Le colpe altrui/Parte II/Capitolo II
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II.
Solo al tempo della raccolta frate Zironi si fece rivedere allo stazzo. Tutto il campo era giallo, intorno alle macchie verdi, sotto il cielo d’un azzurro cinereo ove stagnavano le nuvole d’estate gravi come roccie di granito; l’orzo era già mietuto, ma nelle distese di frumento i mietitori lavoravano ancora, curvi, con la corta giacca di cuoio che li faceva rassomigliare a bestie sbandate intente a brucare le spighe.
Nel cortile dello stazzo, Pancraziu faceva calare cautamente dai sacchi sul carro a una misura di ferro deposta per terra un rivoletto d’orzo; e mentre zia Sirena aiutava Ignazia a caricarsi sul capo i cestini colmi, egli al solito scherzava.
Anche le donne non erano tristi. Il tempo appiana le cose come la vecchia serva appianava l’orzo sulla misura passandovi sopra un matterello; eppoi quando si ha da fare e si deve raccogliere la roba che il Signore manda, le idee tristi svaniscono.
Il frate quindi fu accolto con esclamazioni di gioia; e Pancraziu disse:
— Giunto a tempo, così Dio mi assista! Mi leggerete il Vangelo per farmi passare l’impressione di un sogno...
— Che hai sognato, figlio?
— Ho sognato che ero nell’aja e vedevo pieno un sacco ch’io avevo già vuotato. Ecco. Era Ignazia, questa qui, che vi si era cacciata dentro appunto per farsi palpare da me...
La serva gli diede un colpo di matterello.
— Va alla beatissima forca!
E anche zia Sirena lo sgridò, mentre riempiva la sacca del frate.
— Che nuove nel mondo?
— Sapete chi ho veduto? Bobore Puddu il cacciatore, ch’era stato messo dentro per la morte del povero Andrea; l’hanno rilasciato libero per inesistenza di reato.
Le donne però sapevano già la notizia, e non la commentarono anche perchè Vittoria, sentita la voce del frate, usciva nel cortile.
Ella non dimenticava, no. Cosa erano quaranta giorni? Quaranta goccie d’acqua, sul fuoco di rimorso e di passione che la bruciava.
— Bene arrivato; benediteci, — disse al frate, conducendolo nella grande stanza terrena dove vuotavano l’orzo. Ce n’erano dei grandi mucchi simili a piccole montagne d’oro, e le panche e le tavole erano ingombre di cestini colmi di fave, di ceci, di fagiuoli rosei e bianchi come perle; dalla finestruola aperta si vedeva, attraverso una nuvola dorata di api, il susino carico di frutti violetti.
— Dio benedica tanta abbondanza, — mormorò il frate; ma Vittoria era pallida e magra come una mendicante, e gli disse a testa bassa:
— Oggi uscirò per la prima volta, dopo i primi quaranta giorni di lutto. Se voi andate al paese cammineremo assieme. Andrò da mia madre...
— Sei stata sempre sana, in questo tempo? — egli domandò timido.
— Sana di corpo sì, para; ma l’anima è malata.
— Bisogna guarirla, allora...
— Proveremo.
Infatti appena furono nello stradone ella sollevò il viso circondato dalla gonna nera e respirò con gioia l’aria calda, la polvere, l’odore delle stoppie: le sembrava d’essere uscita di prigione come il cacciatore arrestato innocente, e si sentiva lieta di camminare, di andare a casa sua, di rivivere nel passato.
— Ricordate, para, l’ultima volta, ricordate? E le cose che vi dissi, allora? Chi poteva pensare? Ma perchè il Signore permette queste cose?
— Lasciamo in pace il Signore. Il più delle volte lui non ci ha che vedere nei fatti nostri. Dimmi piuttosto che intenzioni hai per l’avvenire.
— Io? Io penso giorno e notte che la roba di Bakis Zanche mi pesa come rubata. Alla notte mi sveglio e non posso più addormentarmi.
— Hai più riveduto Mikali?
— Io no, para! So che gira intorno allo stazzo, e fa stravizi e pazzie (non lo incontreremo, spero, no, Dio mi salvi). Mi ha mandato un’ambasciata minacciosa anche, pel cugino Prededdu il bandito; ma io non ho paura di nessuno, io, solo del Signore.
— Del Signore e della mia coscienza — riprese dopo un momento di silenzio. — E lui, invece, Mikali... disgraziato... lui non pensa a questo. Lui non ha rimorsi: lui non pensa che l’altro è morto per colpa nostra: para, perchè gli uomini son così? Senza timor di Dio? Solo il timore di Dio può guarirci...
