Meditazioni sull'Italia/Seconda parte/Febbraio II
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Seconda parte - Febbraio I | Seconda parte - Marzo | ► |
FEBBRAIO
II
Il Romanzo e la Liberta
Mancando di libertà gli scrittori italiani si racchiudono da secoli in una sensualità elegante. La loro materia è la sensazione, la loro ambizione lo stile.
20 Febbraio
Il fatto che fino alla rivoluzione francese non si fosse liberi, spiega già in parte perchè in Italia gli scrittori tendessero alla lirica — l’espressione del dolore e dell’amore individuale offrendo meno pericoli che una critica dei costumi e della morale — spiega perchè l’Italia non abbia più avuto, dopo il ’400 nè romanzieri, nè filosofi, nè letterati rappresentativi del loro secolo.
Divisa fra tante piccole tirannie, dipendenti tutte dalla Chiesa, l’Italia non ha più avuto libertà di pensiero. Chi può’ dire fin dove la potenza di questa grande Potenza, che è pure la più grande gloria d’Italia, ha contribuito ad allontanare i letterati italiani dalle idee generali, dai principii, dal partecipare alla vita, ai dolori, alle gioie dei loro contemporanei?
La civiltà italiana è una civiltà di pittori, di scultori, di architetti, di musici. Gli è che per compensare gli Italiani dell’olocausto che essi dovevano fare delle loro idee che non fossero ortodosse, Roma ha offerto agli Italiani l’oro e l’argento di tutti i popoli d’Europa.
La magnificenza inutile delle città italiane doveva appagare l’avidità e il gusto di questo popolo di esteti a cui non era concesso di pensare.
20 Febbraio
Mancando di libertà, gli scrittori italiani si racchiudono da secoli in una sensualità elegante, come i pastori dell’Arcadia si rifugiavano in grotte forse un po’ strette ma deliziose. Ad eccezione di qualche grande poeta: Dante, Leopardi, Manzoni che rappresentano piuttosto una reazione contro l’Italia che una sua espressione — tutti gli scrittori italiani hanno sempre cercato di evitare gli scogli dei principi, le tentazioni delle idee generali, gli abissi dei drammi morali. La loro materia è la «sensazione», la loro ambizione lo «stile». Nel XIV°, nel XV° secolo essi descrivono in modo convenzionale e letterario i sorrisi, i pudori, gli sdegni, le forme delle loro dame. Nel XVI° secolo essi cantano in versi perfetti le imprese e gli amori dei paladini di Francia, eroi molto lontani, o i rischi corsi in Terra Santa da Crociati molto cristiani. Nel XVII° e nel XVIII° secolo essi si riparano in quegli isolotti squisiti e ammuffiti che sono le accademie. In mezzo al fracasso della Controriforma e negli anni in cui si prepara la Rivoluzione essi narrano le vicissitudini dolorose dei pastori, a cui i pirati rapiscono le pastorelle da tanti anni sospirate, che gli incisori rappresentano sui frontispizi dei libri scapigliate e gemebonde mentre tendono le braccia dalle poppe delle navi ai loro amanti che singhiozzano sulla spiaggia di un mare tempestoso.
All’inizio del XIX° secolo gli scrittori italiani paiono scoprire il mondo delle idee e di certi grandi principii politici e morali; ma dopo la fine del XIX° e durante il XX° appena la crisi dell’unità è risolta, essi tornano al porto. D’Annunzio, il poeta rappresentativo di questo periodo, non è epico che per errore e per disgrazia; è grande soltanto quando dipinge le sensazioni. Guglielmo Ferrero solo fa eccezione; e questo spiega la strana situazione in cui è rispetto agli altri scrittori italiani.
21 Febbraio
Uno dei più scintillanti critici nostri, Adriano Tilgher, ha notato in un articolo molto sottile su Croce, che Croce per imporsi in Italia stabili tutte le sue teorie sull’estetica. Ma in che consiste questa estetica? In una esaltazione indiretta della sensazione e dello stile. Quando Croce nega che ci sia differenza di valore e di grado fra la Divina Commedia e la Canzone a Nice di Metastasio, quando riduce tutta la letteratura alla «forma» e anzi a «un frammento di forma», Croce spinge gli scrittori italiani nella loro strada naturale.
Gli scrittori dell’ultima generazione coltivano la «sensazione» forse con meno zelo dei loro antecessori; Arturo Loria, Guido Piovene, Corrado Alvaro scrivono dei veri romanzi, delle vere novelle.
Montale si lascia tentare da sogni metafisici. Ma Comisso, Borsanti, Carocci, Francia e anche Moravia partono dalle sensazioni, commentano, sorprendono delle sensazioni, analizzano mirabilmente delle «sensazioni». La sensazione resta pertanto sempre il fondamento della letteratura italiana; quelli che ne sdegnano le risorse e le difficoltà hanno l’aria di lottatori che non rispettan nè le regole nè il premio della lotta; non si sa da qual punto giudicarli.
