Lezioni sulla Divina Commedia/Primo Corso tenuto a Torino nel 1854/XXI. Farinata

Primo Corso tenuto a Torino nel 1854 - XXI. Farinata

../XX. Francesca da Rimini ../XXII. I Cavalcanti IncludiIntestazione 28 agosto 2023 75% Da definire

Primo Corso tenuto a Torino nel 1854 - XX. Francesca da Rimini Primo Corso tenuto a Torino nel 1854 - XXII. I Cavalcanti
[p. 148 modifica]

Lezione XXI

[FARINATA]


Prima di gittarci nella vita reale, giovani ancora, vi ha due epoche storiche che ci appariscono cinte d’un’aureola di poesia. La prima è la storia greco-romana obbietto de’ nostri primi studii. Noi abitiamo in Grecia e in Roma prima ancora di conoscere il nostro paese; e quelle istituzioni tanto dalle nostre difformi e que’ caratteri e que’ fatti tanto piú ammiriamo quanto meno comprendiamo. La scienza è verso la poesia quello che ha toccato giá dell’occhio materiale: piú voi mostrate all’occhio e piú togliete alla fantasia, e piú si avanza la scienza e piú indietreggia la poesia. E nondimeno nella storia antica è tanto tenace poesia che ella resiste ancora a tutti gli sforzi della scienza, né la critica storica dissolvente che da Vico in qua ha tentato di spoetizzarla, ha potuto menomare la nostra fede nel vecchio Omero o nel savio Numa Pompilio. E noi ci siamo appassionati per questi fatti e nelle scuole abbiamo preso parte chi per Roma e chi per Cartagine, chi per Sparta e chi per Atene, chi per Cesare e chi per Pompeo. E i nostri primi amici sono Orazio, Ovidio e soprattutto Virgilio; e il primo sentimento che in noi si è destato di ammirazione per l’eroica virtú ce lo ha ispirato Socrate o Catone, e le prime dolci lacrime che ci hanno annunziato che tutti nasciamo buoni ce le hanno fatto versare Lucrezia e Virginia. L’impressione che gli studii classici hanno fatto sulla giovane mente di Dante è visibile; e se egli dee scegliere un compagno che lo guidi nel regno invisibile, accanto a Beatrice gli si affaccia [p. 149 modifica]Virgilio, che egli, con ammirazione ingenua, che ricorda ancora la scuola, chiama suo maestro e suo autore; e quando lo spirito sprigionatosi dalla servitú de’ sensi racquista la sua libertá in purgatorio, gli si presenta innanzi Catone, per tacere di Stazio e di Rifeo e di Traiano. In che dunque è posta la poesia del limbo dantesco, la poesia unica in quel nudo catalogo di nomi, se non nell’entusiasmo che prende il poeta in mezzo alla filosofica famiglia, o quando è sesto tra cotanto senno, o alla vista degli spiriti magni «che del vederli in me stesso mi esalto»? Talché il limbo dantesco ci par quasi una galleria, un pantheon di tutt’i grandi nomi della storia antica che ifoi siamo avvezzi ad ammirare fin da’ primi anni. Questa prima epoca potrei io chiamare la poesia delle scuole: ce n’è un’altra che potrei chiamare la poesia delle famiglie.

La generazione che passa, scendendo nel sepolcro, lascia memorie ancora fresche che sono come il patrimonio delle famiglie, e i vecchi attori superstiti d’un dramma il cui sipario è calato le vanno rimemorando a’ figliuoli ed a’ nipoti con l’eterno intercalare: «io fui», e vanno mescendo passioni spente e rimase vive solo in loro con passioni ancor verdi, esagerando, alterando, lodando, biasimando, cioè a dire poetizzando il tutto. Cosi la rivoluzione francese è giunta al nostro orecchio prima ancora che l’avessimo letta ne’ libri; e Robespierre ne’ racconti fattici da’ padri nostri ci è parso qualche cosa di simile ai demòni ed a’ mostri, di che le nutrici popolano le nostre fantasie puerili, e le avventure di Napoleone ci son parse una specie delle Mille ed una notte, ed il secreto incanto delle poesie del Béranger è posto appunto in questo, che l’illustre poeta ci rappresenta Napoleone non secondo la storica veritá, ma come si è serbato vivo nella tradizione presso i soldati ed i paesani francesi. I tempi di Dante furono preceduti da un’epoca simile, illustrata dal trionfo di parte ghibellina e da alcuni grandi uomini chiari per valore e per consiglio, Farinata, Cavalcante Cavalcanti, Iacopo Rusticucci e simili. L’impressione che questi grandi nomi, vivi ancora nella tradizione, produssero sopra di Dante si scorge fin da’ primordii del suo poema. E quando [p. 150 modifica]egli si avviene in Francesca da Rimini, il costei caso è tanto pietoso che non gli concede facoltá di pensare ad altro; ma al secondo passo che ei fa nell’inferno, non appena s’incontra in un uomo insignificante, in Ciacco, quale è la prima domanda che egli fa? Quale è il primo bisogno che egli sente? Di aver notizie di costoro, di sapere ove sono, d’imparare a conoscerli:

                                         Farinata e il Tegghiajo, [che fûr si degni,
Iacopo Rusticucci, Arrigo e ’l Mosca,
E gli altri, ch’a ben far poser gl’ingegni.

     Dimmi ove sono, e fa ch’io li conosca,
Ché gran disio mi stringe di sapere
Se ’l ciel gli addolcia, o l’inferno gli attosca.]
     

Il primo di questa lista ed il piú grande è Farinata, e Farinata è il primo nel quale noi c’incontriamo. Come giunge il poeta nel cerchio degli eretici, volge lo sguardo intorno desideroso; sapea Farinata seguace di Epicuro, spera di ritrovarlo colá, ma rimane deluso: nessun uomo, solo tombe scoperchiate.

                                         La gente, che per li sepolcri [giace,
Potrebbesi veder? giá son levati
Tutti i coperchi e nessun guardia face.]
     

Domanda in apparenza generale, la cui sostanza non è in quello che è espresso ma in quello che è sottinteso, che tace il labbro e che esprimono gli occhi; e Virgilio lo guarda e lo indovina:

                                         .    .    .    .    .    .    .    .    .    Satisfatto sarai tosto,
Ed al disio ancor che tu mi taci.
     

E mentre Dante pronunzia una risposta mezza tra la scusa e la cortesia, ecco un suono uscire improvviso da una delle arche, e Virgilio gridare: [p. 151 modifica]

                                         .    .    .    .    .    .    .    Volgiti, che fai?
[Ecco lá Farinata che s’è dritto:
Dalla cintola in su tutto il vedrai.]
     

Voi vedete con quanta arte è apparecchiata la scena, ed in quanta aspettazione il poeta ci inette di Farinata. Farinata è giá grande, o signori, e noi non lo abbiamo ancora né veduto né udito: Farinata è giá grande per l’importanza che gli ha dato il poeta e per l’alto posto che occupa nel suo pensiero. E noi non lo vediamo ancora, e giá ce lo figuriamo colossale per una parola che il poeta ha posto in bocca a Virgilio:

                                    Dalla cintola in su tutto il vedrai.      

Quale è la potenza di quel «tutto»? Il Tasso, rappresentandoci Clorinda in su una collina, contemplata dall’amante in una pianura, [dice]:

                                    Tutto quant’ella è grande era scoperta.      

Quel «tutto» qui non esprime grandezza e niente aggiugne alle proporzioni naturali di Clorinda. Il significato di quel «tutto» dovete cercarlo nella fantasia dell’amante, innanzi al quale ella si presenta in «tutta» la sua bellezza senza che alcuna delle belle forme gli rimanga celata, ed egli vi si affisa e vi si incanta ed obblia Argante che lo sfida a battaglia. Di ben altro valore è il «tutto» di Virgilio: altra è la situazione, ed il significato di questo «tutto» è nella opinione che Dante si è preconcetta di Farinata. «Tutto» significa: — Vedrai Farinata in tutta la sua maestá, in tutta la sua grandezza — , tenendo cosí l’officio di quel che nelle arti plastiche si dice rilievo, servendo cioè a trasfigurare il reale e a dargli le proporzioni che gli attribuisce la fantasia. Farinata sta con mezza la persona nascosta nell’arca; rimane solo di fuori la fronte ed il petto; e nondimeno egli ci apparisce come torreggiante al disopra degli oggetti circostanti. Onde nasce questa illusione? Da un’altra parola che il poeta ha congiunto con fronte e petto: «s’ergea». [p. 152 modifica]Quale è il significato di questo «s’ergea»? Quando io mi trovo la prima volta di rincontro ad un grande uomo, poniamo pure che io sia un gigante e quegli un pigmeo, io mi sento quasi per istinto far piccolo piccolo, e pili egli mi par grande e piú io mi rimpiccolisco. E per contrario ci ha uomini abbietti che vanno per le vie pettoruti e si drizzano tutti nella persona, e possono essi stirarsi quanto vogliono, che saranno sempre piccoli: perché la grandezza non risiede nella realtá delle proporzioni, ma nella nostra immaginazione. E quando Kléber, rapito in entusiasmo dopo una vittoria, grida a Napoleone: — Generale, voi siete grande — ; la nostra fantasia colloca Napoleone in su una statua ed il gigante Kléber a’ suoi piedi col capo inchino. Kléber che avea tanto potere sopra l’esercito s’ecclissava innanzi a Napoleone, perché Kléber imponeva colla statura. Napoleone comandava con l’occhio, e l’uno parlava a’ sensi, l’altro ammaliava l’immaginazione. Guardatevi dunque dal prendere quel «s’ergea» in un senso solo materiale; Farinata mezzo nascosto nell’arca può ergersi quanto vuole che sará sempre piccolo rispetto ad un uomo che sia tutto in piede; quell’ergersi è sublime non per il suo significato diretto, ma come segno ed espressione d’una grandezza tanto maggiore quanto meno misurabile, dell’ergersi, dell’innalzarsi dell’anima di Farinata sopra tutto l’inferno:

                                    Come avesse l’inferno in gran dispitto.      

E siccome la fantasia non sa concepire l’astratto e l’intellettuale che dandogli corpo e figura, la grandezza morale vi ingigantisce anche quel corpo, non altrimenti che fa il volgo, poeta nato, il quale, quando gli si parla di conquistatori se li rappresenta in forma di giganti. Quanto Farinata è piú grande, tanto piú Dante si sente rimpicciolire; il suo volto riman fitto nel volto del ghibellino, resta estatico, turbato e non sa quel che si faccia, ed è bisogno che Virgilio lo scuota e lo spinga con le mani verso di lui: — Desideravi tanto di veder Farinata e di parlargli; accostati, ch’egli ti possa udire: «Le parole sien conte». [p. 153 modifica]

Dante fin qui ha scolpito: la parola emula dello scarpello [ingrandisce] oltre al naturale le proporzioni. All’evidenza dello scarpello succede ora l’evidenza della parola: la statua parla.

£ egli bisogno che per intendere le sue parole io vi parli di guelfi e ghibellini? che io vi descriva la battaglia di Monte aperto? che io vi dica i particolari del consiglio, nel quale i suoi partigiani resi ebbri dalla vittoria Farinata dissuase dal distrugger Firenze? Voi potete ignorare che sia guelfo e ghibellino e comprender Farinata; voi potete ignorare ancor, se vi piace, quale sia stata la patria di Farinata, e voi potete comprenderlo, perché l’ideale qui rappresentato in Farinata ncm è il fiorentino piuttosto che il mantovano ma il cittadino, e non è il ghibellino piuttosto che il guelfo ma il partigiano; perché la sua grandezza non risulta qui dalla natura delle sue opinioni alle quali non è minima allusione, ma dalla calda passione con la quale egli ama il suo partito quale esso si sia1.

Farinata è coricato in sul letto rovente, com’egli lo chiama, ed ecco giungere a lui una voce, la voce viva d’un uomo, e d’un uomo toscano; ed eccolo ritto in piè:

                                         O Tosco che per la cittá del foco
[Vivo ten vai, cosí parlando onesto,
Piacciati di ristare in questo loco.

     La tua loquela ti fa manifesto
Di quella nobil patria natio,
Alla qual forse fui troppo molesto.]
     

Farinata comincia dal comparirci bello, non possiamo dire ancora: — Egli è una grande anima — , ma possiamo giá dire: — Egli è una bell’anima. — Un uomo toscano, la favella del suo paese, la sua Firenze, queste care ricordanze rammorbidiscono quella fiera natura, e le sue parole sono mansuete e gentili ed egli si sente migliore e come purificato delle sue passioni e sente [p. 154 modifica]rimorso di aver potuto come capoparte esser molesto alla sua patria, alla sua «nobil patria». Breve momento. E quando si vede dappresso quell’uomo e lo ha squadrato e non lo ha conosciuto, lo guarda quasi sdegnoso, sospettando non forse appartenesse al partito contrario al suo. Sublime inconseguenza che contraddice alla logica, ma ritrae dal vero il cuore umano che è il centro di tutte le contraddizioni. Quell’uomo che poco innanzi sentia rimorso di avere con le sue passioni turbato Firenze, quest’uomo un momento appresso si sente invadere dalle stesse passioni: non basta piú a Dante d’esser toscano; per trovar grazia appresso a Farinata bisogna ch’egli sia ghibellino: «Chi fûr li maggior tui?». In que’ tempi di tanta energia il partito non era solo legame d’opinione, ma ereditá di famiglia: tale il padre, tale il figliuolo:

                                         .    .    .    .    .    .    Chi fûr li maggior tui?

