Lettere sulla Alceste seconda/Lettera terza
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LETTERA TERZA
Signor giudice gentilissimo, rimettetevi la vostra toga, il vostro berretto, sedete, ed ascoltatemi. Non più qual accusato, ma qual difensore a voi mi presento questa sera.
Il signor Guill. . . . non volge più neppure uno sguardo di compassione sopra di me: egli mi crede già forse tra la perduta gente. Parla ora d'Alfieri, conviene far silenzio: zitto, zitto, ascoltiamo.
Verosimile sembrerà a chiunque conosca i movimenti e gli artificj del cuore umano, che Alfieri dopo d’aver letto l'Alcesti d'Euripide si credè capace di pareggiare, e forse di superare il poeta greco, trattando il medesimo soggetto alla maniera greca. Egli pensò che se fosse vissuto al tempo de' Greci, avrebbe potuto eccitare la meraviglia degli Ateniesi, come l'aveva fatto Euripide; e mise l'Alceste ch'egli compose con questa persuasione, sulla stessa linea dell'Alceste di quel poeta giudicato da Aristotile per il più grande de' Tragici. Ma se ad Alfieri parve il suo saggio corrispondere alla celebrità di Euripide, lo credette però inferiore alla riputazione ch'erasi acquistata egli stesso. In conseguenza lo lasciò sotto il nome del poeta greco, astenendosi fino dal pubblicarlo, anco pel timore che gli si chiedesse ragione del preteso testo smarrito.
Dite il vero, signor Guill. . . ., vi sarebbe mai per avventura comparsa una qualche notte l'ombra d’Alfieri, e vi avrebbe ella confidati i più reconditi segreti del suo cuore? Se la cosa è così, non fatene un mistero; noi resteremo muti, muti come pesci. . . . . . . . . . Ma voi niente rispondete. Convien dunque credere, che abbiate voluto far prova se avete alcun talento nell'arte, un po' fuor di moda veramente, d'indovino. Devo però dirvi, che l'esperimento riesce male, e che non avete afferrato il filo magico. A che proposito mai citate i movimenti del cuore, e ne fate la base del vostro ragionamento per imputare ad Alfieri una vanità, un orgoglio, ed un amor proprio illimitato? La radice dell'amor proprio e dell'orgoglio non fu mai riposta nel cuore. Quest’organo; causa di tanti piaceri e di tante pene, si fa appena sentire, e quasi più non esiste pegli orgogliosi e pegli egoisti. E pertanto superfluo ch'io vi segua nelle conseguenze di un falso principio, per cui ci presentate Alfieri in questo caso piuttosto come un orgoglioso imbecille, che qual grande, il di cui genio ha brillato in faccia all'Europa, ed ha sparsi raggi di non mai estinguibile luce. Signor Guill. . . ., il nome d’Alfieri è un gran nome, un nome rispettato, e l'attaccarlo con delle supposizioni non è un'ingiuria, ma una cosa altamente ridicola. Che si direbbe di voi, se osaste pingere quasi fosse un imbecille il gran Cornelio?
E non sarebbe forse un tratto di vera imbecillità il timore, per cui supponete che Alfieri si astenesse dal pubblicar la sua Alceste? È egli possibile che lo schiarimento citato potesse indurre in errore il pubblico sul vero autore di quella tragedia? Alfieri dir non voleva che fosse sua, ma era ben certo che tutti l'avrebber creduta sua figlia. Rileggetelo, vi prego, quello schiarimento, e poi ridite, se è possibile, che Alfieri temesse che gli si dimandasse conto del testo greco. In verità che allorquando scriveste quelle righe, il sonno stava per impadronirsi de'vostri sensi. Me ne rincresce; ma se un’altra volta sentite un po' il sonno, gettate via presto la penna, e dormite subito. Noi vi promettiamo e vi giuriamo per tutti i dei marini, che vi lascieremo dormire quanto vi parerà e piacerà.
Continuate ora le vostre critiche osservazioni, e soltanto permettetemi che di tratto in tratto far vi possa qualche osservazione. Per tal modo mi risparmierete l'incomodo di riassumere le vostre proposizioni.
