Lezioni sulla Divina Commedia/Primo Corso tenuto a Torino nel 1854/XXII. I Cavalcanti

Primo Corso tenuto a Torino nel 1854 - XXII. I Cavalcanti

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Primo Corso tenuto a Torino nel 1854 - XXI. Farinata Primo Corso tenuto a Torino nel 1854
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Lezione XXII

[I CAVALCANTI]


Se noi leggiamo le storie delle repubbliche italiane non possiamo difenderci da un senso quasi di terrore; e innanzi a tanta violenza di passioni e a tanta perseveranza di odii quegli uomini di ferro ci sembrano poco meno che belve. Ma se gittiamo lo sguardo sopra la storia letteraria di quel tempo quegli stessi uomini ci paiono gente della miglior pasta del mondo, e que’ Federichi, quegli Enzi, que’ Manfredi, que’ Guidi, que’ Latini, que’ Cavalcanti, cosí ardenti nelle pubbliche lotte, noi li vediamo disputare pacificamente di filosofia e tener corti di amore e sospirar ciascuno per una sua bella ed esalare i sospiri in sonetti e ballate certo rozze ancora, ma che rivelano un cuore schietto e gentile. E cosí è. La storia, quando ella mi rappresenta un lato solo della vita, è sempre falsa: il simile è avvenuto di Dante.

I piú lo vogliono fiero, sdegnoso, vendicativo; altri togliendo a difenderlo ci mostrano ogni suo minimo detto conforme alla storica veritá ed alla giustizia; e quando io leggo la vita di Dante scritta da Cesare Balbo, io veggo di sotto la penna di questo scrittore d’una severitá tanto amabile e di una temperanza sí dignitosa uscire a poco a poco la figura di Dante come di una colomba spirante tutto amore e gentilezza e temperanza. Dante non è stato né l’uno né l’altro; o per dir meglio è stato l’uno e l’altro. Uomo di passione e d’impeto, natura energica e primitiva che abbandona tutta la sua anima alla impressione fuggevole del momento, tanto terribile allor che si adira, quanto [p. 160 modifica]pietoso allor che s’intenerisce, e nascondendo sotto un volto severo ed un fiero carattere il piú profondo e squisito sentire; coloro i quali cercano di trovare una logica connessione nelle varie apostrofi fuggitegli dalla penna, gittano via la fatica ed il tempo; e colui mi scriverá una perfetta vita di Dante, il quale uscendo una volta dalla polemica che ci sforza a porci nell’estremo opposto al punto che sceglie il nostro avversario, ci ritrarrá Dante non obliquamente, ma di fronte, tutto intero qual è, in tutto quel suo doloroso alternare dall’odio all’amore e dalla vendetta all’obblio, portando nell’amore tutta l’energia che egli porta nell’odio, concependo insieme inferno e paradiso, oggi chiamando i suoi concittadini «bestie fiesolane», e dimani esclamando pietosamente: «Popule mi, quid feci tibi?».

Vedetelo in questo canto decimo che abbiamo alle mani, e che potrei ugualmente chiamare il canto di Farinata e di Cavalcanti, nel quale il poeta ha potuto concepire quasi nello stesso istante Farinata e Cavalcanti, cioè a dire il piú fiero carattere della Divina Commedia ed uno de’ piú teneri e commoventi, e facendo entrare l’un racconto nell’altro accogliere a un tempo nella sua fantasia gl’implacabili odii d’un partigiano e gl’ineffabili dolori d’un padre.

