Il raccontafiabe/Mastro acconcia-e-guasta
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MASTRO-ACCOINCIA-E-GUASTA
era una volta un vecchio falegname, che aveva una botteguccia e pochi arnesi del suo mestiere: una sega, un succhiello, una pialla, uno scalpello, un martello, una tanaglia, il pancone e nient’altro.
Lavorava di grosso, e ordinariamente gli davano ad acconciare cose vecchie; per questo gli avevano appiccicato il nomignolo di Mastro Acconcia‐e—guasta. Guastava un uscio e rimediava una cassa, un tavolino, due sportelli, secondo la richiesta. La colla e i chiodi dovevano comprarli gli avventori.
— Perchè, mastro Acconcia‐e‐guasta?
— Perchè sì. —
I chiodi che avanzavano li rendeva, la colla no; la metteva da parte.
— Perchè, mastro Acconcia‐e‐guasta?
— Perchè sì. —
Era la sua risposta; e tirava su una presa di tabacco.
Guadagnava pochino: intanto se la scialava meglio di un principe. Di dove li cavava tanti quattrini?
La mattina andava al mercato per far la spesa:
— Macellaio, quel filetto di bue quanto costa?
— Non è per la vostra bocca, mastro Acconcia‐e‐guasta; è per la tavola del Re.
— Ho la bocca come lui! —
Glielo dicevano a posta ogni volta per fargli rispondere così. E tutti ridevano:
— Bravo, mastro Acconcia‐e‐guasta!
— Pesciaiolo, quello storione quanto costa?
— Non è per la vostra bocca, mastro Acconcia‐e‐guasta; è per la tavola del Re.
— Ho la bocca come lui! —
E tutti ridevano:
— Bravo mastro Acconcia‐e‐guasta! —
Comprava un monte di roba, carne, pesce, formaggio, salame, erbe, frutta, le meglio cose.
— Chi se la mangia tutta cotesta roba, mastro Acconcia‐e‐guasta?
— Io e i miei figliuoli.
— O che avete dei figliuoli?
— Sì: Seghina, Piallina, Scalpellino, Martellino, Tanaglina e Succhiellino che è il minore. —
E la gente rideva:
— Buon appetito a tutti, mastro Acconcia‐e‐guasta! —
Tornato a bottega, riponeva in un canto la cesta con la roba, e si metteva a lavorare senza mai smettere fino a tardi, finchè vi si vedeva.
— E il desinare, mastro Acconcia‐e‐guasta?
— Lo preparano, in cucina. —
A un’ora di notte, mastro Acconcia‐e‐guasta si chiudeva in bottega e metteva tanto di spranga alla porta.
Ed ecco, acciottolìo di piatti, tintinnìo di bicchieri, rumore di argenteria e di coltelli smossi, quasi lì dentro apparecchiassero una gran tavola. E, poco dopo, risate, strilli, e mastro Acconcia‐e‐guasta che gridava:
— Sta’ buona, Seghina!... Attento, Scalpellino! Tu mi rompi quella bottiglia!... Bada, non conciarti, Tanaglina!... Sporcaccione di Martellino!... Piallina, Succhiellino, a posto le mani! —
I vicini, dietro la porta, stavano a sentire, stupiti.
La mattina:
— Gran pranzo, eh, mastro Acconcia‐e—guasta? I figliuoli vi fanno disperare.
— Eccoli lì, cheti cheti. —
E mostrava gli arnesi attaccati a una parete della botteguccia; ma la cesta era vuota, e di quel monte di roba da mangiare non restava briciolo, neppure le lische del pesce, o i nòccioli della frutta.
I vicini non sapevano che almanaccare per scoprire il mistero di mastro Acconcia‐e—guasta; e perdevano il tempo inutilmente.
Di giorno vedevano un povero vecchio che si rompeva le braccia a lavorare fino a tardi in quel bugigattolo che pareva una tana. E tutta la roba da mangiare? E l’acciottolìo de’ piatti, e le risa, e gli strilli?