L'arte drammatica era vicina alla sua infanzia quando Euripide compose le sue tragedie. La semplicità nel disegno, le cose ingenue e familiari, che in quelle tragedie si ravvisano, evidentemente procedono dai costumi, la di cui ingenuità dimostra che l'umana società era in allora al principio della sua adolescenza.
Un momento, signor Guill. . . . . . . . . Oh è sonno sicuramente, sonno. Non vi ricordate voi di ciò che avete detto un momento fa? Aristotele ha giudicato ch'Euripide è il più grande de' tragici. Questa frase è pur segnata da voi. Come trovavasi dunque nell'infanzia l'arte drammatica, se fioriva in allora Euripide il più grande fra i tragici? Voi accordate almeno, che a quell'epoca l'umana società fosse al principio dell'adolescenza. Non so per altro se vi sarà fatta buona da tutti questa vostra decisione ex cathedra.... Ma continuate pure la vostra lezione storico-metafisica.
Euripide trasportato in questo secolo, avrebbe probabilmente superati i primi tragici dell'età nostra; e questi trasportati ai suoi tempi sarebbero forse stati inferiori a lui. Ma le tragedie di questi, benché abbiano molto preso ad imprestito dalle tragedie greche, sono però superiori tanto rapporto all'arte quanto a quello dei costumi. Avendo fatto de'progressi la società, maggior coltura hanno pure acquistato gli spiriti, ed i costumi sociali maggiore delicatezza; la tragedia è divenuta più difficile a farsi, e perciò si esige più perfetta.
Quest'antitesi di supposizioni convien pur confessare ch'è un capo d’opera di finezza. Ci vuole un ingegno straordinario e trascendente per aver misurati e paragonati i talenti e la forza del genio d’Euripide con quelli de’ tragici moderni. Io non oserò contraddirvi, ma vi osserverò soltanto che questa vostra proposizione estende fino a' nostri tempi la sentenza di Aristotele a favor d’Euripide, e per tal modo vi fate maggiore del maestro d’Alessandro. Con una sola frase voi giudicate inappellabilmente i molti grandi ingegni che fiorirono da Aristotele fino ai nostri giorni. Effetto prodigioso di una buona penna!!
Quindi è che dopo i capi d'opera prodotti in questo genere nel nostro secolo, accingersi a fare una tragedia simile a quelle di Sofocle e di Euripide, è lo stesso che voler far retrocedere l'arte drammatica, ed intraprendere un lavoro più facile che di comporne una eguale a quelle dei nostri tempi che sono le più stimate. La rappresentazione delle tragedie greche, o fatte alla maniera de'poeti greci, oggi non sarebbe tollerata dagli spettatori che sanno apprezzare la bellezza delle nostre. Il gusto divenuto più severo, e di maggiori pretese, non può contentarsi d’una moderna fatta all'antica; e senza volerlo, noi siamo mossi a giudicarla secondo le idee di perfezione in noi identificate e rese quasi naturali dai progressi dello spirito umano e de' costumi sociali.
Chi ha detto a voi, che sarebbe un far retrocedere l'arte drammatica componendo una tragedia simile a quelle di Sofocle e di Euripide? Ben intesi che simile non vuol dir eguale, son d'avviso che possa ciò farsi, anzi credo che ciò siasi fatto dai più grandi tragici dopo i greci. Edipo, Oreste, Merope, ed altri soggetti furono trattati dai moderni tragici, i quali conservarono una gran parte del disegno de’ greci modelli. Allorché si tratta un argomento greco, conviene che lo spettatore abbia la bontà di supporsi per qualche ora in Grecia: le decorazioni, il vestiario, l'allusione ai costumi, i caratteri, tutto dev'esser greco. Guai se l’autore si scorda questo principio! La di lui causa è perduta. Egli può soltanto, e deve ommettere ciò che potrebbe offender troppo i nostri costumi, ma usar vuolsi molto artifizio per non far perdere l'illusione allo spettatore. Farei torto alla vostra penetrazione, signor Guill. . . . . se volessi sviluppare di più le conseguenze che derivano da questi principj, e per cui la vostra teoria o cade senza misericordia, oppur conviene che ad essi si uniformi. Leggete di nuovo l’Alceste d’Alfieri, e troverete che questo gran tragico assoggettava i suoi disegni ai gran principj dell'arte.
