Lo spirito di contradizione/Atto I

Atto I

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Personaggi Atto II

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ATTO PRIMO.

SCENA PRIMA.

Camera con tavolino e sedie.

Rinaldo, Ferrante, Fabrizio, Roberto, Gaudenzio, Foligno, Volpino.


Gaudenzio. Sia ringraziato il cielo. Giust’è ch’io mi consoli,
Per le nozze concluse, coi padri e coi figliuoli.
Alfin, signor Roberto1, Cammilla è vostra sposa:
Avrà il signor Fabrizio una nuora amorosa.
La figlia vostra alfine sarà contenta anch’ella.
(a Ferrante)
Voi piacer sentirete del ben della sorella.
(a Rinaldo2)

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Tutto, per grazia vostra, col mezzo mio si è fatto;

Basta sol che le parti soscrivano il contratto.
Il padre per la figlia prometta in chiare note;
Il fratello si firmi anch’egli per la dote.
Sottoscriva lo sposo a quel che ha già promesso,
E alla manutenzione il genitore anch’esso.
Voi, Volpin, voi, Foligno, servir di testimonio
Potrete alla scrittura del loro matrimonio.
Rinaldo. Prima di sottoscrivere, parmi saria ben fatto
A Dorotea mia moglie far sentire il contratto.
Che dice il signor padre?
Ferrante.   Per dir la verità.
Farlo ci converrebbe almen per civiltà.
Ma il suo temperamento, che a tutto ognor si opporre,
Dubito non ci venga a pone in confusione.
Roberto. Di grazia, tralasciamo per or codesto uffizio;
A tutti vostra moglie suol contradir per vizio.
Quel che con tanto stento siam giunti a terminare,
Non vorrei che da capo si avesse a principiare.
Fabrizio. Quello ch’è fatto, è fatto: se vien quella testaccia,
L’opera di due mesi scommetto che ci straccia.
Gaudenzio. Io che per amicizia tanto operai finora.
Dovrei essere esposto a disputare ancora?
Tanto non ho sudato in tempo di mia vita.
No, no, sottoscriviamo; facciamola finita.
Rinaldo. Dite bene voi altri, che siete fuor d’intrico,
Ma io che ci son dentro, so io quel che mi dico.
Se Dorotea lo penetra, se il foglio sottoscrivo
Senza ch’ella lo sappia, affè mi mangia vivo.
Se con piacer di tutti dee terminar l’affare,
Non fate che per questo io m’abbia ad inquietare.
Ferrante. Penso anch’io veramente, che se dall’ira è invasa,
Avrem con questa donna il diavolo per casa.
Scacciato un servitore senza darlene avviso,
È stata quattro mesi senza guardarmi in viso.

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Rinaldo. Che con voi si riscaldi, si facile non è;

Ma tutta la tempesta cadrà sopra di me.
Quando non la secondo, fa tutto per dispetto,
E per solito aspetta a tormentarmi in letto.
Ferrante. Vediam, se fia possibile di far le nozze in pace.
Rinaldo. Facciamola venire? (a Fabrizio)
Fabrizio.   Fate quel che vi piace.
Gaudenzio. Se a quel che si è concluso la femmina si oppone?
Ferrante. Di maritar mia figlia non sono io il padrone?
Avere non intendo da lei tal dipendenza;
Facciamola venire per mera convenienza.
Rinaldo. Volpino.
Volpino.   Mi comandi.
Rinaldo.   Avvisa la signora.
Volpino. Subito. (il matrimonio non si fa più per ora.) (parte)
Roberto. Compatite, signori, se dico un’altra cosa:
Perchè in tale occasione non far venir la sposa?
Ferrante. Sarebbe fuor di regola far venir la fanciulla;
Le figlie nel contratto non c’entrano per nulla.
Quando sarà firmato, si lascierà vedere.
Rinaldo. Ecco qui Dorotea.
Ferrante.   Datele da sedere.
(al servitore, che le prepara una sedia)

SCENA II.

Dorotea ed i suddetti.

Dorotea. Serva, signori miei. Di lor chi mi domanda?

Rinaldo. Mio padre vi desidera.
Dorotea.   Son qui. Che mi comanda?
Ferrante. Nuora mia dilettissima, presso di me sedete;
Del mio amor, di mia stima, un nuovo segno3 avrete.

