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286 nell’ingranaggio


Che ne sapeva lei del proprio avvenire? E d’altra parte, se tutti riconoscevano che la menzogna era necessaria: se la simulazione e la dissimulazione, disprezzate a parole, erano in realtà il fondamento del vivere sociale; che pretesa era la sua di ribellarsi? Chi era lei? Che forza aveva?

Non aveva forza; era debole. Si era messa nella battaglia e le mancava il braccio di ferro e il petto di bronzo del vero combattente. Tutta la sua forza era nell’amore; all’amore aveva fatto i più grandi sacrifici; per conservarsi l’amore, aveva cercato di appianare tutte le difficoltà all’uomo amato, e le aveva trattenuto dal mettersi in contraddizione con la società, lui che della società non poteva fare a meno. Questa non poteva essere stata un’azione bassa, un’azione volgare. La sua coscienza glie lo diceva. Eppure alla prima occasione, avea rinnegato sè stessa e l’amor suo. Dopo di avere offesa la legge sociale, e osato ribellarsi, lei, alle convenzionalità della morale, appena si era trovata di fronte a una persona cara e stimata la quale dava una grande importanza a una parte almeno di quella legge e di quelle convenzionalità, ella avea mentito vigliaccamente, come una miserabile.

Ma no, non doveva essere. Ella si irrigidiva contro la propria debolezza: si ribellava contro il fatto intimo, che l’aveva spinta a mentire. Quella menzogna le pesava, non forse tanto per sè stessa, ma perchè, nella sua visione penosa, le pareva il primo anello di una lunga catena di menzogne e di dissimulazioni.

Si alzò, trascinata da quella foga interna a cui non poteva resistere, e scrisse a Mistress Thionny: