Leonardo o dell'arte/Del bello di natura
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SECONDA PARTE
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DEL BELLO DI NATURA
Una nuova definizione dell’opera d’arte, come ce l’ha data Leonardo, non può servire che da trampolino. Sapendo che un’opera d’arte è un tutto ottenuto con una parte, siamo appena al principio. Nel pensiero di Leonardo, come nel pensiero di Kant, il problema dell’arte, o più precisamenté quello dell’opera d’arte (l’opera d’arte è un oggetto, l’arte una attività; si capisce quindi come Leonardo, che amava le cose concrete, trattasse più volentieri dell’oggetto, che dell’attività), è distinto dal problema del bello. Un quadro, in cui si ritrovi tutto quello che Leonardo ha scritto dell’opera d’arte, può essere brutto. Come risolve dunque, Leonardo, il problema del bello?
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La sua soluzione — in questo senso — non ci serve: è parziale e imprecisa. «Bellezza, scrive Leonardo, la quale solo consiste nella divina proporzionalità delle predette membra insieme composte, le quali solo in un tempo compongono essa divina armonia di esso congiunto di membra» 1.
Il bello, per Leonardo, è la proporzionalità armonica. In un altro passo, Leonardo ci dice più chiaramente che cos’è la proporzionalità armonica.
«La pittura è una poesia muta, e la poesia è una pittura cieca, e l’una e l’altra vanno imitando la natura quanto è possibile alle loro potenze, e per l’una e per l’altra si può dimostrare molti morali costumi, come fece Apelle con la sua Calunnia. Ma della pittura, perchè serve all’occhio, senso più nobile che l’orecchio, obietto della poesia, ne risulta una proporzione armonica; cioè, che siccome di molte e varie voci insieme aggiunte ad un medesimo tempo, ne risulta una proporzione armonica, la quale contenta tanto il senso dell’udito, che gli uditori restano con stupente ammirazione quasi semivivi. Ma molto più faranno le proporzionali bellezze di un angelico viso posto in pittura, dalla quale proporzionalità ne risulta un armonico concento, il quale serve all’occhio nel medesimo tempo che si faccia dalla musica all’orecchio. E se tale armonia delle bellezze sarà mostrata all’amante di quella di che tali bellezze sono imitate, senza dubbio esso resterà con istupenda ammirazione e gaudio incomparabile e superiore a tutti gli altri sensi. Ma dalla poesia, la quale si abbia a stendere alla figurazione d’una perfetta bellezza, con la figurazione particolare di ciascuna parte della quale si compone in pittura la predetta armonia, non ne risulta altra grazia che si facesse a far sentire nella musica ciascuna voce per sè sola in varii tempi, delle quali non si comporrebbe alcun concento, come se volessimo mostrare un volto a parte a parte, sempre ricoprendo quello che prima mostrarono, delle quali dimostrazioni l’oblivione non lascia comporre alcuna proporzionalità di armonia, perchè l’occhio non le abbraccia con la sua virtù visiva ad un medesimo tempo. Il simile accade nelle bellezze di qualunque cosa finta dal poeta, delle quali, per esser le sue parti dette separatamente in separati tempi, la memoria non riceve alcuna armonia» 2.
Ma non è chi non veda come risolvere il problema del bello a questo modo, sia, presso a poco, non risolverlo affatto. Partendo dal concetto di opera d’arte, come di un tutto ottenuto con una parte, continueremo dunque noi a ragionare della bellezza, sulla base die ci siamo fatta negli altri capitoli.
Notiamo subito che il bello è unito al piacere. Delle molte definizioni, in cui Kant ha cercato di catturare l’essenza della bellezza, citerò una sola, che riassume molte delle sue idee estetiche, e che ci offre un buon fondamento: «Il bello è ciò che, senza concetto, è riconosciuto come oggetto di un piacere necessario» 3 e «universale» 4.
Il fatto che si riconosca il bello come oggetto di un piacere necessario, senza concetto, distingue il bello dal buono.