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Per la figliuola mia noto vi è già il trattato;

Ora par che l’affare sia bello e terminato.
Ma prima di concludere le nozze infra di noi,
Desidero che intesa ne siate ancora voi.
Rinaldo. Ora per mio consiglio vi hanno perciò chiamato.
(Non vorrei che dicesse, che io non ci ho pensato). (da sè)
Dorotea. È un onor ch’io non merito, la grazia che or ricevo.
Il suocero ringrazio per simili favori.
Ringrazio mio consorte, ringrazio lor signori;
E di cuor mi rallegro del ben di mia cognata,
Che può per nozze tali chiamarsi fortunata.
Ferrante. (Vedete, se fu bene farle un tal complimento?) (a Gaudenzio)
Gaudenzio. (Finor, per dir il vero, di lei non mi scontento).
Fabrizio. Con voi se imparentarsi mio figlio avrà l’onore,
Vi sarà in ogni tempo cognato e servitore.
Roberto. E con verace stima, e con sincero affetto.
Procurerò di darvi dei segni di rispetto.
Rinaldo. Vi prego in sua presenza di leggere il contratto. (a Gaudenzio)
Dorotea. È concluso l’affare?
Gaudenzio.   Sì, è stabilito affatto.
Dorotea. Bravissimi: vi lodo. Voi mi avete chiamata.
In tempo ch’è ogni cosa conclusa e terminata.
Per simile finezza vi ringrazio davvero.
Così non avrò briga di dire il mio pensiero.
Rinaldo. Vi dolete non essere stata chiamata in prima?
Dorotea. Oh no, signor consorte, conosco quanta stima
Fa di me questa casa. Comprendo che chiamarmi
Non ha voluto innanzi, per meno incomodarmi.
Che poteva una donna del mio discernimento
Suggerire a quattr’uomini di senno e di talento?
E poi di una consorte è inutile il consiglio.
Dove comanda il padre, dove dispone il figlio.

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Con uomini di garbo a noi parlar non tocca.

Femmine destinate al fuso ed alla rocca.
Gaudenzio. Sentite? (a Ferrante)
Ferrante.   Cara nuora, se io non vi stimassi,
Qual ragione obbligarmi potea ch’io vi chiamassi?
Ancor di queste nozze non è firmato il foglio,
E i vostri sentimenti pria di firmarlo io voglio.
Dorotea. No, signor, vi ringrazio. (s’alza)
Rinaldo.   Datemi un tal contento.
Dorotea. Bene, l’ascolterò per mio divertimento.
Ferrante. Via, Gaudenzio, leggete.
Gaudenzio.   Leggiamolo in buon ora.
Fabrizio. Quello ch’è fatto, è fatto. (a Roberto)
Roberto.   Ho dei timori ancora. (a Fabrizio)
Gaudenzio. Col presente chirografo, che per consentimento
Delle parti avrà forza di pubblico istrumento,
Che in faccia ai testimoni sarà corroborato
Di man di contraenti soscritto e confermato.
Promette l’illustrissimo signor Ferrante...
Dorotea.   Oh bello!
Proprio quell’illustrissimo vi è calzato a pennello.
Gaudenzio. Vuole la convenienza, che in occasion simili
Si onorino le case degli uomini civili.
Ferrante. Che vorreste voi dire con questa intemerata?
In casa di villani non siete maritata.
Dorotea. Perdoni vossustrissima. Mai più non parlerò. (a Ferrante)
Rinaldo. Dorotea, siete in collera?
Dorotea.   Illustrissimo no.
Gaudenzio. Quand’è così, signora, mi aspetto ad ogni articolo,
Che lo facciate apposta per mettermi in ridicolo.
Fabrizio. Fin qui, per dir il vero, mi par che abbia ragione
Di mettere in ridicolo codesta affettazione.
I titoli a che servono? che val la vanità?

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Son tutti pregiudizi cresciuti coll’età.