     Io ch’era d’ubbidir desideroso,
[Non gliel celai, ma tutto gliel’apersi;
Ed ei levò le ciglia un poco in soso,

     Poi disse: Fieramente furo avversi
A me, ed a’ miei primi, ed a mia parte;
Ond’io per duo fiate gli dispersi.]
     

In che è posta qui la bellezza della poesia? Forse in quel brusco; «Chi fûr li maggior tui?» o in quell’atto cosí significativo di altero corruccio: levar le ciglia in su? o forse in quell’unificare ch’ei fa sé e i suoi primi e sua parte? o in quel verbo solitario e staccato, che nella sua sprezzante rapiditá ci ricorda il veni, vidi, vici di Cesare? In tutto questo o, per dir meglio, nel fondo stesso della concezione saputa afferrare di un getto, dalla quale scaturiscono tutte queste peculiari bellezze, in quel misto di passione e di forza in che è posto il carattere di Farinata. Onde la maravigliosa concordanza de’ gesti e delle parole, che si comentano a vicenda: i gesti brevi e risoluti; il dire rotto, brusco, imperativo di un uomo d’opera e di comando; è la forza [p. 155 modifica]che si manifesta francamente, ma senza moti incomposti e senza jattanza di parole, con quella sicurezza che ha ogni uomo serio quando parla di sé.

Si è disputato se Dante è guelfo o ghibellino, e come egli può qui farsi difensore della causa guelfa. Dante non è qui né guelfo né ghibellino; Dante è figlio, né ci è cosa tanto commovente quanto questo Dante che qui obblia il suo partito e la sua personalitá, e diviene il padre suo, quando ha innanzi il nemico della sua famiglia. Vedetelo dall’amarezza della sua risposta:

                                         S’ei fûr cacciati, ei tornar d’ogni parte,
Risposi lui, l’una e l’altra fiata;
Ma i vostri non appreser ben quell’arte.
     

Qui subito si comprende che il foco dell’ira è montato sul viso di Dante. Farinata gli aveva detto:

                                    .    .    .    .    .    .    per due fiate gli dispersi,      

appoggiandovi sopra la voce; e Dante gli ritorna quel plurale distinto in due singolari: due colpi, l’uno appresso all’altro; e niente pareggia il sarcasmo dell’ultimo verso, nel quale in quell’«arte male appresa» di ritornare in patria si sente qualche cosa di comico serio, che presuppone in chi parla un riso, un riso amaramente ironico. E Farinata ha sentito tutto il valore della risposta non solo dall’impressione della notizia ricevuta, ma anche dall’amarezza del modo col quale gli è stata data. Quel motto: «arte male appresa», ripetuto due volte, gitta Dante in una lunga inquietudine.

Quando Dante si fa dire da Farinata che imparerebbe a sue spese quanto difficile arte sia quella di ritornare in patria, non immagina con quale rigorosa esattezza si sarebbe avverata la predizione, ch’egli mette nella bocca di lui. Molti anni passarono, nei quali sperò tante volte di rivedere la patria, ma invano.