«Per trovare buono un oggetto, scrive Kant, io debbo sempre sapere che cosa deve essere, cioè averne un concetto. Per trovare in esso la bellezza io non ho bisogno di ciò.
I fiori, i disegni liberi, quelle linee intrecciate senza scopo che vanno sotto il nome di fogliami, non significano niente, non dipendono da alcun concetto, e tuttavia piacciono» 5.
Questa idea è assai discutibile. Come si può apprezzare un dramma, un romanzo «senza concetto»?
Il fatto che si riconosca il bello come oggetto di un piacere universale distingue il bello dal piacevole.
«Per ciò che riguarda il piacevole, scrive Kant, ognuno riconosce che il giudizio che egli fonda su di un sentimento particolare, e col quale dichiara che un oggetto gli piace, non ha valore se non per la sua persona. Perciò quando qualcuno dice «il vino delle Canarie è piacevole „ sopporta volentieri che gli si corregga l’espressione, gli si ricordi che deve dire «è piacevole a me», mentre «quando egli dà per bella una cosa, pretende dagli altri lo stesso piacere; non giudica solo per sè, ma per gli altri e parla quindi della bellezza come essa fosse una qualità della cosa» 6. Perciò se qualcuno dicesse la «Divina Commedia» è brutta, reagirebbe.
Il bello è dunque l’oggetto di un piacere particolare. Serviamoci, per spiegare più precisamente la natura di questo piacere artistico, dell’idea di maraviglia, che ha attraversato il pensiero di Leonardo come un insetto passa dall’ombra al sole. Davanti alla bellezza, noi siamo invasi da una maraviglia, che si rinnovella ogni volta; e mi domando se non desideriamo di rivedere certe opere d’arte, che per controllare il mistero di questa imprevedibile maraviglia. Il bello ci maraviglia, poi ci forza ad ammettere che non poteva essere diverso, e che per ciò non avevamo il diritto di rimaner stupefatti. Non ci maraviglia dunque soltanto, ma ci fa pentire di un sentimento, che deve sempre rinascere, complicandosi di pentimenti anticipati. E in verità non ci maravigliamo tanto della forma di un’opera d’arte, che non si può mai prevedere, come della concordanza stessa del nostro spirito con l’oggetto di questo stupore. Ci sentiamo in armonia con la causa della nostra sorpresa. Il piacevole non ci maraviglia a codesto modo; ad ogni modo, la sorpresa che provoca in noi si esaurisce in pochi secondi, e non ha forza che una sola volta. Il sapore di un frutto non è imprevedibile. Concludiamo dunque che questo piacere disinteressato, per il quale esigiamo un consenso universale è una «concordanza sorprendente con un tutto imprevedibile», e, per quel che riguarda il bello artìstico in particolare, «la coscienza che nessuno, fuorché l’artista, avrebbe potuto crearlo».
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Esaminiamo, per cominciare, il bello di natura. L’hanno negato quei filosofi che del bello e dell’arte avevano fatti due sinonimi, ma, per quanto ingegnosa, questa rimane sempre una scappatoia; il bello naturale, nonostante il gioco filosofico che l’ha voluto distruggere, ha continuato a commuovere gli uomini e non ha perso, come sanno coloro che vogliono comprare una villa in campagna e amano le vedute larghe e le finestre aperte su dolci e vasti orizzonti, neppure il suo valore economico.
Faccio anzi notare come gli uomini godano il bello naturale assai più profondamente che quello artistico. Chi non ammira un bel paesaggio, o una bella donna, o un bel uomo? Tutti almeno sentono il bisogno, guardando il mondo, di giudicarlo. Tutti, quando si tratta di scegliere fra due bellezze della natura, sanno che cosa preferiscono e smaniano di dirlo; ed è una conferma del loro piacere il fatto stesso che gli uomini sentano il bisogno di esprimere su questa materia un giudizio e godano esprimendolo; perchè chi non gode davvero e non trabocca di un sentimento non si strugge nemmeno di confidarlo. Pochi invece, a paragone di tutti gli uomini che giudicano della bellezza naturale, sentono il bisogno di giudicare le opere d’arte e godono giudicandole.