Guido Cavalcanti ci desta care e meste ricordanze: il suo nome è congiunto indivisibilmente con quello di Dante. Guido era poeta giá celebre, capo d’una scuola che facea professione di dispregiare i poeti e tra gli altri Virgilio, cioè a dire le nude forme poetiche, e sforzavasi d’alzare la poesia a qualche cosa di sostanziale, maritandola con la filosofia. In que’ tempi a’ convegni tumultuosi della piazza si mescevano spesso i convegni pacifici delle lettere e si tenevano gentili adunanze, dove si disputava, si poetava, si scioglievano enimmi, si proponevano quistioni. Un giorno fu mostrato un sonetto anonimo, indirizzato a’ quattro piú chiari poeti di quel tempo: Guido Guinicelli, Guido Cavalcanti, Dante da Majano e Cino da Pistoia. Il sonetto non usciva dal convenzionale, ovvero dal costume allegorico di quel tempo, e contenea un sogno enigmatico, del quale chiedea la spiegazione a coloro a’ quali l’incognito autore lo [p. 161 modifica]aveva indiritto. Piacque tanto il sonetto che nessuno disdegnò di farvi risposta, interpretando il sogno ciascuno a suo modo. Ma Guido non si stette contento a questo, e giudicando il sonetto lavoro di un giovane tirone entrato pur allora nell’arringo poetico e che per timidezza e modestia celasse il suo nome, per uno di quei movimenti spontanei del core che rivelano un nobile animo, sentí il bisogno di conoscerlo e lo conobbe: l’autore era un giovine di diciannove anni e si chiamava Dante Alighieri. Da quel punto cominciò tra Dante e Guido quella comunanza di affetti che non si ruppe se non per morte. Amendue d’alto ingegno, amendue poeti, amendue innamorati, Dante parlava a Guido della sua Beatrice, Guido favellava con Dante della sua Mandetta: e quando entrarono nella pubblica vita, amendue di una opinione e di una parte, amendue esuli, amendue sventurati. E quando Dante perdette la sua Beatrice ed oppresso dal dolore rimase lungo tempo in casa abbandonato, inerte e quasi senza mente, noi possiamo argomentare da un sonetto di Guido e la grave angoscia di Dante e le sollecite cure che gli prestava l’amico:

                                         Io vegno il giorno a te infinite volte,
E trovoti pensar troppo vilmente:
Molto mi duol della gentil tua mente
E di assai tue virtú che ti son tolte.
     

Vi sono de’ momenti supremi di malinconia ne’ quali vorremmo rubarci al fango che ci circonda e ci abbandoniamo ad un vano immaginare ed andiamo sognando nuove terre e nuovi abitatori. In uno di questi momenti esclamava Dante: — Potessi io volgere le spalle a questo mondo ed andare cercando nuove genti e nuovi mondi solo in una barchetta in compagnia di Guido Cavalcanti. —

Cosi il suo Guido s’intromettea fin ne’ suoi solitarii sogni a guisa d’una innamorata. Ebbene, o signori: quando entrarono nella pubblica vita, e Cavalcanti fu capo di parte bianca e Dante [p. 162 modifica]uno de’ priori; quando i priori per sopire le nascenti discordi» credettero bene di mandare in bando Corso Donati e Cavalcanti, giudicando cosí facile di estirpare un partito come di mandare in esilio. Dante dovè sottoscrivere la sentenza che condannava al bando il primo de’ suoi amici, com’ei lo chiama nella Vita Nuova. L’esilio fu mortale a Guido: infermato gravemente per il cattivo aere, fu richiamato in patria, ma era giá troppo tardi, non sopravvisse che soli due mesi. E quando quattordici anni di poi, poco piú, poco meno, non monta, Dante ponea mano alla Divina Commedia, qual è l’anno in cui egli suppone di aver fatto il viaggio per il regno invisibile? L’anno in cui fu sbandita Guido, l’anno in cui mori, e l’anno insieme in cui arsero i civili odii, e l’anno del suo priorato, principio di tutte le sue sciagure, il 1300, primo anno d’un secolo col quale sono collegate tante glorie italiane.

E vedete qui in questo canto decimo con le crudeli rimembranze degli odii cittadini congiunta la mesta memoria dell’amico moribondo. «Chi fûr li maggior tui?» E la risposta: — Alighieri — che tanta ira destò in Farinata, dovea produrre una diversa impressione in un altro che gli giaceva accanto: era il padre di Guido. Al nome Alighieri egli leva la testa cercando con gli occhi non Dante, ma il suo figliuolo, non supponendo che, amici indivisibili in terra, potesse Dante trovarsi vivo nell’inferno se non in compagnia del suo Guido.

                                    Mio figlio ov’è? e perché non è teco?      