— Non è la prima volta che tu mi fai una predica! Bene, figlia d’oro: tu ragioni come un prete sul pulpito. Ma una cosa, dimmi, l’hai tu pensata? Che cioè la roba che hai tu dovrebbe essere di Marianna Zanche e di Mikali?
— Io non so di chi è, para! Io penso solo che Bakis Zanche è morto ignorando tutto. Questo è il mio tormento. Se egli avesse almeno saputo, mi avrebbe cacciata via ed io sarei adesso più contenta.
— Vittoria, — disse il frate, fermandosi. — Vittoria, tu dovresti mettere una pietra sul passato e sposare Mikali.
— Para!
Si volse a lui spaurita; ma il suo grido era simile a quello dell’allodola che sfugge atterrita e salva al colpo del cacciatore.
— Vittoria, ascoltami. Ho pensato a te, nella solitudine. Ho pensato: Vittoria Zara non può vivere sola, tanto più che i mosconi le ronzano attorno. Bisogna che si mariti.
— Io non voglio maritarmi, para!
— Perchè pensi sempre a Mikali! E se tu ne sposi un altro ricomincerà la storia di Marianna Zanche. Ricòrdati le parole che tu stessa mi hai detto un giorno qui, quando passò Mikali coi puledri.
Ella si nascose il viso fra le mani agitate da un tremito; rivedeva la dolce e terribile visione, e gridi di gioia e di angoscia le gonfiavano il petto, poichè lo stesso frate le pareva inviato dal demonio per accrescere le sue tentazioni.
— In verità, — disse, mentre grosse lagrime le scorrevano fra le dita, — mi pare di sognare. Voi parlate così, voi?... Ma... ma...
— Ci sono mille e mille ma, ai quali non sappiamo dar seguito, figlia d’oro. Ebbene, io ti dico: sposa Mikali e riprendi in casa tua Marianna Zanche. Così il filo rotto si riallaccerà e tutto andrà bene. Se no Mikali si perde, bada. Il puledro del dottore lo ha ammazzato lui. So le cose del mondo anche nella solitudine, Vittoria; tieni Mikali nella retta via...
Avevano ripreso a camminare ed ella procedeva a capo chino, con gli occhi fissi a terra, come cercando qualche cosa che aveva perduto e non ritrovava più; solo allo svolto dello stradone sollevò il viso e scorgendo la sua casetta, il tronco irsuto ricoperto d’edera, il campanile con le corde disegnate sullo sfondo infocato del cielo, riprese a piangere e a ridere come una bambina.
— Mi pare di mancare da trent’anni e di tornare a casa mia dopo una lunga condanna e un lungo esilio...
— Sì, — confessò poi — non lo nego, amo ancora Mikali, ma non come prima. Mi pare che anche se lo sposassi non sarei contenta. Ma ecco la mia zia; non ditele nulla, vi prego; lasciate ch’io sola decida della mia sorte.
La gobbina si avanzava scuotendo i lembi della gonna come ali nere; sembrava un grosso pipistrello e il suo occhio azzurro brillava di gioia e quello verde di malizia.
Mentre il frate sedeva nella piccola cucina, in attesa che zia Pietrina tornasse dall’orto, Vittoria salì nelle stanze del piano superiore e frugò in ogni angolo quasi cercasse il suo passato, la sua gioia perduta, triste e felice assieme, con l’orizzonte di nuovo aperto davanti, ma turbata davvero, nella sua letizia, dalla melanconia dell’esule che ritorna. Nulla è mutato intorno; ma è mutato lui.
Trovò finalmente la fisarmonica, che la madre aveva nascosto dentro la cassa, e sedette guardandola sul davanzale della finestra; eccola ancora, gialla, verde e violetta, coi tasti lucenti come bottoni che solo a premerli spalancano le porte d’una casa incantata; ed ella li preme, e un soffio, un lamento, un grido di uccello ferito nel nido attraversano lo spazio.
— Vittoria, nipote mia, Dio ti aiuti, — gridò di giù la gobbina, — che fai? Non ricordi che sei in lutto stretto?
Ella rimise lo strumento, scese giù e sedette accanto al frate.
— Zia, zia, non avete nulla per le visite? L’arca di Pietrina Zara non è certo l’arca di Vittoria Zara, ma qualche cosa pure ci sarà!