Invano avean tentato più volte di far un buco alla porta per guardare dentro. Il legno sembrava mezzo fradicio; non c’era però succhiello che potesse arrivare a penetrarlo.
— Che legno è questo, mastro Acconcia‐e‐guasta!
— Legno‐ricotta.
— Allora perchè non ve lo mangiate?
— La ricotta non mi piace.
— Non ce la date a intendere, mastro Acconcia‐e‐guasta! —
Egli alzava le spalle e tirava su una presa di tabacco:
— Lasciatemi in pace. —
La cosa giunse fino all’orecchio del Re:
— Ah! dice: Ho la bocca come lui? —
E ordinò che a mastro Acconcia‐e‐guasta i venditori dessero la peggiore roba che avevano, pena la vita.
Quella mattina, mastro Acconcia‐e‐guasta dovette rassegnarsi a portar via certa carnaccia che non l’avrebbero voluta neppure i cani; pesce guasto, formaggio inverminito, frutta mézza.
— Siete contento, mastro Acconcia‐e‐guasta?
— Se son contento io, non saran contenti gli altri.
— Perchè?
— Perchè sì. —
Il Re dava un pranzo al Ministri e al dignitari di corte.
Portano in tavola, e Re, Ministri, dignitari arricciarono il naso. La carne puzzava come una carogna, il formaggio camminava da sé su pei piatti, tanto formicolava di vermi, la frutta ammorbava di fracidume.
— Come mai? — urlò il Re. — Venga qui quel birbante del cuoco. —
Il povero cuoco giurò e spergiurò che aveva comprato roba buona; ci aveva i testimonii. In cucina, le pietanze spandevano un odore da resuscitare anche un morto.
Re, ministri, dignitari dovettero acconciarsi con un po’ di pan duro, bagnato nell’acqua; altrimenti sarebbero morti di fame.
— Questo è un tiro di mastro Acconcia‐e—guasta! — disse uno dei Ministri. — Vo’ andare a vedere se è vero. —
Si travestì e via dal falegname, portando addosso una cassaccia vecchia, per pretesto.
— Acconciatemi questa cassa, mastro Acconcia‐e—guasta.
— Posatela lì. Andate a comprare i chiodi e la colla.
— Colla ce n’avete tanta!
— Quella serve per me.
— Che buon odore di vivande, mastro Acconcia‐e—guasta!
— Sono i resti del desinare; eccoli là. —
Il ministro si sentì venire l’acquolina in bocca a vedere un bel tòcco di filetto arrosto e mezzo pesce con la salsa che dicevano: Mangiami, mangiami!
— O dove l’avete comprata questa buona roba?
— Dove si vende, in mercato.
— So che c’è ordine reale di non darvi roba buona. —
Mastro Acconcia‐e—guasta alzò le spalle e tirò su una presa di tabacco.
Il Ministro rapportò tutto al Re. Tennero consiglio.
— Questo mastro Acconcia‐e—guasta dev’essere un Mago! Leviamogli tutti gli arnesi; vediamo che farà. —
Andarono le guardie e gli sequestrarono pialla, succhiello, martello, sega, ogni cosa. Il Re li volle riposti in una stanza accanto alla sua camera, e per maggior cautela si legò alla cintura la chiave dell’uscio.
Durante il giorno, gli arnesi stettero cheti; ma dopo l’un’ora di notte, in quella stanza si udì un rumore d’inferno: la sega segava, la pialla piallava, il martello martellava, il succhiello succhiellava, la tana glia attanagliava; e, dopo un pezzetto, strilli e pianti.
— Abbiamo fame! Abbiamo fame! —
Il Re corse ad aprire; gli arnesi stavano al loro posto per terra, dove li avevano buttati alla rinfusa. Appena richiuso l’uscio, rumore daccapo, strilli e pianti:
— Abbiamo fame! Abbiamo fame! —
Per quella notte il Re non poté dormire neppure un minuto.