Del bello artistico parleremo tra poco; chiedo, intanto, che si tenga conto di quello che abbiamo rilevato a proposito del bello natu-
11. Ferrero
naturale, perchè il fatto stesso che il piacere dinnanzi al bello di natura sia un sentimento universale e quello dinnanzi al bello dell’arte sia il privilegio di una élite m’ha fatto sempre pensare. Semplice com’è, spinge chi ci riflette sopra una strada, che può essere nuova e non è forse cattiva; ci persuade per cominciare che si può godere il bello della natura con l’istinto soltanto, senza che lo spirito debba essersi assuefatto, attraverso agli studi, a quel godimento; ci dimostra che possiamo ammirare una bella campagna anche senza esaminare noi stessi — spalancati dinnanzi a lei come alberi nel vento.
Noi godiamo infatti la natura senza possedere la chiave del godimento.
La prima definizione del bello naturale potrebbe essere questa: «Il bello naturale è quello che ci dà un piacere e che ci obbliga ad ammetterlo senza che possiamo spiegarlo».
Si è già cercato di chiarire il mistero di questa voluttà incomprensibile. Kant ha scritto che gli uomini godono guardando un oggetto della natura, non tanto perchè l’hanno giudicato bello, quanto perchè l’ha creato la natura, così che il piacere verrebbe distrutto se ci rendessimo conto di aver scambiato per naturale un oggetto fabbricato dall’uomo.
Questa è una spiegazione. Ma si può dire ancora che la natura ci riempie di questo piacere inesplicabile, perchè ci si presenta come un risultato dato.
Prendiamo per esempio un paesaggio, un fiume, una donna, che abbiamo ammirati. Questa bellezza, che- esiste, poiché ci commuove e ci spinge a giudicarla, ci appare come un misterioso infinito, di cui noi non ci spieghiamo nè la materia, nè l’origine, nè lo scopo.
Affacciamoci alla finestra da qualunque casa di campagna. Avremo dinnanzi agli occhi un paesaggio, che sarà per noi, anche se rinserrato tra gole anguste, senza orizzonti e violetto d’ombra, uno scenario infinito.
Perchè ogni pezzo di natura, che è composto di materia infinita, divisa e suddivisa in forme innumerabili e perennemente mutevoli, si distende attraverso spazi infiniti; e così il corpo di una donna chiuso apparentemente in un contorno, come il paesaggio è chiuso da un orizzonte, ci rivelerà poi l’armonia paradossale che compone un tessuto trasparente e roseo — trama e incrocio di colori e di linee infinitamente rinascenti e scoloranti, sotto cui trapelano, battendo, le vene cariche di sangue.
Ma, come diceva un grande filosofo, qualunque oggetto della natura non ci sembra soltanto infinito, ma anche dolcemente misterioso, perchè lo conosciamo senza capirlo. Che cosa sono, in ultima analisi, quegli spazi, quella pietra e quegli alberi di un paesaggio; o quei colori, quei pori, quella pelle, quella luce che brilla negli occhi di una fanciulla? Di questo si meraviglieranno forse coloro che hanno sempre creduto di vedere la natura come guardavano i quadri, e che anche spaziando con gli occhi fuori della finestra, o ripensando a una donna, vedono un quadro di paese o un ritratto.
Ma se è vero da una parte che tutti noi abbiamo sempre fatto, per goderla come bellezza e per conoscerla come realtà, un’illusoria sintesi della natura, è vero d’altra parte che l’inquietudine e insoddisfazione, di cui quella sintesi ha lasciato il nostro spirito pieno, ci dimostrano come in noi rimanga ancora un sentimento di rivolta contro noi stessi. E, anche se dobbiamo farlo ogni giorno, noi ci accorgiamo che questa sintesi della natura ci è imposta dalla nostra condizione di uomini, e che è un espediente per sfuggire a una specie di diuturno naufragio nell’infinito.