Signora Dorotea, vi lodo, e vi professo
Che trovomi con voi d’un sentimento istesso.
Se avrò con queste nozze l’onor di praticarvi,
Non abbiate timore ch’io venga ad illustrarvi.
Mi piacciono le donne qual voi di buona pasta:
Buon giorno, vi saluto, vi riverisco, e basta.
Dorotea. Signor, con buona grazia, chi credete ch’io sia?
Sempre dell’illustrissima mi han dato in casa mia.
Nobile è mio marito, del fior della Toscana;
Buon giorno, vi saluto, si dice a una villana.
Fabrizio. Credea di compiacervi, signora, in mia coscienza.
Dorotea. Oh, vi darò la mancia per sì gran compiacenza.
Seguitate, signore. (a Gaudenzio)
Rinaldo.   (Ecco il stile ordinario.
Dite di sì o di no, risponde all’incontrario).
Gaudenzio. La signora Cammilla concedere in isposa
Al nobile signore Roberto Bellacosa,
Ed il signor Roberto l’accetta qui presente.
Ed il signor Fabrizio all’obbligo acconsente.
Coi patti e condizioni che appiè si leggeranno,
Per concluder le nozze nel termine d’un anno...
Dorotea. Come! un anno di tempo? Io non son persuasa
Che abbiasi per un anno tal seccatura in casa.
Vorrà venir lo sposo, e avrà la sua ragione;
Ma io, signori miei, non vuò tal soggezione.
Gaudenzio. Ecco una novità.
Roberto.   Signora, io vi prometto...
Dorotea. In questo, compatitemi, parlovi tondo e schietto.
So di una sposa in casa la soggezion qual è.
Veggo che questo lotto ha da toccare a me.
O che si sposi subito, o fuor di queste porte
Io vado immantinente, unita a mio consorte.
Ferrante. Cosa dici, Rinaldo?
Rinaldo.   Veggo, conosco anch’io...

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Dorotea. Senza tanti discorsi farete a modo mio. (a Rinaldo)

O il contratto si regoli con altre condizioni,
O fuor di questa casa senza ascoltar ragioni.
Roberto. Stabilito il contratto, vi par, signor Ferrante,
Ch’io comparir non debba alla mia sposa innante?
Fabrizio. Mio figlio è galantuomo, non merta un simil torto.
Gaudenzio. Il contratto va in fumo. Già me ne sono accorto.
Ferrante. Nuora, le mie ragioni tutte vi farò note.
Si è preso tempo un anno per causa della dote.
Se questa fosse pronta, vorrei, per soddisfarvi.
Maritandola subito l’incomodo levarvi.
Roberto. Signor, circa la dote, per me è la stessa cosa...
Fabrizio. Taci tu, che non c’entri. Qua il danar, qua la sposa.
Dorotea. Prima ch’io mi sposassi, pareva che qua drento
Vi fosse l’abbondanza dell’oro e dell’argento.
Ora, per quel ch’io vedo, siam belli e corbellati.
Quanto date alla figlia? centomila ducati?
Ferrante. Le do la stessa dote, che voi portata avete.
Dorotea. Diecimila ducati dunque non li averete?
Ferrante. Li avrei, se non avessi pel vostro sposalizio
Mandata, si può dire, la casa in precipizio.
Basta, più non si parli, che a dirlo io mi vergogno.
Cammilla è mia figliuola, dee avere il suo bisogno.
Vi preme che sen vada? Se ne anderà; facciamo
Un negozietto insieme, e quest’affar spicciamo.
Voi ci portaste in dote diecimila ducati;
Questi dal vostro padre ci furono girati,
E sussistono ancora nel pubblico deposito.
Cedendoli a Cammilla...
Dorotea.   Non fo questo sproposito.
S’ella coi miei danari aspetta a mantarsi,
Può star fino che campa in casa a consumarsi.
Ferrante. Sarà la vostra dote sui beni miei fondata.
Dorotea. Voglio il mio capitale, col qual fui maritata.
Gaudenzio. Dunque, signori miei, si può stracciare il foglio.

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Ferrante. Data ho la mia parola, e mantenerla io voglio.