22 Febbraio
Il teatro segue naturalmente l’andazzo del romanzo. Il popolo italiano che ha dato primo un teatro all’Europa, non se ne interessa più. La Mandragora non è mai stata rappresentata, Goldoni è morto a Parigi; il suo paese preferiva le favole del Gozzi alla sua satira sia pur così benevola.
Se togli al teatro la psicologia e la coscienza morale che dramma vuoi fare? Resta la lirica, la farsa popolaresca. Gli Italiani si sono ripiegati sulla lirica e sulla farsa; gli intellettuali si appassionano per Leopardi, Dante, Pascoli, il pubblico grosso si interessa alle cavatine dei drammaturghi da strapazzo. L’intrigo, la tirata sentimentale è la sola base del teatro italiano. Il Glauco di Morselli si è imposto per qualche anno perchè il mito poetico, in cui le passioni erano chiare e grandiose di un colore unito, affascinavano il pubblico colla loro superficie brillante, e perchè gli spettatori, benché non apprezzassero la bellezza della forma, erano sensibili a quella tristezza maestosa, al dolore elementare di un dramma semplice, in cui riconosceva le proprie passioni borghesi, diventate eroiche.
23 Febbraio
Il grande successo di Pirandello contrariamente a quel che si crede, conferma la regola. Il teatro di Pirandello non è psicologico e neppur morale: è un teatro a base di intrigo — teatro popolaresco. A primo aspetto pare un paradosso chiamare popolaresco un teatro arduo, fecondo in ragionamenti cerebrali e capziosi, in cui il pubblico deve lambiccarsi il cervello per avere non solo la chiave del dramma, ma la chiave di una parola e anche della parentela dei personaggi. Ma, a parte lo snobismo, che ha una certa importanza, e malgrado la difficoltà del soggetto e il malessere in cui ci piomba nei primi momenti, il teatro di Pirandello piace al pubblico per quel groviglio di avvenimenti imprevisti che il pubblico è chiamato a indovinare.
Vi si trova qualcosa che non è chiaro al primo incontro, ma che è più chiaro al secondo, che si impone al pubblico meravigliato dopo la terza, la, quarta, la decima commedia a cui assiste. Quando un genere teatrale puo’ essere capito colla quantità, e per la ripetizione degli stessi mezzi, ci mostra che le sue radici non si approfondiscono sulla terra comune, ma che esiste come un mondo a parte, come una lingua straniera che si puo’ penetrare coll’esercizio.
Pirandello è originale perchè utilizza dei soggetti assolutamente nuovi, mentre gli altri rinnovano attraverso il loro temperamento i soggetti eterni della vita quotidiana. Quando si sono capiti certi elementi, fino ad allora sconosciuti, del mondo in cui l’autore ci vuol far penetrare, le difficoltà svaniscono e il pubblico è lusingato dalla illusoria facilità colla quale egli afferra i concetti che dapprima gli parevano inabordabili. Si diverte ad ascoltare una lingua misteriosa e astratta che gli sembra ormai chiara, come, quando sentiamo una conferenza all’estero, ci godiamo di afferrare il senso letterale delle parole. Cosí divertendo con dei fuochi d’artificio il pubblico, questo grande incantatore gli fa tollerare, senza che egli se ne accorga, un’idea profonda.
Si vede dopo l’iniziazione, che anche certi elementi antiteatrali del teatro di Pirandello — i ragionamenti interminabili, il bisogno che hanno i suoi personaggi di mettersi continuamente al loro posto nella scala dei valori, quello di raccontare continuamente che non si sentono il centro ma una piccola parte dell’universo — diventano cari al pubblico che strizza l’occhio al vicino quando i personaggi compaiono, dicendo: «Ecco Pirandello. Questo è proprio del Pirandello» soddisfatti e fieri personalmente di riconoscerlo.
Sostenere che il teatro di Pirandello non è popolaresco è come sostenere che una lingua straniera non può essere parlata che da scienziati, perchè il popolo da noi non la conosce; poiché il pubblico dopo qualche tempo gioca colle idee assurde e funambolesche come se gli fossero sempre state famigliari. Il teatro di Pirandello appartiene e quel genere di dramma che sta fra il lirico, il mitico, il fantastico, in cui sono presentati degli uomini anormali in un groviglio di casi strani. Non è dramma universale o psicologico o morale, di cui il significato si capisce subito o non si capisce mai. Non è dramma che rifletta un’epoca e cerchi di influire su essa.
24 Febbraio
Il mondo è un gioco di azione e reazione. Il romanzo nasce dalla coscienza morale e la coscienza morale si forma sul romanzo.
I giudizi nostri non hanno valore fino a che non sono espressi in parole, e il compito di esprimerli spetta appunto allo scrittore.
Il pubblico d’oggi freme ancora d’orrore davanti alle crudeltà esercitate dai negrieri di ieri (untorelli davanti ai dittatori di oggi) sui poveri schiavi negri, su cui tutta una letteratura, sia pure antiquata, richiama la sua attenzione; resta indifferente alle terribili sofferenze degli esiliati di oggi di cui la letteratura non ha ancora parlato.
