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XVII.

Ritornando da Roma per le feste di Natale, il deputato Pianosi aveva trovato la sua piccola Lea poco bene. Era pallidetta, svogliata. Egli se ne impensierì, e consultò il suo bravo medico dottor Rambaldi, il quale gli disse francamente, che la bimba mostrava una particolare delicatezza di petto, una spiccata tendenza all’anemia e una sensibilità di nervi superiore agli anni.

— Tutte cose, che, disgraziatamente, vanno quasi sempre insieme — soggiungeva il dottore.

E siccome Giovanni insisteva nel chiedere cosa si dovesse fare, egli ordinò: moto, distrazione, nessuna medicina e nessun dispiacere: possibilmente, almeno per qualche tempo, un clima più mite.

Si cominciò subito con le distrazioni; ma evidentemente la bimba si riaveva soltanto per la [p. 288 modifica]presenza del padre. Le avevano dato una nuova governante, una tedesca, per la quale non aveva nè alletto, nè antipatia. Da principio domandava spesso di Gilda, ma, poichè nessuno le rispondeva, finì col non parlarne più; e tutto lo slancio del suo piccolo cuore precoce si concentrò nel babbo e nella mamma: specialmente nel babbo, per il quale aveva sempre avuto una sorta di adorazione.

Al pranzo di Natale intervennero, per la prima volta dacchè Giovanni aveva sposato la russa, tutti i suoi parenti più prossimi. Il nuovo soffio di fortuna che lo portava in alto, l’onore della deputazione, di cui si compiacevano, attribuendosene un qualche riflesso, la magnificenza dei suoi ricevimenti, li avevano attirati e riconciliati improvvisamente dopo tanti anni.

Soltanto i Minelli non erano intervenuti, perchè il Natale lo volevano fare nella propria casa, insieme ai loro vecchi.

In compenso Giovanni li aveva pregati di non mancare il primo dell’anno. Non si trattava soltanto di un pranzo, ma di un ballo di fanciulli, che Lea offriva ai suoi piccoli amici e parenti, fra le due dopo mezzogiorno e le sei; una matinée dansante, come le chiamavano a Parigi dove erano venute in gran moda.

La signora Edvige, sempre felice di essere una delle prime a introdurre le mode nuove, dava queste spiegazioni a Rosina Minelli.

Ora si stavano facendo gli ultimi preparativi. 1 bambini avrebbero ballato nella sala moderna: nella sala empire, si era preparato un ricco buffet, nella galleria alcuni giuochi per i bambini troppo [p. 289 modifica]piccoli, che non sapevano o non volevano ballare. I babbi e le mamme e tutti gli spettatori che si sarebbero stancati di godersi quello spettacolo sedendo sui divani e le sedie schierate tutto all’ingiro nella sala da ballo, potevano rifugiarsi nella sala del biliardo e nell’annessa camera pei fumatori, cui si accedeva dalla sala destinata al buffet; o nel salottino pompadour, all’altro capo della galleria.

L’appartamento non poteva essere più comodo, nè più giudiziosamente disposto per qualunque trattenimento.

La signora, già vestita, in un semplice abito di raso e plusce verde cupo, molto attillato e accollato, di una sobrietà di linee, e di un gusto squisito, disponeva con le sue mani i mazzi di fiori, per lo più violette di Parma e rose bianche, che aveva ricevuto nella mattina insieme agli auguri di capo d’anno. Il suo viso raggiava di contentezza.

Ella guardava la bimba quasi con un sentimento di gratitudine, sorridendole soavemente, tutte le volte che veniva a chiederle una spiegazione od un qualche ordine da riferire ai domestici affaccendati.

Tutto andava a gonfie vele per lei. Il periodo burrascoso era passato: aveva vinto le ultime decisive battaglie.

Dopo quella calda sera di luglio in cui un ritorno di tenerezza, o quella sua inquieta voglia di avventure e di commozioni, la spingeva a voler vedere ancora una volta le mobilie dell’appartamento di Paolo Anselmi esposte al pubblico per essere vendute all’asta, ella era stata messa a [p. 290 modifica]una prova abbastanza difficile. Ma la sua furberia, il colpo d’occhio sicuro, che le faceva discernere l’utile proprio nei momenti gravi, l’avevano ajutata, come sempre, a superare il pericolo.