Quante rimembranze dovette questo verso destare ne’ contemporanei di comuni gioie e di comuni dolori! e l’altro versa che è in bocca di Dante:

                                    Forse cui Guido vostro ebbe a disdegno,      

che ricorda tutta un’etá di gare letterarie nella quale i giovani sgombri ancor l’animo di ire di parte disputavano di Virgilio e [p. 163 modifica]d’Aristotile, di poesia e di filosofia. Può egli la storia rifare queste ricordanze? Ed i fatti che io vi ho narrati possono risuscitare in voi le impressioni di secoli andati? Ben può la storia ricordar questo o quel fatto, ma i mille particolari che gli danno lume, colore, poesia, que’ mille incidenti e aneddoti e impressioni e sentimenti, che questi versi dovettero destare in quel tempo vivi e freschi, tutto questo è morto ed è morto per sempre. Né può disseppellirlo la storia; e qual meraviglia? Potete voi, o signori, disseppellirmi il vostro jeri? Quante impressioni e sentimenti fuggevoli, e non è scorso che un giorno, sono giá fuggiti dalla vostra memoria; e non torneranno mai piú! Gran cosa è questa! Non vi è poesia che giunga a’ posteri tutta intera: una parte sen muore: e perché? Perché il poeta non cerca né cercar dee la sua ispirazione nella generalitá della idea, perché il poeta è uomo che vive nella storia in mezzo all’accidente, perché egli non può concepire l’eterno se non insieme con quello che muore; perché la poesia è anima e corpo, anima che sopravvive e corpo che muore. Quanta parte di poesia è morta nella Divina Commedia, quante parole hanno perduto la loro freschezza, e quante frasi il loro colore, e quante allusioni il loro significato! Bene la scuola storica italiana, Marchetti e Gozzi e Foscolo e Pieri e Ponta e Rossetti sonosi travagliati intorno a questo corpo morto; e che ne hanno cavato? Quello che era innanzi vivo e ammirato è rimasto ammirato e vivo, e quello che innanzi era morto è rimaso morto: i loro sforzi hanno potuto restituirci il significato di questo o quel particolare, ma non il sentimento: perché il fatto crudo voi potete renderlo immobile e registrarlo negli archi vii e consegnarlo nelle cronache e tramandarlo tal quale a’ posteri; laddove il sentimento è proprietá dello spirito, e si rimuta e si trasforma e si invecchia con quello; ed i fatti ritornano perpetuamente giovani, e solo noi invecchiamo e moriamo a poco a poco, e spesso l’anima assai prima ancora che il corpo.

Ma ritorno a Dante. — Perché, mi direte voi, tanto insistere sopra questa idea accessoria? Perché riporre la bellezza di questi due versi nelle idee che suscitavano presso i contemporanei? — [p. 164 modifica]Perché in esse è la essenza della poesia. La parola non può come lo scarpello e ’l pennello rappresentarvi tutta una figura visibile; ella non s’indirizza a’ sensi, ma alla immaginazione, e spesso con un tratto solo. Questo tratto è prosaico, quando lascia inerte ed arida la fantasia; ed è poesia, quando mille idee accessorie tumultuavano in mente dell’artista che lo ha concepito, e quando esso ha virtú di destare nella fantasia del lettore altrettali idee accessorie che fermentavano in capo all’artista. Ma, se queste idee sono personali, la comunanza di sentimenti tra il lettore e l’autore è interrotta, perché le idee personali sono intransitive, cioè a dire non passano, non si trasmettono, restano nella persona e muoiono con la persona. E cosí questi due versi, che Dante dovè scrivere piangendo, noi lasciano freddi e muti. E nondimeno questa poesia ha traversato i secoli con costante ammirazione; perché le idee personali sono solo i contorni e gli antecedenti del fatto, e la situazione è posta nella impressione profonda che riceve un padre alla notizia della morte del suo figliuolo, e le idee accessorie sono cavate dal fondo permanente della umana natura. E di que’ due versi né altri né io vi potrò fare un comento estetico; e di tutta la poesia si può ben fare, perché il critico, sentendo in virtú del gusto quello che il poeta crea in virtú del genio, può risvegliarvene le idee accessorie col solo consultare il cuore umano1

Il padre, quale si sia il suo nome, è qui rappresentato in tre momenti distinti: prima si leva in ginocchioni; poi si drizza in piè; da ultimo cade supino. Questi momenti simili sottosopra a quelli che l’attore fa in teatro, non sono mica arbitrarii: essi corrispondono a’ diversi stati dell’animo. In Cavalcante Cavalcanti dapprima è un desiderio misto d’incredulitá; poi una dolorosa ansietá; da ultimo un dolore senza nome.

