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le rovine di molti superbissimi palazzi fanno fede, – andò il Ventimiglia ancor egli fuora col duca. E mentre che a Pozzuolo si stette, soleva il Ventimiglia dagli altri rubarsi, ed ora sul lito del mare, ora per gli aperti e dilettevoli campi qualche antichità contemplando, ora per i fruttiferi e non troppo erti colli, per le frequenti e fresche caverne, per quei laghi e luoghi sulfurei, per le selvette di cedri e naranci e per tanti altri luoghi di piacere che ci sono, andarsi diportando; e sempre il suo pensiero era come deveva fare per acquistar la grazia de la donna. Il signor Galeazzo Pandono che era suo grand’amico aveva un grandissimo dispiacere de la vita che far gli vedeva, e volentieri averebbe fatto ogni cosa per levarlo da questo amore. Onde un giorno fra gli altri, essendo a buon’ora levato il duca e andando diportandosi là verso la spelonca de la Sibilla, il signor Galeazzo, preso per mano il signor Giovanni Ventimiglia, gli disse: – Signor marchese, lasciamo andar il signor duca ove vuole e andiamo noi dui là ove sono quegli allori, chè io desidero molto appartatamente parlar teco. – Andiamo, – disse il Ventimiglia, chè ad ogni modo io me ne voleva andar in altra parte. – E così tutti dui pervennero al luogo dissegnato e sotto gli allori su la minutissima erbetta s’assisero. – Signor marchese, – cominciò alora il Pandono, – io lascierò da parte le cerimonie, essendo fra noi la fratellevol amicizia che già molti anni è stata, e verrò al nodo de la cosa che io vo’ dirti. E comincierò da la vita che questi dì qui a Pozzuolo t’ho veduto fare, perchè, a dirti il vero, tu mi sei paruto uno di quei filosofi che vanno investigando l’origine de le cose naturali, così sei stato pensoso e solitario, chè tutto il dì sei andato per questi luoghi fuggendo la compagnia. E non sono, credo, cinque giorni che essendo il conte di Celano ed io là su quel poggetto, ti vedemmo tutto solo qui a questa fontana starti piangendo, e più d’un’ora stemmo a mirarti, che tu sempre lagrimando e spesso levando gli occhi al cielo dimostrasti. – Ecco, – mi disse il conte di Celano, – a che termine è condotto il marchese di Cotrone per la signora Lionora Macedonia moglie del signor Giovanni Tomacello. Egli l’ama e sèguita già sono molti dì, ma ella che è sdegnosa com’un can bottolo, di lui nè di cosa che si faccia punto non si cura, che, per l’anima di pàtremo, m’è venuto più volte voglia di sgridarlo e fargliene un gran romore. Ma perciò che io non ho seco molta domestichezza rimasto mi sono, e nondimeno io l’amo come mio fratello, sapendo quanto è onorato e gentil cavaliero. A te, signor Galeazzo, starà bene, che sei suo domestico, a levarlo fuora di questo laberinto. –