Una mattina, Lauretta Mantrilli, che altre volte aveva prestato mano all’intrigo, le portò una lettera di Paolo. L’aveva ricevuta per la posta, chiusa, in una busta diretta a lei, come era accaduto spesso nei primi tempi della loro relazione.

L’Anselmi scriveva da Lione. Non si lamentava della sua sorte. Sapeva benissimo la parte che Edvige aveva preso nel tiro giuocatogli dal Pianosi, ma le perdonava. Era naturale ch’ella pensasse prima di tutto a salvare sè stessa, e non poteva salvarsi altrimenti. Lui era ragionevole. Sperava però ch’ella non lo avesse interamente dimenticato. Egli le voleva sempre bene, rammentava sempre l’amore antico e avrebbe fatto qualunque sacrificio per vederla ancora una volta e vivere almeno un giorno in sua compagnia. Ciò non era impossibile, se ella non si opponeva: le avrebbe riscritto presto in qual modo.

Intanto le diceva ancora questo: i suoi affari erano vicini a una favorevole sistemazione: se la cosa riesciva bene sarebbe andato a stabilirsi a Nuova-York e nessuno avrebbe più sentito parlare di lui in Italia, anche perchè portava un altro nome. C’era tuttavia una piccola difficoltà: i capitali ch’egli aveva potuto salvare non bastavano all’impresa in cui voleva mettersi: gli mancava una somma di 30 o 40 mila lire. Come fare a trovarla nella sua posizione? Naturalmente, egli intendeva un prestito. Ci sarebbe voluta una per[p. 291 modifica]sona amica la quale avesse intromesso il suo credito presso qualche capitalista. Chi poteva essere questa persona? Egli non osava nominarla, ma si raccomandava a lei, che, eccetto l’ultimo momento, era sempre stata la migliore amicizia della sua vita. Questo tratto avrebbe cancellato ogni ombra fra di loro, e lui avrebbe perdonato anche a Giovanni, e mai più in vita sua avrebbe pensato a nuocergli.

Egli aggiungeva altre proteste d affetto e dava l’indirizzo.

Edvige capì subito che doveva cercare la somma ch’egli domandava ed offrirgliela.

Lo conosceva bene e, con le sue idee di onestà relativa, lo giustificava fino a un certo punto. Era nato come lei, col bisogno di godere, di emergere nel mondo; ma aveva avuto meno fortuna. Se fosse nato ricco sarebbe stato un galantuomo, come tanti; perchè non era di quelli spiriti ardenti e ribelli che possono fare il male per odio del male stesso, per una sorta di vendetta sociale; nè di quelli altri, istintivamente perversi che fanno il male per amore del male, anche a danno proprio, creature affette da una specie di pazzia forse incurabile.

Lui era un piccolo spirito molto comune: uno di quei tipi, di tutti i tempi, che la smania del lusso e del godimento trascina qualche volta fino alla frode e anche fino al furto; mentre, in fondo, hanno una sacra paura del codice, e cercano sempre di giustificarsi, di coonestare le proprie azioni con un sofismo o una ipocrisia. Se un giorno riescono, se la fortuna li piglia per mano e li conduce al posto cui mirano, essi dimenticano [p. 292 modifica]subito le loro canagliate, s’aggrappano con tutte le loro forze alla legge protettrice della proprietà e non la offendono più: a volte diventano anche benefici e generosi, se questo risponde a un qualche loro istinto, o se accresce lustro al loro nome.

Edvige sapeva che se Paolo fosse riuscito a farsi una posizione distinta e lucrosa con le sue opere musicali, o più tardi con l’avvocatura, non gli sarebbe mai passato per la mente di compromettersi con una azione incriminabile. E siccome si sentiva tagliata nella medesima pasta, sebbene più forte e più fortunata, e inoltre lo aveva amato, per quanto era da lei, non poteva distruggere il sentimento di pietà e di rimpianto ch’egli le ispirava ancora, nè il desiderio di fare qualche cosa perchè egli fosse finalmente soddisfatto. Tanto più che una volta soddisfatto, si teneva certa ch’egli non avrebbe dato più alcun imbarazzo a lei, nè alla sua famiglia.

