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— No; oggi io non mangio le patate di quelle pelli del diavolo. No. Io mangio in casa mia! Venite.
Lo portò a casa della sorella. Era mezzogiorno passato: il sole bruciava le stradicciuole dove il fango s’era asciugato; gli alberi svaporavano sull’azzurro ardente del cielo e degli sfondi selvaggi. La gente tornava a casa; il passo pesante dei pastori risonava sui ciottoli, i bimbi vestiti a festa guardavano dai muricciuoli; dalle porte spalancate si scorgevano interni scuri di cucine dove rilucevano come grandi medaglioni le casseruole di rame. Spire di fumo giallognolo serpeggiavano nell’aria limpida: la musica straziante di un organetto usciva a tratti da un cortile, di solito disabitato, e pareva sgorgasse di sotterra, suonata da qualche vecchia fata melanconica.
Tutto il paesetto aveva una insolita aria di festa, eppure quell’aria di festa, quelle porticine spalancate, quelle spire di fumo, quei bimbi impacciati nei vestitini nuovi, quel suono d’organetto, le casette senz’ombra, in quell’ora di luce ardente, avevano qualche cosa di supremamente triste.
Giacobbe condusse il pescatore dalla sorella, e pranzarono assieme. La donnina, vedova e senza figli, adorava il fratello, anzi lo chiamava ancora «fratellino mio». Del resto ella amava «tutto il suo prossimo,» e i suoi occhi, un po’ obliqui, di colore incerto, liquidi e puri come due piccolissimi laghi illuminati dalla luna,