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Lezione XXII

[I CAVALCANTI]


Se noi leggiamo le storie delle repubbliche italiane non possiamo difenderci da un senso quasi di terrore; e innanzi a tanta violenza di passioni e a tanta perseveranza di odii quegli uomini di ferro ci sembrano poco meno che belve. Ma se gittiamo lo sguardo sopra la storia letteraria di quel tempo quegli stessi uomini ci paiono gente della miglior pasta del mondo, e que’ Federichi, quegli Enzi, que’ Manfredi, que’ Guidi, que’ Latini, que’ Cavalcanti, cosí ardenti nelle pubbliche lotte, noi li vediamo disputare pacificamente di filosofia e tener corti di amore e sospirar ciascuno per una sua bella ed esalare i sospiri in sonetti e ballate certo rozze ancora, ma che rivelano un cuore schietto e gentile. E cosí è. La storia, quando ella mi rappresenta un lato solo della vita, è sempre falsa: il simile è avvenuto di Dante.

I piú lo vogliono fiero, sdegnoso, vendicativo; altri togliendo a difenderlo ci mostrano ogni suo minimo detto conforme alla storica veritá ed alla giustizia; e quando io leggo la vita di Dante scritta da Cesare Balbo, io veggo di sotto la penna di questo scrittore d’una severitá tanto amabile e di una temperanza sí dignitosa uscire a poco a poco la figura di Dante come di una colomba spirante tutto amore e gentilezza e temperanza. Dante non è stato né l’uno né l’altro; o per dir meglio è stato l’uno e l’altro. Uomo di passione e d’impeto, natura energica e primitiva che abbandona tutta la sua anima alla impressione fuggevole del momento, tanto terribile allor che si adira, quanto