Ella gli rispose, dunque, che poteva contare sulla sua amicizia, per quanto le sarebbero bastate le forze, perchè era disposta a fare tutto quanto poteva per ajutarlo, senza nuocere a suo marito e a sua figlia. E subito si diede a pensare per mettere insieme il capitale che Anselmi chiedeva. I suoi piccoli risparmi segreti di donna prudente, ch’ella aveva potuto mettere da parte; prima del matrimonio, su i suoi onerari teatrali, dopo, sulla somma mensile che Giovanni destinava alle spese ordinarie della famiglia, non giungevano che a ventimila lire. Ella si rassegnò a sacrificarle. Per il rimanente pensò che avrebbe potuto impegnare una parte de’ suoi brillanti: ma c’era il guajo che le sarebbero occorsi nel carne[p. 293 modifica]vale, andando alla Scala o altrove, più ancora se Giovanni riesciva deputato e se ella otteneva di farsi condurre a Roma, come fin da allora ardentemente desiderava.

Lauretta le venne in ajuto consigliandola a impegnare soltanto alcune pietre di singolare grossezza, mettendo al loro posto, provvisoriamente dei diamanti di imitazione; e s’incaricò lei della cosa.

Intanto arrivò la seconda lettera dell’Anselmi, con la quale egli accettava la sua generosa intromissione per quel tale prestito e la ringraziava con tutta l’anima. Insisteva anche per avere il piacere di vederla ancora una volta. Se ella poteva trovarsi nella sua villa; la sera del giorno tale, lui sarebbe arrivato dalla parte della Svizzera e si sarebbe fatto una festa di passare con lei alcune ore almeno. Così, ella gli avrebbe consegnato i denari direttamente, senza compromettersi con tratte o altro, e lui le avrebbe rilasciato una obbligazione privata, scadibile in capo a tre anni.

Questo accadeva nell’agosto, cioè nel tempo in cui Giovanni era a Aix-les-bains con Gilda. Tutti gli amici di casa erano dispersi fuori di Milano. Bardaniti era andato a Montecatini a curarsi il fegato; i Vimercati in Tirolo; Adriani era a Firenze, dove metteva in scena un bozzetto drammatico, all’Arena Nazionale; e Santini, sempre occupato con la fabbrica di Como, non era libero altro che tre volte la settimana, nelle quali occasioni ella faceva in modo ch’egli la trovasse raramente in casa, e mai sola.

La vecchia spia, la Sabina, era stata messa a riposo, con pensione, come si aspettava. Lea era [p. 294 modifica]sempre in campagna coi Minelli, e la nuova governante non era ancora arrivata.

Ella si trovava dunque perfettamente libera e non credeva di dover nulla a nessuno. Scrisse all’Anselmi che lo avrebbe aspettato; e ci andò, dicendo in casa che andava a prendere Lea.

Nemmeno Lauretta potè mai sapere precisamente quanto rimasero insieme, nè che promesse si fecero, nè in qual modo si lasciarono. Edvige tornò a Milano con Lea dopo quattro giorni. Si diceva contenta; ma di tratto in tratto rivelava una certa inquietudine. Gli è che per un momento ella aveva avuto paura non solo che arrestassero l’Anselmi ma di essere arrestata insieme a lui. Era stata una di quelle paure chimeriche, tanto comuni alle coscienze turbate; tuttavia, il diaccio di quel momento, le serpeggiava ancora qualche volta nelle ossa, e la faceva rabbrividire.

Finalmente nel dicembre arrivò una lettera dall’America: egli era salvo e tutto andava bene: in meno di tre anni sperava di diventare milionario. Intanto, come era convenuto fra loro, non le avrebbe scritto più per non rischiare di comprometterla, nè di compromettersi inutilmente.

Dopo ciò ella si staccò moralmente dal suo passato, come da una zavorra impacciosa, e trovò nel suo egoismo ferrato, nella intensa volontà di vivere e di godere, la capacità di essere, non soltanto di parere, così serena e tranquilla, quale era necessario che fosse e tutti potevano vederla in quel primo giorno dell’anno.

Ora entrava in una nuova via, o meglio era arrivata in porto. E se è vero che molti facciano pro[p. 295 modifica]positi nuovi ad ogni anno nuovo, ella era questa volta del numero.