Dorotea. Mantenetela pure.
Fabrizio.   Non voglio una disgrazia.
Rinaldo. Ma via, cara consorte...
Dorotea.   Tacete, malagrazia.
Roberto. A costo d’ogni cosa, signor, chiedo perdono,
Voglio la mia Cammilla. (a Fabrizio)
Fabrizio.   Taci, tuo padre io sono.
Gaudenzio. Ora un pensier mi viene, comunicarlo io voglio;
Se questo non vi comoda, può lacerarsi il foglio.
Prendasi per la dote un anno di respiro,
E intanto la fanciulla si metta in un ritiro.
Dorotea. Bravo, signor Gaudenzio, vada in un altro loco,
E aspettino anche un secolo, che me n’importa poco.
Ferrante. Povera la mia figlia! perchè andar rinserrata?
Ma via, pur che s’accomodi, che sia sagrifìcata.
Voi, genero, soffrite l’incomodo di un anno.
Roberto. Pazienza; sarò pronto a tollerar l’affanno.
Fabrizio. Concludasi una volta.
Gaudenzio.   Su via, sottoscrivete.
A voi, signor Ferrante: la dote promettete;
Ed il signor Rinaldo ne sia manutentore.
Dorotea. Manutentor Rinaldo? V’ingannate, signore, (s’alza)
Rinaldo è mio marito. Fin che sua moglie vive,
Contratti, obbligazioni affè non sottoscrive. (a Gaudenzio)
Andiam, venite meco, vi ho da parlar di cosa
Di questo bel contratto assai più premurosa. (a Rinaldo)
Con licenza, signori; senza di lui potete
Prometter, sottoscrivere, concluder se volete.
L’illustrissimo padre può dispor da sè solo.
Senza dell’illustrissimo Rinaldo suo figliuolo.
Presto, venite meco; la cosa è importantissima;
Non mi fate arrabbiare. Serva di vossustrissima.
(a Ferrante, e parte; poi a suo tempo ritorna)

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Rinaldo. Con permission... (in atto di partire)

Ferrante.   Rinaldo, temi tu della moglie?
Non sei dopo di me padrone in queste soglie?
Rinaldo. Differite anche un poco la mia sottoscrizione.
Sapete della bestia qual sia l’ostinazione.
Lo so che dall’impegno sottrarmi non conviene;
Lo farò quanto prima.
Dorotea.   Si viene, o non si viene? (alterata)
Rinaldo. Vengo sì, non gridate. Servo di lor signori. (parte)
Dorotea. Chi sente lui, son io la fonte dei rumori.
E pur, per questa casa non so che non farei,
Pel suocero e lo sposo il sangue spargerei.
Voglio bene a Cammilla, come a una mia sorella,
Bramo che sia contenta la povera zitella.
Fare saprei con essa le veci di una madre,
Avrei cuor, se occorresse, di sollevare un padre.
E femmina qual sono, avrei bastante ingegno
Di far felicemente concludere l’impegno.
Ma far senza ch’io sappia, e all’ultimo chiamarmi,
Lasciate ch’io lo dica, è un modo di burlarmi.
So le mie convenienze. L’ordine lo capisco.
Ferrante. Via, con voi tratteremo.
Dorotea.   No no, vi riverisco. (parte)
Ferrante. Per dir la verità, lo so ch’è di buon cuore;
Ma si è messa in puntiglio. Pregovi di un favore.
Soscrivere il contratto per ora sospendiamo,
E lei colla dolcezza di guadagnar proviamo.
Fabrizio. No no, liberamente vi dico i sensi miei:
S’è donna puntigliosa, lo sono al par di lei.
Se ha posto in soggezione il suocero e il marito.
Per me, ve lo protesto, l’affare è già finito.
Più fra noi non si parli di matrimonio, e tu
Fuori di questa casa, e non venir mai più.
Roberto. Chetatevi, signore...

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Fabrizio.   Via di qua immantinente.

Roberto. Il mio cuor, la mia sposa.
Fabrizio.   Vattene, impertinente.
Roberto. (Di perdere il mio bene, no, non poss’io soffrire.
Voglio la mia Cammilla a costo di morire).
(da sè, indi parte)
Fabrizio. Schiavo, signori miei.
Ferrante.   Come, signor Fabrizio,
Mandar per così poco l’affare in precipizio?
E voi, signor Gaudenzio, mutolo siete fatto?
Gaudenzio. Non voglio più saperne, e lacero il contratto.
Ho fatto assai finora a avermi trattenuto.
Compatite di grazia, amico, vi saluto. (parte)
Fabrizio. Vergogna, che una donna giungavi a far paura.
Ferrante. Eccomi. A suo dispetto...
Fabrizio.   Stracciata è la scrittura. (parte)
Ferrante. Ma io nella muraglia mi batterei la testa.
Vuol comandar la nuora? che impertinenza è questa?
E mio figlio medesimo cotanto è scimunito.
Che una moglie insolente può renderlo avvilito?
Eh cospetto di bacco, vuò far veder chi sono;
Ma mi confondo anch’io, quando con lei ragiono.
Pacifico fu sempre il mio temperamento.
Colei che lo conosce, mi ha preso il sopravvento.
Rinaldo ch’è mio figlio, anch’ei va colle buone,
E dubito ch’egli abbia paura del bastone.
Finora delle risse abbiam sfuggito il tedio.
Ora che il male è fatto, difficile è il rimedio.
Della bontà soverchia, eccolo qui il bel frutto:
La femmina orgogliosa vuol contradire a tutto.
Vorrei di queste donne averne un centinaio,
E come la triacca pestarle in un mortaio. (parte)