La sera appresso fu peggio. Il Ministro disse:
— Maestà, proviamo a dar loro da mangiare. —
La sega segava, la pialla piallava, il martello martellava, il succhiello succhiellava, la tanaglia attanagliava.
— Chetatevi, in nome di Dio! Ecco qui da sfamarvi. —
E chiusero l’uscio. Ed ecco, acciottolìo di piatti, tintinnìo di bicchieri, rumore di argenteria e di coltelli smossi, quasi lì dentro stessero ad apparecchiare una gran tavola; e poi, risa e strilli:
— Tu mi conci! Tu mi strappi! Tu mi inzuppi. —
Un portento.
— Oh, mastro Acconcia‐e‐guasta dev’essere un Mago! —
Il Re spedì le guardie e se lo fece condurre davanti:
— Che è questo, mastro Acconcia‐e‐guasta? I vostri arnesi parlano e mangiano; come mai? —
Colui si strinse nelle spalle, e tirò una presa di tabacco.
— Se non svelate il mistero, vi faccio tagliare la testa.
— Che mistero o non mistero, Maestà! Essi sono i miei figli.
— E perchè ridotti in quello stato?
— Per aiutarmi a buscarci il pane. —
Il Re gli credette, e ordinò che gli restituissero ogni cosa.
— Badate però di non dire più: Ho la bocca come lui! Ve ne pentirete. —
Mastro Acconcia‐e‐guasta riprese a lavorare. Ma gli avventori diventarono scarsi; la gente avea paura di aver che fare con lui. Invano egli andava attorno per le vie, gridando a ogni quattro passi:
— C’è mastro Acconcia‐e‐guasta! Chi ha roba da guastare e da acconciare! —
Nessuno lo chiamava.
— E ora come farete, mastro Acconcia‐e‐guasta?
— Finchè c’è colla, s’ingolla! —
Infatti di colla in bottega n’aveva una catasta. Di giorno in giorno però essa veniva mancando. Mangia oggi, mangia domani, colla non ce ne fu più.
— E ora come farete, mastro Acconcia‐e‐guasta? —
Mastro Acconcia‐e‐guasta alzava le spalle e tirava su grandi prese di tabacco.
Il Re aveva sei figliuoli, tre maschi e tre femmine, tutti belli e di ottima salute. Ma appunto in quei giorni si ammalarono tutti e sei, e il medico non capiva di che male. Languivano, senza appetito, senza poter tollerare il più leggiero cibo nello stomaco.
Consulti dietro consulti, medicine, intrugli d’ogni sorta non giovavano a niente. La figliuola maggiore morì.
Mentre la portavano a seppellire, ecco mastro Acconcia‐e‐guasta, con una cassettina da morto su la spalla che andava dietro l’accompagnamento:
— Chi vi è morto, mastro Acconcia‐e‐guasta?
— Mi è morta Seghina! —
Il giorno dopo morì uno dei maschi; e mentre lo portano a seppellire, ecco mastro Acconcia‐e‐guasta, con una cassettina da morto su la spalla, che andava dietro l’accompagnamento:
— Chi vi è morto mastro Acconcia‐e‐guasta?
— Mi è morto Martellino! —
Così, ogni giorno, ora moriva un figliuolo, ora una figliuola del Re, e mastro Acconcia‐e‐guasta appariva dietro l’accompagnamento con una cassettina da morto su la spalla:
— Chi vi è morto, mastro Acconcia‐e‐guasta?
— Mi è morto Scalpellino! Mi è morta Piallina! —
Il Ministro, che era furbo, saputo che mastro Acconcia‐e‐guasta era stato veduto ogni volta con una cassetta da morto su la spalla dietro l’accompagnamento dei figliuoli del Re, disse:
— Maestà, se non volete morti tutti i vostri figliuoli, mandate a chiamare mastro Acconcia‐e‐guasta. La disgrazia vi viene da lui. —
Oramai restava in vita una sola figliuola del Re, ed era già all’agonia.