Dapprima si leva in ginocchione; il padre non crede quello che la ragione gli dice strano ed incredibile, ed il padre crede quello che il suo cuore desidera: — Possibile! mio figlio qui? è vivo? è presso alla tomba di suo padre? Non par vero! E pure... [p. 165 modifica]— Esclamazioni che rendono palpabili quell’eterno credere e discredere, quando la ragione dice di no ed il cuore risponde di si: ed il primo atto del padre è un sospettare, un volgere intorno lo sguardo,

                                    .    .    .    .    .    .    .    .    come talento
Avesse di veder s’altri era meco;
     

e quando i suoi occhi lo assicurano che non è quello che giá stimava incredibile; questo padre piange, perché il suo cuore vi credeva, di dover rinunziare alla sua illusione. La situazione fin qui è tenera ma calma; una parola equivoca di Dante la innalza al suo piú alto grado di affetto. O piuttosto non è gradazione, è mutazione: Dante non conosce quello che oggi si chiama analisi di sentimento: il sentimento egli lo esprime d’un tratto, e quando passa innanzi non è lo stesso sentimento graduato e riprodotto che sgorga dalla sua fantasia, ma un nuovo fatto, un nuovo sentimento. Gli equivoci sono facili a nascere, quando chi parla e chi ode sono in diversa situazione d’animo. Quando Dante nomina Virgilio e appresso Guido, la fantasia lo conduce a’ tempi delle gare giovanili, e può egli cosí bene adoperare un verbo passato; ma quel verbo ghigne all’orecchio del padre nudo delle idee che lo spiegano, e significa: — Vostro figlio fu, il vostro Guido è morto — . Alla improvvisa notizia succede un movimento istantaneo di ansietá nel suo animo, che si rivela in uri movimento parimente istantaneo del corpo; stato fino allora in ginocchio si drizza subito in piè. E notate maestria di verso: il drizzarsi e il gridare è espresso come una sola azione avvenuta nello stesso tempo. E vienmi qui in taglio di far qui un’altra osservazione, minuta forse, ma nel minuto è la finitezza dell’arte. L’accento del verso italiano, oltre alla sesta, cade sulla quarta e l’ottava; e quando è trasposto sulla settima o nona sillaba, nasce un’armonia innaturale, e colui che recita non può andare spedito e dee far pausa piú del soverchio sopra un accento, che si trova fuori dell’ordinaria legge della misura: questi versi son detti danteschi e riescono mirabili quando son fatti a disegno. [p. 166 modifica]

                                    Di subito drizzato gridò.   .   .   .   .      

Quell’«ò» risuona alcun tempo all’orecchio, ed imita in certo modo la corda musicale, la quale, emesso il suo suono e non tocca piú dalla mano, séguita il suo tintinnio finché affievolendosi non si estingue. Cosi è il noto verso del Tasso:

                                         La vide, e la conobbe e restò senza
E vita e moto   .   .   .   .   .   .;
     

dove la voce si concentra sopra quel «restò»; e quella pausa rappresenta dinanzi all’animo l’immobilitá in cui rimane Tancredi nel riconoscere Clorinda.

I grandi piaceri e i grandi dolori non acquistano fede a prima giunta; si vorrebbe non avere udito, non aver compreso; e si ripetono le parole e si vuole replicata la notizia: si teme di frantendere, si discrede all’orecchio:

                                                                       .   .   .   .   .   .   .   .   Come
Dicesti? [Egli ebbe? Non viv’egli ancora?
Non fiere gli occhi suoi lo dolce lome?]
     

Qui, ripetendo la domanda quattro volte, il padre finisce con essere eloquente cogliendo nella ultima sua espressione tutto l’incanto e la dolcezza della vita, di quel bene che egli crede aver perduto il figliuolo. E se oggi alcuno parlando di un morto dicesse: — I suoi occhi non sono piú colpiti dalla luce del sole — ; questa frase sarebbe fredda, declamatoria, rettorica: perché qui è piena di tanta veritá? Perché Dante non perde mai di vista l’inferno, perché colui che parla è un dannato, perché il luogo nel quale giace egli lo chiama un «cieco carcere», perché per questo padre sepolto nel buio d’una tomba la bellezza della vita è la luce, il sole. Un concreto che nasce dall’intimo della situazione e del carattere e che dá qualche cosa di proprio a quello che nella sua generalitá sarebbe un luogo comune. A ciascuna domanda del padre, Dante rimane in silenzio e come distratto: diresti che un altro pensiero gli si attraversi pel [p. 167 modifica]capo. Quel silenzio significa per Cavalcante: — Mio figlio è morto! — Vi sono momenti ne’ quali una parola è un colpo di pugnale, e nessuno osa profferirla e si tace: quel silenzio è eloquente e contiene tutto un discorso. Quando Achille domandò di Patroclo e vide i messaggi silenziosi, esclamò: — Patroclo è morto! — «Mio figlio è morto!» e innanzi a quel silenzio l’uomo drizzato in piè