«Il sentimento che si prova alla vista di una campagna, o di qualunque altra cosa v’ispiri idee e pensieri vaghi e indefiniti, scrive Leopardi, quantunque dilettosissimo, è pur come un diletto che non si può afferrare, e può paragonarsi a quello di chi corra dietro a una farfalla bella e dipinta senza poterla cogliere; e perciò lascia sempre nell’anima un gran desiderio; pur questo è il sommo dei nostri dilettile tutto quello ch’è determinato e certo è molto più lungi dall’appagarci di questo, che per la sua incertezza non ci può mai appagare 7».
La natura soltanto ci intride di un desiderio, che è allo stesso tempo una sofferenza e una gioia, di un sentimento che è insieme ingrato e gradevole. Non rimane in noi nessun sentimento di pena quando abbiamo guardato un quadro o letta una poesia. Ci restano invece spesso delle immagini così ben disegnate e tante luminose moltitudini di ricordi piacevoli, che non desideriamo nè di rivedere il quadro, nè di rileggere la poesia, per paura di sentirci impoverire la seconda, di una immensa e invisibile ricchezza accumulata la prima volta.
Se gli anni infatti non sono riusciti a trasformare il nostro gusto e i nostri giudizi, quando rivediamo il quadro o rileggiamo la poesia, non ci sembra di riempire finalmente un vuoto, una lacuna, che col suo ricordo ci avesse dato fastidio, nè di placare il desiderio di qualcosa che si fosse misteriosamente consunto; ma ci sembra di arrivare dinnanzi all’opera d’arte, coll’immagine antica ben viva in noi, e quello che scopriamo ancora in quell’opera d’arte e il nuovo piacere o il nuovo dispiacere che ci riempiono, si aggiungono al ricordo intatto che ne avevamo come delle decorazioni.
Ma chi ha guardato un paesaggio o una donna sa come appena ha smesso di guardarli se ne dimentichi. Quanti uomini non sono riusciti a ricordare il colore degli occhi amati! Non si smarriscono infatti l’intero scheletro di un paese o tutti i lineamenti di un viso; nè si dissolvono dei ricordi generici di piacere; ma si perdono quelli che vorrei chiamare i connotati della natura. Qualche giorno, qualche ora, e anche qualche minuto dopo aver guardato un bellissimo paesaggio o una bella donna, l’uomo non ha più in sè stesso che una bruma soave di sentimenti.
Ce ne offre una prova il nostro assiduo bisogno di rivedere il paesaggio o la donna e più ancora lo stupore gradevole che ci invade, anche a pochi minuti di intervallo, tutte le volte che li rivediamo. Ogni nuovo incontro è come una rettifica, un riordinamento di tutti quei lineamenti, che si erano dissolti e scomposti nella nostra memoria.
Ma che vuol dire questa vaghezza e brumosità di immagini deliquescenti e gradevoli, se non che siamo rimasti come esclusi a guardare un oggetto che non c’è stato concesso di possedere? Si può dire che il bello naturale sia come Venere, che si ritrovava vergine dopo ogni notte di amore. Si può aggiungere che di fronte alla natura noi siamo come uno scolaro, che abbia sentito spiegare in gran fretta un teorema, di cui abbia intravisto come in un barlume il filo del ragionamento, ma di cui sappia il giorno dopo distinguere, tra le nebbie di una dimostrazione dimenticata, soltanto il titolo.
Rispetto agli oggetti della natura, noi possiamo servirci solamente di quella che gli psicologi chiamano «memoria bruta». Per questo dicevo che la natura ci appare come «un risultato dato», che possiamo conoscere come lo scolaro impara l’enunciazione di un teorema; che possiamo godere, come Marte godeva Venere, ritrovandola intatta ogni volta, ma che non ci sarà mai possibile di far nostra e che non riusciremo a dimostrare e a spiegare. Dobbiamo insomma contentarci di sentire davanti al bello naturale un inesplicabile godimento.
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Possiamo dunque concludere, più precisamente, che «il bello naturale è quello che ci dà un piacere, che non possiamo spiegare sottoponendo la natura a delle leggi estetiche».