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SCENA III.

Altra camera.

Dorotea e Cammilla.

Dorotea. Cognata, io non intendo con voi giustificarmi.

Vi amo, vi ho sempre amato, nè mai saprò cangiarmi.
Se ho detto qualche cosa circa al vostro contratto,
Per me non solamente, ma anche per voi l’ho fatto.
Che razza di giustizia è questa che ci fanno?
Stupisco delle donne, che stolide ci stanno.
Un padre a suo talento promette per la figlia;
Un marito, obbligandosi, la moglie non consiglia.
Pretendono disporre con piena autorità.
Senza voler attendere la nostra volontà.
In quanto a me, certissimo, vuò dire il parer mio.
Se portano i calzoni, li so portare anch’io.
Cammilla. In sostanza, cognata, per quello che mi dite,
Il contratto di nozze finito è in una lite.
Dorotea. La ragion, la giustizia, dalla violenza è oppressa.
Cosa avereste fatto nel caso mio voi stessa?
Cammilla. Col padre e col fratello il mio dover lo so.
S’essi di me dispongono, perchè ho da dir di no?
Dorotea. Vi par che sia ben fatto prendere tempo un anno?
Cammilla. Se così han stabilito, sapran perchè lo fanno.
Dorotea. E vogliono in quest’anno cacciarvi in un ritiro.
Cammilla. Vi andrò volontierissima, senza trarre un sospiro.
Dorotea. Con questa vostra flemma voi mi fareste dire.
Far tutto quel che vogliono, senza mai contradire?
È segno che Roberto pochissimo vi piace.
Cammilla. L’amo il signor Roberto, ma bramo la mia pace.
So che vi son d’incomodo, cognata mia, lo vedo;
L’incomodo maggiore per l’avvenir prevedo.
Allor ch’io fossi sposa, a me, per quanto lice.
Dovreste far le veci di madre e di tutrice.

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Se mi volete bene, vi supplico, cognata,

Fate che per quest’anno mi tengano serrata.
Dorotea. Parlare in tal maniera è un torto che mi fate.
Meco restar dovete, infin che vi sposate.
Voglio aver io l’onore, col mio debole ingegno,
Del vostro sposalizio di assumere l’impegno.
Stabilito il contratto, gli usati complimenti
Da me riceveranno gli amici ed i parenti.
Le visite alle dame faremo in compagnia,
Conversazion la sera terremo in casa mia.
Verrà da me lo sposo nelle mie stanze istesse;
So l’attenzion ch’esigono le giovani promesse.
All’anello, alle perle, al tocco della mano,
Io farò di una madre l’uffizio veterano,
E il dì della funzione, al solito convito
Prenderò io l’impegno di regolar l’invito.
Farò quel che conviene per voi, per la famiglia.
Con quell’amore istesso, qual se foste mia figlia.
Cammilla. (Ad un parlar sì tenero chi mai non crederebbe?
Ma so che mille volte impazzir mi farebbe). (da sè)
Al vostro cuor gentile davver sono obbligata
Ma avrei piacer quest’anno di viver ritirata.
Dorotea. Questa vostra insistenza moltissimo mi offende.
Quando una cosa io bramo, ciascun me la contende;
Tutti mi contradicono, e lo fan per dispetto.
Cammilla. Ma via, non vi adirate. Star con voi vi prometto.
Dorotea. Cara, tenete un bacio. Vuò far vedere al mondo,
Se voi mi compiaceste, che anch’io vi corrispondo.
Roberto sarà vostro. Tutto sarà finito.
Farò che la scrittura soscriva mio marito.
Tutto sperar potete dal mio sincero amore.
Chi mi vien colle buone, mi caverebbe il cuore.
Cammilla. Ma il padre di Roberto so ch’è un uom pontiglioso.
Chi sa ch’ei non si mostri sofistico e sdegnoso?