                                    Supin ricadde, e più non parve fuora.      

In che è posta la sublimitá del concetto, in che la sublimitá dell’espressione di questo verso? Ci è un dolore eloquente che si distingue in diversi sentimenti, in diversi pensieri, insino a che lo strazio giugne a tale che l’anima si abbandona e ’l corpo cade: questo dolore è bello. E ci ha un altro dolore, quando i diversi sentimenti si aggruppano e si affollano tutto ad un tratto ed in confuso innanzi all’anima; e la soverchiano e producono in un attimo quello che prima avviene dopo diversi istanti: questo dolore è sublime. La sua espressione è la mancanza di espressione: chi può esprimere quello che sente non è addolorato abbastanza. E nondimeno se altri dicesse che agli occhi suoi mancarono le lagrime ed alla sua bocca le parole, queste forme di dire non ci commoverebbero piú. Il tale fa una lettera di congratulazione, o di condoglianza e dice inesprimibile, ineffabile, indicibile il piacere o il dolore che ei sente. Perché tutto ciò è ridicolo? Perché ciò prova solo che egli usa questa frase comoda per non prendersi il fastidio di esprimere quello che ei dice di sentire: frasi di uso cosí insignificanti come l’inchinarsi, e il dimenarsi e lo scappellarsi e tutte le altre cerimonie sociali. L’inesprimibile, se volete renderlo sublime, datemegli una espressione. Volete rendermi sublime la grandezza? Mostratemi una piramide. Volete rendere sublime il dolore? Ricopritemi d’un velo il capo di Agamennone, o fatemi cadere un uomo come corpo morto, e soprattutto rubatemelo alla vista: meno veggo e piú immagino. Quel verso ti pone innanzi l’istantaneo della prostrazione, e dopo, silenzio e tomba. [p. 168 modifica] I panegiristi di Dante sogliono trovar tutto oro nella Divina Commedia: io che non vo’ cadere in questo ridicolo, non mancherò di notarci questo o quel fallo quando mi ci abbatto. Qui ci è una terzina2 che mi ha l’aria d’intrusa: difettosa non solo perché dal drammatico ci fa cadere nel didascalico, ma perché collocata tra la notizia e l’impressione del padre rompe l’unitá del sentimento e rallenta la rapiditá dell’impressione. Dante cade spesso in questo difetto: preoccupato come è dall’assurda teoria del verisimile nell’arte, per desiderio di spiegare questa o quella circostanza raffredda spesso l’azione. Beatrice scende dal cielo ansiosa...3

Quanto questo raffreddi, lo provate voi in teatro, quando un malcapitato attore interrompe il corso dell’azione col raccontarvi una lunga storia di spiegazioni: e voi vorreste che il fatto fosse cento volte piú inverosimile, purché non rallentasse l’azione nel piú vivo della vostra curiositá. La necessitá di queste spiegazioni è un grande impaccio per i poeti; né gli antichi se ne sanno cavare felicemente. I moderni che cedono loro per freschezza di fantasia gli avanzano nel minuto della esecuzione: non hanno quel buon colore e quel buon sangue, ma ci si porgono innanzi meglio attillati e composti nel loro portamento.

  1. Nel ms. XVI. A. 72 è segnato in parentesi: «lettura della poesia».
  2.                                          Le sue parole e il modo della pena
    m’avean di costui giá letto il nome;
    però fu la risposta cosí piena.

                                                                               (Inf., X. 64-66).
         
  3. Nel ms. XVI. A. 72 mancano i versi; si accenna alla seconda risposta di Beatrice: «Temer si dee di solo quelle cose» ecc. (Inf., II, 88-90).