Veramente il suo proposito più caro era di non mutare mai: di essere sempre bella, sempre giovine, trionfante ed abile. Pure, certe imprudenze che l’avevano scossa, non le voleva più commettere; certi pericoli, dai quali sentiva di essere uscita per miracolo, e il cui ricordo le metteva ancora spavento, non li voleva più affrontare. Così la età e la esperienza le davano tutta la prudenza e tutta la saggezza di cui ella era al caso di approfittare. Ciascuno impara quello che può e si assimila quello che gli è confacente.

Gl’invitati cominciavano ad arrivare, mentre ella volgeva intorno a sè uno sguardo di compiacenza, e sorrideva all’opera sua come al suo avvenire.

Lea, tutta vestita di bianco, coi suoi bei capelli, contenuti in una grossa treccia, stretta in fondo da un nastro rosa, e una fusciacca rosa in vita, riceveva i suoi piccoli amici sulla soglia del primo salotto: stringendo le manine e scambiando baci col suo fare elegante e spigliato, come una piccola donna. I due fratellini Minelli e due altri cuginetti, offrivano il braccio alle bimbe e le accompagnavano nella sala da ballo.

Era tutto un mondo gajo quello che arrivava, composto quasi esclusivamente di donne giovani, mammine, sorelline maggiori, piccole zie e bambini.

I babbi, li zii, i fratelli giovinotti, si riservavano di arrivare più tardi per rimanere fino all’ora di pranzo.

Rosina Minelli, tutta piena d’amore per le piccine, lei che aveva soltanto due maschi, si era [p. 296 modifica]messa nell’anticamera per ajutarle a levarsi i loro mantelli, i loro cappellini, o i loro cappuccetti, e intanto le baciava, le interrogava.

Arrivavano a due, a tre, a quattro, tutte bianche, tutte rosa, o tutte celesti; le grandicelle già preoccupate del loro costume, sorridendo alle amiche, guardando curiosamente quelle che non conoscevano; le piccine, tutte ridenti o meravigliate, volgendo i grandi occhi in giro, chiamando le mamme, le sorelline, metà paurose, metà elettrizzate; i maschietti con i loro costumi bizzarri, i calzoncini corti, il grande imbarazzo di levarsi il cappello o il berretto, un poco raccolti e timidi in attesa di diventare i più turbolenti.

Le signore abbracciavano Edvige, si mostravano entusiaste dell'idea di far ballare i bimbi di giorno, prima del pranzo, specialmente con quelle giornate umide e fredde che rendevano impossibile la passeggiata.

Ma le più raggianti erano le mammine giovanissime, che venivano col loro bébé, il primo e solo, tutto biondo, tutto ricciuto, stupefatto di quella confusione e pochissimo contento di tutti quegli sguardi fissati in lui.

Le signore erano tutte in costume da città, elegantissime, ma in toni scuri; le signorine, sotto ai loro mantelli avevano azzardato dei toni chiari o qualche nastro, o qualche camicetta, sapendo che il ballo dei bambini termina poi con un ballo di signorine e di giovinetti.

— Sempre che i signori si degnino di arrivare in tempo, pensavano alcune.

Quando la sala fu ben popolata di ballerini, Edvige che era seduta in un circolo composto di [p. 297 modifica]varie signore, fra le quali donna Violante Vimercati che aveva accompagnato una nipotina, la figliuola del commendatore Bardaniti che aveva due bimbi, la contessa Ceriani, la baronessa Tombini, una ebrea ricchissima e brutta, donna Maria Bordigheri, la contessa Costantini, la Valmarana ed altre donne patrizie, che si erano messe a frequentare la casa, dacchè Giovanni era deputato, si alzò sorridendo ai bambini e andò al pianoforte.

— Preparatevi, disse, arriva l’orchestra.

Alcune bambine, già impazienti di incominciare si slanciarono nel valzer. Ma i cavalieretti protestarono subito: non bisognava fare come a casa, questo era un ballo vero, come quelli dei grandi: bisognava ballare come loro!