Ora, una legge estetica mi sembra quella che «sottintendendo o enunciando un fine e una necessità 8 limita i mezzi con cui si può raggiungere il fine violando le necessità».
La maggior parte degli uomini, che ammirano la natura, si illudono di sottoporla a una legge estetica, come se si trattasse di un quadro. Vedremo più tardi perchè questo non sia possibile; notiamo invece, per ora, come la natura sfugga a una legge, soltanto per il fatto che è un divenire continuo.
Si è già accennato al valore, che ha, quando noi consideriamo un frammento di natura, il moto, per cui lo spettacolo che ci è dinnanzi muta come per una inquieta e perpetua ansia, come per una misteriosa nostalgia delle combinazioni ancora possibili; ma noi siamo così avvezzi a fare uno schema intellettuale della natura e a rappresentarci quello che è perennemente vario come se fosse definitivo ed immobile, che non pensiamo più al significato del movimento.
Una legge estetica, che, per chi giudica, serve dunque da metro, richiede prima di tutto che l’opera misurata sia ripetibile o immobile. Immobili sono un quadro, una statua, una chiesa; una musica, una danza sono ripetibili. Il movimento nella danza non ha nulla a che fare col moto della natura; prima di tutto perchè il moto della natura non è, come quello della danza, regolato da una volontà — la soluzione religiosa non ha valore in estetica — poi perchè ogni movimento di una danza può essere considerato da due punti di vista: o in sè stesso, e allora grazie all’illusione della luce e dei colori, lo godiamo come si godono i quadri e come si godono le statue, dimenticandoci che il ballerino sia un uomo — e la danza non è più arte quando ce ne ricordiamo — ; o come anello di una catena, come tramite da un gesto a un altro, e allora acquista il valore di una nota in una frase musicale. Ma tanto nel primo caso come in quest’ultimo, la sorgente del piacere estetico è ripetibile, e perciò possiamo assoggettarla a una legge.
Noi non possiamo dunque sottomettere a nessuna legge estetica la natura, che ci presenta come un divenire perenne, e, per legge di causalità, non più libero. (Non insisto, poiché dopo Kant non è più necessario, sulla libertà, che è il primo principio dell’arte).
Un mondo come quello della natura è un mondo «in cui tutto succede»: è dunque soggetto alle leggi fisiche e a quelle morali. Ce lo prova Leonardo stesso quando, mosso dal bisogno di creare un microcosmo, un mondo cioè che pur ricordandoci d’essere arte ci si presenti come natura, gode se il cane riconosce il padrone raffigurato in un quadro, o se gli uccelli illusi si posano sulle sbarre di una falsa finestra, o se l’amante vuol baciare le labbra della sua amata dipinta.
Il bello o il brutto, neanche in arte, non si possono dimostrare; si possono però, in base a delle leggi estetiche, giudicare e spiegare; ma non si possono nè spiegare, nè giudicare il bello e il brutto della natura. Non abbiamo infatti nessun mezzo di spiegare perchè un albero è bello o brutto; possiamo soltanto affermarlo.✶
Ma che cosa spiega l’enigma di questo godimento oscuro e contradditorio, che possiede persino un valore di scambio riconosciuto e non rivela a nessuno le sue sorgenti?
Perchè insomma il bello naturale ci commuove senza che possiamo capirlo?
E’ stato detto da Kant, come il nostro piacere di fronte alla bellezza della natura sia un vero e proprio moto di quel giudice sovrano, inappellabile e muto, che è il corpo umano; come in questo godimento, che sembra intellettuale, ci sia soltanto un distendersi gioioso dei nostri nervi, uno spalancamelo fisico.
Non per nulla infatti siamo indotti ad ammirare quei paesaggi «aperti», che ci fanno respirare e sentire fisicamente liberi, più di quei paesaggi chiusi, in cui ci sentiamo come soffocati dal peso della natura, senza pensare che, volendo giudicare la natura come si giudica un quadro, non c’è una ragione al mondo per preferire una valle angusta a un largo orizzonte.