L'azione drammatica dell'Alceste d'Alfieri non è così conforme come quella di Euripide a ciò che le tradizioni mitologiche de'Greci avevano detto loro di questa Regina di Tessaglia.
Nessun autor tragico, stimatissimo signor Guill. . . ., si è fatto mai uno scrupolo nel tessere il suo dramma di uniformarsi con esalto rigore alle tradizioni mitologiche. M’impegnerei di citarvi cento cinquanta tragedie almeno, in cui simili tradizioni furono cangiate o modificate. Vorreste voi farne un delitto al solo Alfieri? Povero Alfieri! cosa v’ha egli fatto? Ma se anche aveste qualche mal umore con lui, possibile che non vogliate perdonare neppure ai morti?
Primieramente vi si vede Feréo, padre d'Adméto, che si affligge perchè suo figlio gravemente ammalato sta per morire. La sposa d'Adméto, Alceste, viene ad avvertirlo, che l'oracolo da essa consultato ha risposto che non perirebbe qualora una persona del suo sangue, o a lui di stretta aderenza congiunta, volesse morire in sua vece. Essa annunzia che si è rinvenuta questa persona. Chi altri può essere se non ella stessa? Sa bene il padre, che non è egli medesimo, nè alcuno dei figli di Adméto: altri non v'è su cui possa cadere questo sospetto. Ma frattanto egli non vuole indovinare questo enimma così facile: e ciò per lasciare ad Alceste il tempo di prolungare la scena. Invano ella gli addita la vittima:
Non dovrai tu il figlio
Piangere, io pianger non dovrò il marito.
Rileggete, ma subito, subito, sig. Guill. . . la scena seconda dell’Alceste, e poi fate stampare una solenne ritrattazione di quest'accusa, ed inviatela gratis a tutti quelli che avran letto il N. 123 del Giornal italiano. È questa, una spesa, lo confesso, ma conviene sacrificar tutto per non aver rimorsi. Il vecchio Feréo sta ascoltando Alceste, ed i cenni che fa questa della vittima sostituita ad Adméto, non precedono il son io che di dieci versi, che si pronunziano in pochi minuti secondi. Feréo è vecchio, e quasi fuori di sè per l'inaspettata nuova della ricuperata salute del figlio. Non merita egli scusa se non penetra subito che la vittima sostituita è Alceste? Perchè tanta impazienza, signor Guill. . .? Il tener sospesa l'attenzione è non solo un artifizio tragico, ma è una bella copia della natura. Le nuove spiacevoli particolarmente si dicono più tardi che si può.
Questa dichiarazione sorprende Feréo come se non avesse dovuto prevederla. A questa viene appresso un bel contrasto tra l'amor del padre per Alceste ed Admeto, e l'amor magnanimo d'Alceste per il suo sposo e per lo stesso Feréo. Questi dice di volersi sacrificare onde Alceste non cessi di vivere con Adméto; ma non insiste punto su ciò; ed Alceste è quella che va per votarsi a Proserpina.
Perchè mai Feréo doveva prevedere la dichiarazione d’Alceste? Egli ignorava fino a quel momento che giunta fosse la risposta dell'Oracolo.
Ma voi leggete troppo in fretta, signor Guill. . ., sì, troppo in fretta. Feréo non insiste nell'offrirsi vittima, perchè Alceste si è già votata a Proserpina, ed il voto stava già compiendosi. O non avete letti o vi siete scordati i seguenti versi di Alceste.
Ai numi inferni
La omai giurata irremissibil preda
Spontanea, son io.
Era pertanto affatto superflua l’insistenza di Feréo, che sarebbe stata una vittima inutile.
Nell’atto II. si vede Adméto che appena guarito racconta a suo padre meravigliato di vederlo in ottima salute, ch’egli ebbe a medico Apollo. Questo Dio m’apparve, dice, ed accostandomisi
Un’Alma panacea
Mirabile odorifera vitale
Alle mie nari ei sottopone appena,
E la benigna sua destra ad un tempo
Mi stende . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . .
E il mio guarir e il suo sparir son uno.