— Ah, mastro Acconcia‐e‐guasta, salvate la mia cara figliuola!
— Ah, Real Maestà, salvate il mio caro Succhiellino!
— In che modo?
— C’è un solo modo: farli sposare! —
Il Re, lì per lì, per amor della figliuola stimò giusto acconsentire:
— Poi, gliela farò vedere io, a mastro Acconcia‐e‐guasta! — disse fra sè.
La Principessa, che era diventata Reginotta perchè più non c’erano altri figliuoli, in pochi giorni guarì.
Il Re disse a mastro Acconcia‐e‐guasta:
— Conducete Succhiellino a palazzo.
— Badate, Maestà: di giorno sarà proprio un succhiello, la notte no. Per ora, la sua sorte è questa.
— E dopo?
— Dopo, quando Dio vorrà, sarà altrimenti.
— Allora, del matrimonio non ne facciamo nulla per ora.
— Come piace a Vostra Maestà. —
Di tratto in tratto, il Re domandava a mastro Acconcia‐e‐guasta:
— È ancora succhiello il giorno e la notte no?
— Ancora, Maestà.
— Allora del matrimonio non ne facciamo nulla.
— Come piace a Vostra Maestà. —
Gli anni passavano. Il Re era contento che il matrimonio della Reginotta con Succhiello andasse per le lunghe, e si divertiva a canzonare mastro Acconcia‐e‐guasta:
— Questo è latte che non rappiglia! E voi che fate, mastro Acconcia‐e‐guasta? Ora non avete più arresi e vi rimane soltanto il succhiello.
— Racconto fiabe a Succhiellino. Ieri glien’ho raccontata una bella assai. Volete sentirla, Maestà?
— Sentiamola, mastro Acconcia‐e‐guasta!
— C’era una volta un Re che aveva due figliuoli, uno buono e l’altro cattivo. Quello buono era il Reuccio e alla morte del padre doveva essere Re. La cosa non garbava al fratello cattivo. —
Il Re si turbò, e lo interruppe:
— La vostra fiaba non mi piace.
— State a sentire, Maestà: il bello comincia qui. Dunque, al cattivo non garbava e pensò di disfarsi del fratello buono, per diventare Re lui alla morte del padre. Disse al fratello: — Andiamo a caccia. — E andarono. Quando furono in un bosco, lontani dalle persone del sèguito, cava fuori la spada e dà addosso al fratello che non si aspettava il tradimento. —
Il Re si turbò maggiormente, e lo interruppe:
— No, no, la vostra fiaba non mi piace.
— Ecco il più bello, Maestà; state a sentire. Egli credeva di averlo ammazzato, e lo lasciò lì per morto dopo averlo coperto con erbacce e rami d’albero. E al padre riferì: — Lo hanno sbranato le fiere!
— Ahimè! — gridò il Re. — Tu sei mio fratello! Perdona! —
E gli si buttò ai piedi, tremante e piangente:
— Non mi far male!... Eccoti la corona! Non mi far male! Sii Re!
— Nè tu, nè io! — rispose mastro Acconcia‐e‐guasta. — Il Re sarà Succhiellino e la tua figliuola Regina. —
Mastro Acconcia‐e‐guasta indossò abiti principeschi; non sembrava più lui, e andò a prendere Succhiellino.
Non era più un succhiello, ma un bel giovane che pareva proprio nato a posta per essere Re. La Reginotta non era da meno di lui.
I due fratelli si abbracciarono, si baciarono; e colui che poco prima aveva il nome di mastro Acconcia‐e‐guasta raccontò la propria storia: in che maniera era scampato da morte; e poi diventato falegname. La gente la dice la fiaba della Figlia dell’Orco; ve la racconterò un’altra volta.
Succhiellino e la Reginotta si sposarono con grandi feste, vissero lieti lunghi anni ed ebbero molti figli.
E chi più ne vuole più ne pigli.