Senonchè, se è vero che la contemplazione delle Alpi o del Mare ci dà una vera e propria sensazione di benessere materiale, è anche vero che un olivo, un cipresso, o un fiore, che non odori, non ci dànno fisicamente più gioia di un quadro. E vien fatto di dubitare che ci siano degli altri misteri da chiarire in questa maestosa questione, soltanto quando si pensa che, se per il bello naturale noi non esigiamo dagli altri la conferma del nostro giudizio, con quella violenza di sentimenti con cui l’esigiamo per l’arte, siamo pur sempre più esigenti che per il piacevole. Il bello naturale, infatti, ridotto a un piacere fisico, non sarebbe diverso da quello che suscita in noi il bere, il mangiare, o come diceva Kant, persino lo spirito, ed è noto che nessuno in questo caso esige l’universale validità dei proprii giudizi.
E allora, perchè il bello naturale non ci dà la chiave di quello stesso piacere, che ha provocato in noi? Perchè non possiamo assoggettarlo a delle leggi estetiche?
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Abbiamo definita una legge estetica «quella che sottintendendo o enunciando un fine e una necessità, limita i mezzi con cui si può raggiungere il fine violando la necessità».
Il fine (e cioè l’opera d’arte) è un tutto, analogo a quello della natura 9. I mezzi invece, come abbiamo visto, sono necessariamente inadeguati a quelli della natura. Le leggi estetiche, dunque, sono quelle che codificano queste limitazioni, e anzi le restringono ancora; sono quelle che stabiliscono, per esempio, come un pittore debba raggiungere, violando il piano su cui è costretto a dipingere, un tutto. che abbia le apparenze della natura. - senza gonfiare la sua tela di volumi reali, senza scavarla davvero in profondità, ma valendosi della prospettiva e dell’ombra; debba esprimere le passioni, non con delle parole dette da un fonografo nascosto dietro la tela, ma valendosi dei lineamenti del viso e dei gesti dei personaggi, visibili con l’occhio.
Senonchè, queste leggi sono possibili e comprensibili solo perchè i mezzi con cui il pittore si accinge a gareggiare con la natura restano umani, sono cioè limitati e come tali conosciuti più o meno dal pubblico, che deve giudicare della vittoria.
Il bello naturale non va dunque soggetto a nessuna legge e non dà all’uomo la chiave del godimento che suscita, appunto perchè la natura in genere, e qualunque oggetto naturale, che giudichiamo bello, può esser detto un tutto ottenuto con tutto, un esempio di bellezza in cui non ci è dato riconoscere con che mezzi e in base a che leggi è stato creato. Non possiamo perciò paragonare, come vuole un filosofo moderno, le intenzioni che ha avuto l’autore e l’opera d’arte che ha fatto: dobbiamo semplicemente affogare nella immensità di un piacere fluttuante.
Ma questo spiega finalmente perchè tante moltitudini di uomini, insensibili all’arte, godano davvero la bellezza della natura. Appunto perchè non richiede in nessun modo all’uomo di conoscere, per esser goduta, il segreto meccanismo del suo spettacolo, e non gli impone nè l’esame della coscienza, nè l’assuefazione allo stile, la natura si afferma colla propria forza profonda su tutti gli spiriti e li intride di sè medesima, come la pioggia intride la terra.
Note
- ↑ [p. 180 modifica]B. 28.
- ↑ [p. 180 modifica]B. 17.
- ↑ [p. 180 modifica]Kant, Op. cit., pag. 82.
- ↑ [p. 180 modifica]Kant, Op. cit., pag. 50.
- ↑ [p. 180 modifica]Kant, Op. cit., pag. 46.
- ↑ [p. 180 modifica]Kant, Op. cit., pag. 51.
- ↑ [p. 180 modifica]Leopardi, Op. cit., 75.
- ↑ [p. 180 modifica]V. nella prima parte di questo studio che cosa si intenda per «necessità».
- ↑ [p. 180 modifica]V. nella Ia Parte, il principio di Leonardo.