Ed esse si lasciavano persuadere, come era loro destino per sempre, meno alcune proterve o precocemente civette. Il ballo fu presto animatissimo, chè tutti volevano seguire l’esempio dei primi; e la sala fu piena di una confusione adorabile. I grandicelli si arrabbiavano di quando in quando perchè, sul più bello, i piccini capitavano loro fra piedi, ballando di traverso e fuori di tempo: ma i piccini sostenevano audacemente il loro diritto, e appena li avevano fatti stare un poco da parte, tornavano a slanciarsi con nuovo vigore nel vortice. Di tratto in tratto una coppia andava a gambe all’aria, e allegre risate scrosciavano: le mammine accorrevano. Ma, nulla di male: il tappeto era morbido; i caduti si rialzavano e si rimettevano a sgambettare con più coraggio. Le bianche, le rose, le azzurre s’aggruppavano, s’intrecciavano coi toni più forti o più [p. 298 modifica]cupi dei maschi: e le guance rosse, gli occhi sfavillanti, i capelli biondi, neri, castani, davano al bellissimo quadro una luce, una festosità affascinante.

Verso le quattro, quando erano già accese le lampade, cominciarono ad arrivare i signori.

Giovanni, che era stato da Gilda, aveva un pensiero triste negli occhi, e nel cuore un senso di uggia. Era sempre così quando rientrava in casa sua; quantunque poi gli passasse.

Stava meglio a Roma: là nulla gli rammentava il passato, nè la sua! situazione presente: là, quando si sprofondava nel lavoro riesciva a dimenticare tutto il resto, completamente. E quando Gilda gli scriveva a Roma, provava una vera gioja; chè, se la lettera era triste, scusava meglio la sua tristezza, e poi la dimenticava; mentre a Milano, quando si vedevano, la sua felicità era sempre conturbata da un pensiero penoso: dalla malinconia che ella non riesciva a vincere e di cui lui non osava più domandarle la causa, per paura di vederla piangere: da un senso di disagio che si metteva fra loro due e che tutti e due cercavano di nascondere. Povera Gilda! gli faceva pietà; ma che poteva fare? Oramai il male era irreparabile. Ella soffriva, e avrebbe sofferto chi sa fino a quando, perchè, pur troppo, lui non poteva più cambiare la situazione 1 In tale stato sentendo il fastidio della propria debolezza, egli s’irritava ch’ella soffrisse: gliene faceva quasi rimprovero. Subito dopo, però, riconosceva la sua ingiustizia. Ma queste lotte alla lunga lo sfibravano, lo rendevano inetto al lavoro: e lui aveva sempre, anzi forse ora più che mai, per la farraggine di affari [p. 299 modifica]in cui s’era messo, bisogno di tutta la chiarezza della sua mente, di tutta la libertà del suo spirito.

Qualche volta mentre sentiva alcuni suoi colleghi, discorrere spensieratamente delle loro avventure galanti, un pensiero brutto si formulava nel suo cervello, prima che la sua volontà potesse intervenire: il pensiero che per un uomo d’affari, quella fosse forse la miglior vita. Ma poi aveva orrore di sè stesso.

E se, in quei momenti, il divorzio fosse stato nella legge, nelle abitudini e nelle convenienze, se egli non avesse dovuto affrontare l’odiosità della eccezione, o se, almeno, le antipatiche formalità fossero state già vinte e sorpassate, egli avrebbe sposato Gilda subito e con entusiasmo.

Ma il divorzio non lo aveva fatto, e ora non poteva più farlo; doveva rimanere tutta la vita con l’animo sospeso sopra un abisso di rimpianti e di recriminazioni contro sè stesso?

La presenza dei signori portò un nuovo movimento nella sala; le danze furono interrotte; perchè i signori cominciarono a girare, a complimentare le signore, e a salutare i bambini, i quali, vinto oramai ogni riserbo, chiamavano i loro babbi ad alta voce e si precipitavano contro i loro ginocchi.

Lea, che era uscita un momento, rientrò e andò a dire una parola sottovoce a sua madre, Era l’annunzio di una grande, di una enorme crescenza o carsenza — specie di stiacciata del capo d’anno — che il pasticciere del caffè Cova aveva mandato.

La parola fu sentita, e tante piccole bocche la [p. 300 modifica]ripeterono, mentre le braccine si allargavano, per dare un’idea della sua grandiosità:

— Una carsenza grande, grande così!...