Ed ora noi c’incontriamo in un colpo di scena, come direbbero i moderni. Nel meglio dell’interesse, nel piú vivo della [p. 156 modifica]curiositá s’interrompe il racconto ed esce in mezzo un terzo non invitato, e parla a Dante di tutt’altro, e gli chiede notizia del figlio, e, presupponendo dalla sua risposta la morte di lui, ricade nella tomba e sparisce. Onde questa interruzione? Il Foscolo sarebbe stato degno di dircelo, egli che, quando si abbandona alla prima e schietta impressione, fa osservazioni che rivelano in lui l’uomo di gusto ed il poeta che sa intendere un altro poeta. Ma il Foscolo è andato qui rifrugando le antiche cronache ed ha scoperto che il figlio di Cavalcante era genero di Farinata; e, posto in questo stato artificiale di animo, che cosa egli ne cava? Dante, secondo lui, facendo rimaner Farinata impassibile alla notizia della morte del genero, ha voluto mostrarci che l’uomo pubblico non dee sentire gli affetti privati. E da quando in qua è egli disdetto all’uomo pubblico che ami la patria di versare una lacrima sulle sue domestiche calamitá? Non è viltá il sentire, ma cedere al sentimento, quando il dovere richiede un sacrificio, il quale è tanto piú nobile, quanto ci costa piú lacrime; e se volete rappresentarmi Bruto che danna a morte i figliuoli, sta bene; ma se volete ch’io m’interessi per lui, fatemelo veder piangere. Farinata innanzi ad uno spettacolo di tanta pietá non muta aspetto, non move il collo, non piega sua costa. Perché? Vedete lá nel tempio la Giulia di Berchet, in mezzo ad un popolo diversamente atteggiato, ella sola immobile non ode, non vede, «non guarda che in cielo». Perché ella sola non avverte quello che richiama la universale curiositá? Perché Giulia è una madre; perché il suo pensiero è tutto raccolto nel figlio ch’ella teme di veder sortire dall’urna soldato con l’aquila in fronte; perché in quel punto il figlio è tutto l’universo per lei. E perché Farinata rimane immobile come una statua? Perché egli non vede e non ode, perché le parole di Cavalcante giungono al suo orecchio senza passare nella sua intelligenza, perché la sua mente rimane fisa in un pensiero unico, la caduta del suo partito; e tutto quello che avviene fuori di sé è come non avvenuto per lui. E cosí, quando Cavalcante sparisce, quali sono le prime parole di Farinata? [p. 157 modifica]

                                         E se, continuando al primo detto,
Egli han, disse, quell’arte male appresa,
Ciò mi tormenta piú che questo letto.
     

Quest’uomo in tutto questo spazio non pensava che a quel detto di Dante: dalle parole di Dante fino alla sua risposta corre un lungo intervallo riempito da Cavalcante, che è interruzione per il lettore, ma per Farinata continuazione dello stesso pensiero, prolungamento dello stesso dolore: un dolore che dee dominar solo, che non patisce compagnia, che lo rende estraneo alla morte del genero, che dico io? che lo rende estraneo al foco dell’inferno. Il dolore morale gli fa obbliare la pena materiale: il finito soprastá all’infinito ed all’eterno.

Il carattere di Farinata è il tipo d’una gran parte delle tragedie. Due sono le basi d’ogni tragedia: nell’onda degli avvenimenti che vi si spiegano noi c’incontriamo in esseri fragili che non li intendono, che vi si avvolgono e vi fluttuano in mezzo, che hanno l’eloquenza del dolore senza l’energia dell’azione, ed a questa specie di nature delicate appartengono Francesca da Rimini, Pier delle Vigne e Cavalcante Cavalcanti; o c’incontriamo in animi forti destinati ad intendere, a regolare, a signoreggiare gli avvenimenti, maggiori della fortuna, non potendo mai questa toglier loro la tranquillitá dell’animo e la serenitá del volto: catena di giganti, che comincia dal Prometeo di Eschilo ed a cui appartiene il Farinata. Nondimeno guardatevi da queste distinzioni troppo assolute di Schlegel: nella vera poesia tutto è contemperato; né quella delicatezza dev’essere senza dignitá, né questa forza senza delicatezza: quella non dev’essere fiacchezza, questa non dev’essere durezza, freddo stoicismo, che, esagerando la forza, snaturano il concetto dell’umana grandezza. Vedete qui Farinata. Questa fiera natura s’intenerisce al solo sentire la favella del suo paese, e si fa bella. Ed ora ritorna bella, perché il poeta sa trovare la via di rammorbidirla anche una volta. Guardate nell’insieme una battaglia, e vi rapirá in ammirazione; guardate questo o quel morente, e voi piangete. Quando Farinata ha detto: — Io «per [p. 158 modifica]due fiate gli dispersi» — , quel motto ci par sublime, perché ci mostra un grand’uomo, che quasi con un solo sguardo mette in fuga i suoi avversari. Ma quando Dante gli gitta sul viso il sangue cittadino e gli mostra l’Arbia «colorata in rosso», con una inconseguenza sublime quanto la prima, questo fiero uomo, crollando il capo e sospirando, egli che avea detto testé «io», non soffre ora di reggere sulle sue spalle egli solo il peso di quel rimprovero e va cercando compagni; ma rileva tosto il capo, cercando nella sua vita la piú bella delle sue azioni, della quale attribuisce la gloria a sé solo. La scena si rischiara e si abbella: ai cruento vincitore di Monte aperto succede il salvatore di Firenze.

  1. [Nel ms. è segnato a questo punto in parentesi: «Parte generale - Carattere di Farinata».]