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Io so che tante volte il nuzial contratto

Per i di lui puntigli si è fatto e si è disfatto.
Ora che nel concludere da voi si è contradetto,
Ch’ei voglia vendicarsi, certissimo mi aspetto.
Dorotea. Di far ch’ei si pacifichi difficile non è.
Lasciatemi operare, fidatevi di me.
Io parlerò col padre, io parlerò col figlio:
State di buona voglia; ma udite il mio consiglio.
Se andar dovete in casa di un suocero sì strano.
Non fate sulle prime ch’ei prendavi la mano.
Nel soggettarvi a tutto non siate così buona;
Dite l’animo vostro, e fate da padrona.
L’uomo per consueto tiranneggiar procura,
E misere le donne che si fan far paura.
Quando la donna ha spirito, l’uom s’avvilisce e cangia;
Chi pecora si mostra, il lupo se la mangia.
Cammilla. (Così le donne pazze fanno per ordinario;
Ma io, per viver bene, farò tutto il contrario).
Dorotea. Voi non mi rispondete. Vi par ch’io dica male?
Cammilla. Anzi dite benissimo. Conosco quanto vale
Il provido consiglio, che vien dal vostro amore.
Cognata, vi son serva, amatemi di cuore.
(Se in casa dello sposo il ciel mi condurrà,
Userò, qual io soglio, rispetto ed umiltà). (parte)

SCENA IV.

Dorotea, poi Rinaldo.

Dorotea. Se un simile sistema non avess’io serbato,

Il suocero e il marito mi avriano calpestato.
Perchè nei primi giorni mostrato ho un po’ d’orgoglio,
Li ho posti in soggezione, e fan quello ch’io voglio.
Rinaldo. Eccomi qui da voi. Qual affar d’importanza
Fe’ sì che mi faceste partir da quella stanza?
Dorotea. Son due ore che aspetto.

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Rinaldo.   Due ore? cosa dite?

Non son dieci minuti.
Dorotea.   Sempre mi contradite.
Dopo che mi lasciaste, so io quant’è passato.
Si può sapere almeno dove che siete stato?
Rinaldo. Mi ha chiamato mio padre, e dissemi a drittura,
Che per vostra cagione stracciata è la scrittura.
Dorotea. Vostro padre al suo solito vi ha detto una pazzia.
Rinaldo. La carta è lacerata.
Dorotea.   Ma non per causa mia.
Rinaldo. Se non foste venuta ad imbrogliar la cosa,
Cammilla di Roberto fatta saria la sposa.
Dorotea. Non è vero.
Rinaldo.   Vorreste negar quel ch’è di fatto?
Non foste voi la causa, che tramontò il contratto?
Dorotea. Signor no, non è vero, vel dico un’altra volta.
Ho sempre da combattere gente ostinata e stolta.
La mia difficoltà non fu di tal natura,
Onde stracciar dovessero sì presto una scrittura.
E pur la mala cosa trattar con tai persone.
Rinaldo. Basta, è sciolto il contratto...
Dorotea.   Ma non per mia cagione. (alterata)
Rinaldo. Via, non sarà per voi, sarà perchè la sorte
Vuol privar mia sorella di un ottimo consorte.
Nozze non si potevano sperar più fortunate.
Dorotea. Io non le ho fatte sciogliere. (alterata)
Rinaldo.   Ma no, non vi adirate.
Dorotea. Anzi, perchè si facciano, adoperarmi io voglio;
E voi, se si ripigliano, sottoscrivete il foglio.
Fate che da Gaudenzio sia nuovamente esteso...
Rinaldo. Ma se il signor Fabrizio si è dichiarato offeso...
Dorotea. Da chi?
Rinaldo.   Da tutti noi.
Dorotea.   Pericolo non c’è.

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Ch’ei possa dichiararsi offeso ancor da me.

