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ma molto peggiore della mia. Però... però... voglio dirti che rido... ecco... rido perchè ne ho voglia.

— Allora rido anch’io.

Castigati!1 — disse Giovanna con disprezzo. — Fate schifo.

Allora Brontu proruppe: non ne poteva più.

— Che hai? — domandò con voce sorda. — Si potrebbe saperlo? Mi stai rompendo le tasche, sai? Io ti carezzo e tu mi insulti? Dovresti baciar la terra dove io poso i piedi, invece! Hai capito?

Giovanna diventò livida.

— Perchè? — disse con voce sibilante: — non basta che io sia la serva qui?

— Sì, la serva. Resta dunque la serva. Che vuoi altro, femmina?

Gli occhi obliqui di Giacobbe scintillavano. Giovanna si alzò, e dritta, livida, tragica, vuotò tutto il veleno che aveva nell’anima: insultò il marito e la suocera: li chiamò aguzzini, minacciò di andarsene, di ammazzarsi; maledisse l’ora in cui era entrata in quella casa, urlò rivelando il debito verso la sorella di Giacobbe.

Allora il servo ricominciò a ridere fra sè e sè, mormorando paroline di comico rimprovero contro la sorella: d’un tratto però tacque, cupo in viso: vedeva la figura nera di zia Bachisia apparire nel vano della porta.

Zia Bachisia aveva sentito la figlia urlare nel silenzio della notte serena, ed era venuta.

  1. Scemi.