Martino
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MARTINO.
L’uomo che vaneggiando esce di via,
Scosso dal collo l’amoroso freno
Della saggia natura,
Perde il polo di vista e va smarrito;
5E quanto più da quella si dilunga
Tanto perduto più si trova e sente,
Quando i folli pensieri
Gli dan tregua per poco e il van desio.
Richiamarsi colà donde partío.
10Per qualche tempo illusïon gioconde
A lui saran gli splendidi palagi
Della città, le pompe, il lusso e gli agi;
Ma poi cresciuti in core
Sente gli affetti nequitosi e questi
15Crescer sente col crescere degli anni,
Della sua mente già fatti tiranni.
D’acute punte allor trafitto invoca
La natura, ma indarno;
Gli abiti rei l’han stretto di catene
20Che invan s’affanna a sciogliere; e frattanto
Per illuder sè stesso
Di libero e giulivo si dà vanto.
Pure di tempo in tempo: o quando ride
La bella primavera pe’ fioriti
25Lussureggianti prati: o quando autunno
Leva in sui campi il capo incoronato
Di poma e d’uva che contrasta all’oro
Il biondo colorito,
L’uomo della città con sua gran pena
30Si move e si trascina
Seco recando a’ campi la catena.
Son io, son io (così dicea Martino
Negl’istanti d’un lucido intervallo)
Lo snaturato figlio,
35Che un istinto segreto, ultimo avanzo
Della materna eredità, sospinge
Alla tenera madre, al piè träendo
La servile catena
Del vanitoso fasto
40E dell’ambizïon non mai satolla
Che di spine m’ingombrano il cammino.
Madre, quanto a’ tuoi sguardi io son meschino!
«Trovo fra questi aratri,
Fra questi di verzura
45Immensi anfitëatri
La madre mia natura,
Che con aperte braccia
A sè mi alletta e chiama,
E pinta sulla faccia
50Mi mostra la sua brama:
Che con benigno piglio
A me si accosta e dice:
Tutto ti diedi, o figlio,
Per renderti felice;
55Un cor pe’ godimenti;
Ove virtù verace
Agli onorati stenti
Sposa diletto e pace.
Legge ci trovi impressa
60Che d’ogni legge è fiore,
Scolpita da me stessa:
Ama e raccogli amore.
Legge che il core accresce,
Allarga il tuo pensiero,
65Che ti confonde e mesce
All’universo intero.
Senza essa sulla terra
Stranier tu vivi e solo,
Sempre cogli altri in guerra,
70O abbandonato o in duolo.
La mente e l’intelletto
T’ho dato, onde comprenda
Quello esser giusto e retto
Che al comun bene intenda.
75I sensi fu mia cura
Largirti, che gradita
Che vegeta e sicura
Ti rendano la vita.
L’occhio, perchè ti sveli
80Meravigliosa scena,
L’ordin che terre e cieli
Costantemente affrena.
L’orecchio novo incanto
Ti schiude all’alma ancora:
85Dell’usignuolo il pianto
Di voluttà la irrora.
Fra quegli alpestri orrori
Il passer solitario
Intenerisce i cori
90Col dolce accento e vario.
I flauti armonïosi
De’ vispi pastorelli
Fan eco a’ grazïosi
Gorgheggi degli augelli.
95Le nari pur consola
Tributo peregrino
D’odor che l’aura invola
Ai fiori del giardino.
Di frutti in abbondanza
100La mensa ti copersi,
Di tinte, di fragranza
E di sapor diversi.
Vieni, diletto, vieni,
Ascolta i miei richiami;
105Vien tra’ boschetti ameni,
Siedi fra’ verdi rami.
Meco in questo ermo lido
Regna la pace, e regna
Amor che farsi il nido
110Alle colombe insegna.
La fedeltà d’attorno
Qui trovomi ne’ cani
Vigili notte e giorno,
Amici e guardïani.
115Son mia superba reggia
Questi sublimi monti:
La mäestà passeggia
Sulle petrose fronti.
Quale beltà s’aduna,
120Quanta grandezza in essi!
Umana possa alcuna
Non è che vi si appressi.
Osserva come sorgono
Di sopra le foreste,
125E tra le nubi sporgono
Le trarupate creste!
Quante in que’ gran burrati
In que’ cespugli e grotte
Di rettili e d’alati
130Erran viventi frotte!
L’aquile in ciel sospese
Tesson con ala immota
Intorno alle scoscese
Rocce l’aerea rota.
135Felci e vitalbe intorno,
Ellere a gran festoni
Sono i tappeti, onde orno
Le altere mie magioni.
Mira da quella cima
140Come un perenne fiume
Mäestoso si adima
L’onde mutando in schiume!
