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i66 primo corso tenuto a torino: lez xxii


                                    Di subito drizzato gridò.   .   .   .   .      

Quell’«ò» risuona alcun tempo all’orecchio, ed imita in certo modo la corda musicale, la quale, emesso il suo suono e non tocca piú dalla mano, séguita il suo tintinnio finché affievolendosi non si estingue. Cosi è il noto verso del Tasso:

                                         La vide, e la conobbe e restò senza
E vita e moto   .   .   .   .   .   .;
     

dove la voce si concentra sopra quel «restò»; e quella pausa rappresenta dinanzi all’animo l’immobilitá in cui rimane Tancredi nel riconoscere Clorinda.

I grandi piaceri e i grandi dolori non acquistano fede a prima giunta; si vorrebbe non avere udito, non aver compreso; e si ripetono le parole e si vuole replicata la notizia: si teme di frantendere, si discrede all’orecchio:

                                                                       .   .   .   .   .   .   .   .   Come
Dicesti? [Egli ebbe? Non viv’egli ancora?
Non fiere gli occhi suoi lo dolce lome?]
     

Qui, ripetendo la domanda quattro volte, il padre finisce con essere eloquente cogliendo nella ultima sua espressione tutto l’incanto e la dolcezza della vita, di quel bene che egli crede aver perduto il figliuolo. E se oggi alcuno parlando di un morto dicesse: — I suoi occhi non sono piú colpiti dalla luce del sole — ; questa frase sarebbe fredda, declamatoria, rettorica: perché qui è piena di tanta veritá? Perché Dante non perde mai di vista l’inferno, perché colui che parla è un dannato, perché il luogo nel quale giace egli lo chiama un «cieco carcere», perché per questo padre sepolto nel buio d’una tomba la bellezza della vita è la luce, il sole. Un concreto che nasce dall’intimo della situazione e del carattere e che dá qualche cosa di proprio a quello che nella sua generalitá sarebbe un luogo comune. A ciascuna domanda del padre, Dante rimane in silenzio e come distratto: diresti che un altro pensiero gli si attraversi pel