Non si direbbe che Apollo ebbe d’uopo di questo misero mezzo per rendere la vita ad Adméto, e che alla foggia de’ nostri zerbini e delle signorine soggette ai vapori, aveva seco una anguistara d’etere per risvegliare i sensi sopiti? Continuando Adméto la sua narrazione aggiugne che dopo la scomparsa del benefico Apollo, vide la spaventosa morte, che in atto di furore senza spiegarsi minacciò di renderlo infelice a segno da fargli abborrire l’esistenza. Sopraggiunge Alceste; essa è pallida e languente, poichè sen va a morire per il di lei sposo. La scena 5. che comprende questo consesso, offre bellezze singolari nel conflitto de' sentimenti d'ambedue, e vi si ravvisano le vestigia dell'ingegno del nostro primo Tragico.
Il vostro scherzo sulla guarigione di Adméto mi sembra così miserabile (scusate, ma non posso contenermi) che non so determinarmi a rispondervi. Vi ringrazio che almeno nella scena quinta ravvisate le vestigia del nostro primo tragico.
All'atto III., abbiamo tutto il piacere di contemplare il quadro commovente col quale comincia. Alceste quasi svenuta giace sotto la statua di Proserpina; le stanno intorno nella più profonda desolazione i suoi figli, il suo sposo, Feréo, ed i cori. Ma io sono poco contento d’Adméto, che passando bruscamente dal dolore alla rabbia, inveisce contro suo padre, e lo tratta anche con un po' di modi brutali, poiché egli non si è per lui sagrificato in vece di Alceste. Ella più tenera nel suo dolore calma questa procella dicendo:
. . . . . . . . . . Ogni amor cede
A quel di sposa; . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . Altrui non chiesi
Ciò che potea, voleva e doveva io.
È vero che in Euripide non è meno brutale Adméto verso suo padre, ma ne viene in qualche modo autorizzato dal vile rifiuto di Feréo di non aver voluto sagrificare per lui que’ pochi giorni che gli rimanevano di vita. L’Adméto d’Alfieri non ha questa scusa in suo favore.
Possibile, signor Guill. . ., che il vostro criterio finissimo non vi faccia trovare alcuna differenza fra le invettive dell’Adméto di Alfieri, e quelle dell’Admeto di Euripide? Mi trovo nella necessità di rileggervi le due scene dell’uno e dell’altro 1. Ben vi confesso che duro fatica a persuadermi che i costumi greci tollerar potessero quella irriverenza portata all’estremo verso un padre, come trovasi in Euripide, e mi sembra d’altra parte, che mentre il nostro tragico italiano non ha creduto di abbandonar affatto quella situazione del tragico greco, sotto il cui nome comparir doveva la seconda Alceste, egli l’abbia però maneggiala in modo, e con tali colori da eccitare la più giusta ammirazione. Admeto è il più infelice degli uomini; è sposo ed amante, due titoli d'immenso valore, ed ha quasi perduto il senno per l’affanno. Non è il suo cuore che parla, ma la più violenta passione, ed un dolore, che non ha misura. I più valenti tragici non hanno spesse volte permesso ai loro eroi d’insultare perfino la divinità?
Confessate, signor Guill. . ., che questa volta vi siete abbandonato ad un momento di mal umore, e lo avete sfogato senza pietà. Dio vi difenda da simili momenti, che esser possono fatali anche alla salute.
Per non istancare l'attenzione de'lettori, sospenderemo qui l'analisi e l'esame di questa tragedia; e per corrispondere al desiderio di chi amasse conoscere le successive nostre osservazioni, le continueremo quanto prima.
Guill....
Convien dire che questo vostro saggio critico, signor Guill. . ., non abbia fatto nascere alcun desiderio di conoscere le successive vostre osservazioni, giacché siete restato là, ed il quarto e quinto atto della Alceste, fortunatissimi oltre ogni credere, furono esenti dalle vostre censure. Ricevetene i loro ringraziamenti col mio mezzo. . . . . . Eccomi al solito, stordito che sono! sempre rivolto a parlare col signor Guill. . ., e voi, mia amica, avrete avuta la pazienza di ascoltarmi tacitamente, ma forse da ciò n’è derivata maggior brevità nel dirvi ciò che voi volevate pur sentire. Ecco che noi non abbiamo più a che fare col signor Guill. . Egli ha preso congedo: io pur debbo prenderlo da voi. Andate a spogliarvi della vostra toga, ma date prima a me la buona
notte. A rivederci dimani. Il Giornale di Padova ci attende. Addio.
30 Gennajo 1808.