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e allusioni maliziose; era felice come sotto l’incanto di un sogno.
Mikali, mentre non cessava di guardare la scena con occhi lucenti di un piacere infantile, si chinò come per dirle esitando un segreto.
— Vittoria... balliamo anche noi?
— Ma ti pare, Mikali? — ella rispose con dolce rimprovero, oscurandosi in viso. — Mikali, siamo in lutto!
Mikali non insistè: lo sapeva, sì, che benchè sposi non dovevano ballare, per il lutto: e i fantasmi risorsero, nel breve spazio fra la porta e il circolo della danza.
Intanto sopraggiunsero altre due maschere; una vestita da donna, con grossi piedi e scarponi e ghette che tradivano il maschio; l’altra piccolina, infagottata da contadino zoppo e gobbo che fingeva d’essere il marito della prima.
— È Zizza che s’è sposata anche lei.
Mikali aggrottò le sopracciglia poichè lo scherzo non gli piacque; tosto però nel mascherotto che buttava in aria il gabbano e si toglieva una chitarra dalle spalle riconobbe il figlio del cantoniere gallurese, lo stesso che una sera egli aveva costretto a suonare e cantare sotto le finestre dello stazzo, e intenerito strinse la mano di Vittoria.
— Senti la chitarra! Rammenti quella sera? Mi pareva d’essere morto, morto io e morta te, e per la disperazione mordevo le pietre.
Vittoria sollevò verso gli occhi di lui gli occhi gravi di voluttà, e tutto intorno a loro, il ballo nel cortile, la cucina con le figure dei