E ben sanno ciò i dittatori, che cominciano sempre coll’eliminare dai rispettivi paesi gli scrittori che potrebbero dare su loro un giudizio spassionato; e coll’obbligare gli scrittori prezzolati a cantarne le gesta.
25 Febbraio
Se la condizione generale di una letteratura è la libertà, la qualità più necessaria a uno scrittore è quella più esecrata da ogni regime di tirannia: il coraggio.
Il primo insegnamento che ci offre Tolstoi che fu certo il più grande romanziere, è questo: «Tutte le idee che ci vengono direttamente dagli uomini sulle cose, sono false. Non accettare mai nulla di quanto offrono gli uomini, i libri, i tuoi stessi ricordi, la tua stessa volontà — senza un esame accuratissimo.» Non ho mai vistò un romanziere lottare cosí furiosamente e continuamente non solo contro le idee fatte, ma contro quelli che vorrei chiamare i «sentimenti fatti», le «sensazioni fatte». Non ho mai visto alcuno esaminare con tanta incredula attenzione quello che siamo abituati a considerare certo e indiscutibile, capovolgere, distruggere miti, come Tolstoi. «Gli uomini più intelligenti si lasciano tentare talvolta da questa realtà bell’e fatta, — dice — l’accettano e contribuiscono, accettandola, a renderla più indiscutibile. Per vedere la realtà più profonda bisogna avere il coraggio di guardare in sè. Guardare in sè è difficile; la paura delle opinioni altrui, la vergogna, la nostra presunzione e una educazione lunghissima ci impediscono di essere onesti di fronte a noi medesimi, come di fronte agli altri.
Tolstoi ci ha dato parecchi esempi di coraggio. Noto è il suo atteggiamento di fronte a Shakespeare. Riescono preziose a questo punto di vista le pagine di introduzione allo studio su Shakespeare. Tolstoi stesso confessa la sua paura di ammettere che, onta suprema, non amava Shakespeare: paura che è riuscito a vincere dopo essersi illuso volontariamente, per molti anni, soltanto in vecchiaia.
26 Febbraio
Notissimo è l’atteggiamento di Tolstoi di fronte a Napoleone, ai generali, alla strategia, alla guerra.
Ricordo una descrizione di battaglia, in cui si vede il generale passivo, che vince una battaglia senza far nulla. Difficilissimo, anche per dei testimoni oculari, anche per l’aiutante di campo, di ammettere che il generale ha vinto la battaglia per caso. I racconti, le relazioni fatte retrospettivamente, hanno troppa influenza sull’animo di quelli stessi che le sanno false: l’idea fatta, che i generali conducono le battaglie è troppo potente, perchè un uomo normale abbia il coraggio di dirsi: «no, sono io che mi sbaglio. Le cose succedono proprio cosí, come mi par di vedere in questo momento».
Ma al di fuori di questi esempi celebri si possono trovare in Guerra e Pace migliaia di casi in cui Tolstoi smentisce, con coraggio «la realtà bell’e fatta», la vita «come si crede che debba essere.»
Natacha scrive al Principe André delle lettere stupide e le fa vedere alla mamma prima di spedirle, per paura di lasciarvi degli errori di ortografia. Non so perchè scelgo questo particolare: ma mi sembra che Tolstoi dimostri qui di essere coraggioso e che mostri anche quanta «aria vissuta» dia questo particolare impensato, che ciascuno nella propria esperienza può controllare.
27 Febbraio
D’altra parte Tolstoi non solo ha il coraggio di descrivere la realtà com’è, ma come essa ci appare a seconda dei momenti in cui la si vede. Tolstoi ci insegna a creare nei personaggi dei veri e proprii rapporti di tono, come farebbe un pittore; il che è contrario alla persuasione comune la quale crede che i fatti materiali esistono in sè e per sè sempre uguali. In nessun romanzo, come in Guerra e Pace, si sente che i personaggi esistono nella misura in cui sono contigui. I personaggi si ravvivano, acquistano una fisionomia particolare per il fatto che sono uno vicino all’altro. E gli stessi drammi per la contiguità diventano più potenti. Non si apprezzerebbe la facoltà che ha Tolstoi di giudicare volta a volta il mondo dal punto di vista del personaggio che è in scena, se i personaggi non fossero diversissimi e contigui. Tolstoi confusamente doveva rendersene conto, se no perchè avrebbe messo, nella stanza in cui Kutuzoff raduna il consiglio di guerra, per decidere la ritirata, una bambina? Perchè dar tanta importanza in quel momento al giudizio di una bambina, che vede in Kutuzoff «un buon nonno», se non per mettere in evidenza la quantità infinita dei punti di vista umani?
28 Febbraio
Coraggio è dunque necessario allo scrittore per vedere e descrivere il mondo cogli occhi proprii e non cogli altrui. Coraggio per giudicare degli avvenimenti che avvengono sotto i nostri occhi; per affrontare l’opinione pubblica ligia sempre alle formule e ai giudizi antecedenti e mal disposta ad accettarne di nuovi. Questo spiega come grandi romanzieri, non possano vivere che sotto un regime in cui il coraggio può espandersi, in un regime di libertà.