Rinaldo. Eppur... non vi sdegnate. Eppur, chi sente lui...
Dorotea. Lo so che a me si appoggiano tutti i difetti altrui.
Bastano due parole a rendermi placata,
E il titolo mi danno di femmina ostinata.
Rinaldo. Di ciò più non si parli. Da me cosa bramate?
Dorotea. Voglio che queste nozze a ripigliare andate.
Rinaldo. Come?
Dorotea.   Che uom di garbo! che uomo di partiti!
Il modo di condurvi volete ch’io v’additi?
Fate così, signore; ite alla di lui casa,
Dite al signor Fabrizio: mia moglie è persuasa.
Se ha detto quel che ha detto alla presenza vostra,
Da noi mal informata, fu sol per colpa nostra.
Professa la signora per voi tutto il rispetto.
Rinaldo. Deggio andar col pericolo?
Dorotea.   Al solito m’aspetto
Che opporvi al mio consiglio vogliate ancora in questo.
Rinaldo. Prima sentir mio padre par conveniente e onesto.
Dorotea. Sì, sentiamolo pure. Chi è di là?
Servitore.   Mia signora.
Dorotea. Cerca il signor Ferrante. Senza frappor dimora.
Digli che venga subito, perchè mi preme assai.
(il servitor parte)
Rinaldo. Non so se mia sorella...
Dorotea.   Già con essa parlai.
Di tutto quel ch’io faccio, la figlia è persuasa.
Rinaldo. Anderà nel ritiro?
Dorotea.   No, dee restare in casa.
Rinaldo. Consorte mia carissima, davver mi sorprendete.
Dorotea. No, Rinaldo, il mio cuore ancor non conoscete;
Mia cognata lo merita, e le farò da madre.
Rinaldo. Sia ringraziato il cielo. Si approssima mio padre.

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SCENA V.

Ferrante e detti.

Ferrante. Ecco, signora mia, subito son venuto

Alla padrona nostra a rendere il tributo. (con ironia)
Dorotea. Garbato il signor suocero! mi piace il stile ironico.
Queste parole vostre han pur del maccheronico.
Rinaldo. No, signor padre, alfine al ben di tutti noi
Mia moglie è inclinatissima. Brama parlar con voi.
Ferrante. Nuora mia, compatitemi, la rabbia e la passione
Fa gli uomini talvolta parlar senza ragione.
Che volete voi dirmi?
Dorotea.   Vuò dir, con sua licenza.
Che usarmi si potrebbe un po’ di convenienza;
Che non son la padrona, ma che pretendo anch’io
Essere rispettata, dove ho portato il mio.
Che non vuò che mi vengano a rendere tributi.
Ma i scherni a una mia pari, signor, non son dovuti.
Ferrante. Scusatemi, ho scherzato.
Rinaldo.   Via, non più, Dorotea.
Spiegate al signor padre qual sia la vostra idea.
Dorotea. Non voglio che in ridicolo si ponga un mio consiglio.
Se mi deride il padre, mi sfogherò col figlio. (parte)

SCENA VI.

Ferrante e Rinaldo.

Ferrante. Mi ha chiamato per questo?

Rinaldo.   Non signor, l’ho trovata
A pro di mia sorella benissimo inclinata.
Ma della donna altera vi è noto il naturale;
Venire a disprezzarla, signor, faceste male.
Ferrante. Tu, balordo, fai male a secondarla in tutto;
Mira con tuo rossore della viltade il frutto.

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Se avesse a far con me, non parleria si altera.

(con calore)
Rinaldo. Signore, usar potete l’autoritade intera.
Siete mio padre alfine; fatevi rispettare.
Ferrante. Pensaci tu; con essa non me ne vo’ impacciare.
Se il ciel vuole ch’io giunga a maritar Cammilla,
Il resto di mia vita vo’ a ritirarmi in villa.
Rinaldo. E volete lasciarmi solo con lei?
Ferrante.   Tuo danno.
Non l’hai voluta? godila. È moglie tua? buon anno.
(parte)
Rinaldo. Ah pur troppo ci sono, e starci a me conviene.
Non ho con questa donna, non ho un’ora di bene.
Se taccio, son balordo, se parlo, sono ardito;
Quando grida cogli altri, si sfoga col marito.
Pensa e parla al contrario ognor dalle persone,
Spirito maladetto di contradizione.

Fine dell’Atto Primo.


Note

  1. Anche qui l’ed. Pitteri stampa per isbaglio Rinaldo.
  2. Nell'ed. Pitteri, per isbaglio: Roberto.
  3. Ed. Zatta: pegno.