Giù per occulte scale,
Di questi monti al fondo,
145Trovi le vaste sale
Ove i tesori ascondo.
Quanto l’umano ingegno
Mette ne’ primi onori,
Fra creta e sabbia io tegno,
150Lucenti gemme ed ori.
I rosëi graniti,
Le agate, gli ametisti
A scabre selci uniti,
Al fango son commisti.
155Delle mie grotte sono
Reconditi pilastri,
Son basi del mio trono,
Porfidi ed alabastri.
Vedi come io dispregio
160Tesor sì vano! E vui
Lo avrete in tanto pregio
Da occidervi per lui?
Ma lascia le caverne,
Esci all’aperto, e godi
165Le mie bellezze esterne
Diffuse in vari modi.
O quante specie, o quante
Varïetà d’aspetto
Presentano le piante
170Al mio veder perfetto!
Quante famiglie intere
Vivon d’insetti in loro,
Che in maggio a schiere a schiere
Volan sull’ali d’oro!
175La vite che si piega
Debole in basso sito,
Vedi come si lega
Al pioppo per marito!
Del tronco non fecondo
180Questi in compenso, i figli
Ne adotta e porta il pondo
De’ grappoli vermigli.
L’olivo che vetusto
Pugnò co’ venti e stette,
185Dal fracassato fusto
Germe novel rimette.
Piramidi fastose
Son larici e cipressi;
L’età del mondo ascose
190Leggo scolpite in essi.
Il grato mormorio
Dell’acqua che là scorre
Dice all’erbette: addio,
Io parto, che vi occorre?
195Volete nutrimento?
Verso di me stendete
Le barbe e in un momento
Il nutrimento avrete.
In ricompensa al rivo
200L’albero i rami stende,
E dall’ardore estivo
Coll’ombra lo difende.
Oh i corrisposti affetti!
Oh i ben locati offici!
205Inanimati oggetti
Fra lor son come amici.
Nè credere che l’onde
Sien sole; alla fontana
Galleggia e mi risponde
210Col gracidar la rana.
Tinti d’argento il tergo
Guizzano in fondo all’acque
I pesci, a cui l’albergo
Laggiù segnar mi piacque.
215Le pecchie industrïose
Rimira tra que’ fiori
Che alle cellette ascose
Tornan co’ dolci umori.
Se il mansuëto regno
220Intender ne sapessi
Vergogna avresti e sdegno
De’ tuoi superbi eccessi.
Ma le mie schiere alate
Del sol seguendo il raggio
225Cangian le sedi amate
Com’è l’ottobre o il maggio.
Presentan le stagioni
Le specie lor distinte
A torme ed a squadroni
230Di penne vario-pinte.
Sue nunzie e messaggere
La primavera manda
Le rondin che leggiere
Scorrono d’ogni banda.
235Poi giunge accompagnata
Da quaglie e da stornelli
E d’una smisurata
Folla di vari augelli.
Io tutti li confido
240Agli arboscelli, ai prati,
A fabbricarsi il nido,
Nutrirsi i dolci nati.
Molti co’ novi eredi,
Quando più ferve l’anno,
245Di più benigne sedi
In cerca se ne vanno.
D’autunno a’ lieti giorni
Di lodolette abbondo;
Garrule merle e storni
250Entro i vigneti ascondo.
E quando l’anno inchina
Ho l’oca e la beccaccia,
Che presso alla marina
Scendon di cibo in traccia.
255Nè compagnia mi manca
Di armenti e greggi; e questa
No, non mi opprime e stanca,
Ma pure gioie appresta.
Mi opprime e stanca oh quanto
260Il cittadin tumulto,
Del poverello il pianto,
Del ricco altier l’insulto.
Frodi, avaníe, raggiri,
Disordini e scompigli....
265O stolidi o deliri
Miei tralignati figli!»
Così favella di Martino al core
L’ingenüa natura. E la ragione
Che della verità la voce ascolta
270Santa ed util la trova,
Gran diletto ne prova e già la segue.
Ma le perverse ambizïose usanze
Che dagli anni primieri
Soggiogata l’avean, a’ bei pensieri
275Oppongon vane idee, vane sembianze,
Che ricopron di tenebre la mente.
Così Martino che veduto avea
Un lampo di saggezza, si ritorna
Macchina come pria,
280A cui l’abito solo imprime il moto.
E come nave in tempestoso mare
Senza vele e piloto, ai folli affetti
Che lungi lo trabalzano dal porto,
Riman ludibrio l’infelice; e segue
285A far, non punto accorto
Delle interne battaglie e degli affanni,
Quanto fatto egli avea da’ suoi primi anni.
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