Pagina:Speraz - Nell'ingranaggio.pdf/282

278 nell’ingranaggio


— Mi dispiace, disse l’attore, vuol dire che non ha la vera vocazione per il teatro.

— Non si può dire ancora, osservò Villa del Ferro che aveva sentito: può essere che la elettrizzino gli applausi. Ma andiamo a posto, a momenti s’alza il sipario.

L’orchestrina aveva finito il pezzo, il buttafuori aveva dato il segnale. La platea si raccoglieva in un bisbiglio di aspettazione.

Appena alzata la tela, Gilda in piedi fra le quinte intonò la barcarola: «Voga, Voga,» ecc.

Era un’aria dolce, semplice, piena di affetto.

Improvvisamente, ella dimenticò il pubblico e con esso la paura e le ripugnanze che la tormentavano.

Le parve di essere sola, lontano dal teatro, di parlare al suo Giovanni, da lontano, senza vederlo ma certa di essere udita da lui. La sua voce s’innalzò trasportata dall’impeto del sentimento, con uno slancio di invocazione, con una effusione di amore, che fece passare un brivido nell’uditorio. Quella semplice melodia così trasformata da un soffio potente di passione, da una ispirazione artistica delle più complete, le bastò a esprimere tutte le angosce, tutte le speranze che aveva nell’anima.

L’ultima frase scoppiò come un grido di dolore, si prolungò come un lamento dolcissimo e mori in un sospiro.

Il pubblico, sbalordito e commosso, rimase ancora un momento in ascolto, trattenendo il fiato, come s’ella avesse dovuto ricominciare, poi scoppiò in un applauso fragoroso, interminabile.

Tutti in piedi, volevano vederla; domandavano