Edvige sorrise, e tutti furono pregati a passare nella sala del buffet, dove il famoso dolce, veramente colossale occupava il posto d’onore in mezzo alla tavola, e attirava gli occhi, non solo per la sua grandezza, ma anche per la sua decorazione composta di fiori di zucchero in diversi colori, di rabeschi e di infiniti confettini in forma di perline d’argento.

I bimbi mandarono un grido di ammirazione, e Lea e i suoi cugini ed altri con loro, cominciarono a battere le mani e a ballare intorno alla tavola.

L’allegria era completa. Anche Giovanni si era rasserenato davanti alla gioja di sua figlia.

Alle cinque furono riprese le danze con maggiore vivacità, se è possibile, perchè i bimbi sapevano che alle sei bisognava smettere per riposare una mezz’ora prima di uscire.

Qualche giovinetto invitava qualche signorina e le coppie grandi si mischiavano alle piccine. Ma ora si ballava anche nel buffet. Al pianoforte stava il maestro Perletti.

Intanto donna Violante si era seduta vicino ad Edvige e discorrevano sommessamente, in quel momento di libertà generale.

— Ebbene — domandava la Vimercati — a che punto sei? avete fatta la pace?

Edvige scrollò le spalle.

— Non siamo mai stati in guerra — rispose sorridendo — usiamo di una reciproca tolleranza. [p. 301 modifica]

— Troppo poco — disse l’altra — specialmente alla vostra età.

— Ho, quanto a me — esclamò Edvige con l’aria ipocrita che hanno certe donne quando dicono certe cose — credi che mi sento proprio vecchia, finita, to’.

— Ma lui, no — osservò donna Violante.

— Oh! gli uomini, sai bene, loro amano sempre d’illudersi.

— Eh, lo so, lo so. Figurati che quel mio testone.... — non è venuto ancora — disse interrompendosi per dare un’occhiata in giro — quell’uomo di gran talento, quel filosofo moralista, è tutto preso d’ammirazione (dico ammirazione per non dire peggio) per quella pettegola di Gilda, dacchè l’ha sentita cantare. Un ingegno, dice, un sentimento, un’anima! Una seconda Patti, ecco, dico io. Ma lui risponde che la Patti è una grande artista, grandissima, ma che forse non ha l’anima di Gilda: anzi mi pare che abbia detto, certo, non forse. E, sai? va tutte le sere al Milanese! Edvige non poteva tenersi dal ridere.

— Come te la prendi calda — osservò.

Ma donna Violante protestò che non era tanto per gelosia, che già, oramai, anche lui aveva poco da ridere, ma perchè le faceva rabbia di sentire un uomo serio dire quelle sciocchezze.

— Davanti alla femmina non ci sono uomini serii, — sentenziò Edvige.

Sarà benissimo, ma io non la mando giù con tanta tranquillità.

— E cosa vuoi tare? Tanto, noi donne siamo sempre infelici! Il meglio che possiamo fare è di essere rassegnate. [p. 302 modifica]

— Proprio sempre infelici? — domandò ironicamente il cugino Minelli che aveva sentito.

Ella gli rispose con uno scherzo. E continuando lo scherzo egli le additò Lea che discorreva con suo padre.

— Vedete — disse — queste infelici, come imparano presto l’arte di sedurre i loro tiranni! La piccina domanda al tiranno di condurvi a Roma tutte e due, e il tiranno non sa dir di no.

Ella lo guardò negli occhi. Era proprio vero? Ma non pronunciò la domanda.

Il cuore le batteva troppo forte. Aspettò di essere calma, poi con la sua voce più dolce e l’accento più sincero:

— No, no, Minelli — disse — non è vero che siamo sempre infelici: finchè abbiamo di questi angeli — accennò ai bambini — non siamo mai interamente sventurate qualunque sia il nostro tormento.

Intanto altri signori arrivavano, la musica cessava, e i bimbi rossi, eccitati, imploravano ancora un valtzer, ancora una polka.

Invece le loro mamme li chiamavano a nome, perchè sedessero vicino a loro e si riposassero un momento almeno.

Ma chi poteva tenerli?

Anche Edvige chiamò Lea, e stringendosela amorosamente fra le braccia e baciandola le domandò:

— Che ti ha detto il babbo?