morali di male in peggio, si sforza mettersi nel camino de la vertù, e tanto vi s’affatica che in poco di tempo egli si spoglia i tristi