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mise a ridere; e voleva imitare il servo ma il suo sghignazzare pareva l’urlo d’una bestia allegra nel mese di maggio.
Allora Giovanna ebbe di nuovo paura: paura del buio incipiente, della solitudine che gravava sullo spiazzo, della compagnia di quei due uomini che il vino rendeva simili alle bestie, violenti e spregevoli. E le parve che la scomunica fosse caduta su tutti loro; sul servo che si rivoltava ai padroni, sul figlio che insultava la madre, su lei, Giovanna, che li odiava tutti.
Zia Marina s’alzò, entrò in cucina ed accese il lume: Giovanna la seguì e preparò la cena.
Cenarono tutti assieme, e per un po’ stettero tranquilli; anzi Brontu cominciò a raccontare come aveva veduto la processione dalla finestra del palazzo di Giacobbe, facendo sorridere zia Martina per le pazzie che diceva; poi volle accarezzare la moglie.
Ma Giovanna aveva il cuore colmo di fiele. Per lei la festa passava più triste delle altre giornate; aveva lavorato, non era stata in chiesa, non s’era neppure cambiata di vesti; e nel solo momento che s’era permessa di recarsi dalla madre, l’avevano richiamata a urli, come si richiama un cane al canile.
Respinse quindi le carezze di Brontu, e gli disse ch’era ubriaco. Giacobbe ricominciò a ridere, ed il suo riso maledetto irritò viepiù Giovanna, viepiù offese Brontu.
— Perchè ridi, cane rognoso?
— Potrei risponderti che la tua rogna è molto