E senza aspettare che la gobbina servisse qualche cosa, tornò ad alzarsi e corse fuori chinandosi a toccare i cespugli e i giaggioli e i gigli i cui fiori pendevano già secchi sullo stelo.
— Così son io, ohiò! — gridò con allegria tragica, e corse via per il campo fino alla siepe là dove le pareva che il terreno conservasse ancora le impronte dei piedi di Mikali. E là si fermò, assalita da un tremito che parve comunicarsi alle cose intorno, alla siepe e alle stoppie, alle macchie battute dal venticello della sera, alle rondini che si ritiravano nei loro nidi sotto la casa, alle campane che suonavano l’avemaria...
*
Anche Mikali aveva finito la sua raccolta, abbondante, sì, ma non tale da soddisfarlo. Non era uomo da aspettare il vento nell’aja, Mikali, e da contentarsi poi se, sollevata la pula, il mucchio del frumento gli prometteva almeno un inverno senza fame.
I suoi occhi ardevano come il cielo in quei lunghi crepuscoli in fondo alla brughiera, il verde della speranza spento dal rosso della passione; e sentiva il sangue battergli alla testa come una volta aveva veduto il mare in burrasca battere agli scogli di Capo Ceraso là dietro i promontori dell’orizzonte.
Portato a casa il frumento, disse a sua madre:
— Lo vendiamo perchè voglio andare in America.
E poichè ella gemeva, l’afferrò per le braccia e la scosse come un sacco da cui si deve far cadere qualche rimasuglio.
— Non capite? Per voi, santa femmina! Avete inteso? Vado via per voi, per non farvi piangere oltre. Se rimango qui mi perdo, perchè un uomo come me non può rassegnarsi alle ingiustizie. Mi hanno rovinato, mi hanno tolto il sangue dalle vene, e pretendono che io me ne stia come un asino col moggio sul capo? No, santa femmina; me ne vado; meglio nelle altre parti del mondo che nell’inferno. Al ritorno poi aggiusterò io i conti con tutti...
In fondo, la madre lo approvava. Domandò a Maria Luisa Zoncheddu se voleva comprare il frumento, e alle domande curiose della donna finì col rivelare i progetti di Mikali.
— Partire vuole, andare in America e lavorare. E lavorerà, sì, perchè egli ha le forze di un gigante; e tornerà con la bisaccia piena, come si conviene a lui.
In altri tempi Maria Luisa avrebbe urlato per la meraviglia. Un uomo giovane come Mikali, di buona famiglia, di buona razza, partire così come un giramondo! Ma i tempi erano mutati. La speranza dell’eredità sfumata, nello stazzo non si vedeva più di buon occhio l’inclinazione di Battista per il figlio della serva, sebbene questa adesso, godendo il piccolo usufrutto del terreno lasciatole dal marito, fosse considerata come ospite e amica.
— Fa bene a partire, — disse Maria Luisa, misurando il frumento. — Così darà uno schiaffo a chi lo disprezza. E quando va?
— Adesso, al più presto, appena finisce di domare due puledri di Zuannandria Majore.
Presi i denari, Marianna Zanche mandò Battista a comprare quattro metri di frustagno per fare una veste a Mikali, poichè partendo egli doveva abbandonare il costume.
La ragazza andò fino al villaggio; era triste come la notte, e tirò, tirò il prezzo, tragica come se si trattasse di risparmiare un po’ del sangue del suo cuore. Tornata a casa, sedette in un angolo della cucina con l’involto in grembo e cominciò a piangervi sopra e a mormorare una nenia funebre: pareva avesse in grembo un bambino morto.
Mikali partiva, il gigante, la bandiera alta e sontuosa! Partiva e lasciava il suo costume, come un morto lascia le vesti terrene, e indossava il frustagno, la pelle degli uomini deboli buoni a nulla! Partiva, come parte la foglia dall’albero, sospinta dal vento d’autunno, come la piuma che si stacca dall’aquila che invecchia! Che tristezza, che crepuscolo! La fanciulla piangeva, e sembrava, in quell’angolo di cucina nero come una grotta di Monte Petrosu, la patria stessa che gemeva la sua nenia di addio ai suoi figli degeneri, da eroi vestiti di scarlatto divenuti emigranti coperti di stracci.
Ma zia Marianna scese con le forbici in mano, prese l’involto e spiegò il frustagno sulla bassa tavola da fare il pane.
— Vestito di scarlatto o di pelle di diavolo, Mikali è sempre Mikali, — disse a Battista per confortarla; — purchè sia salva la sua libertà e l’anima sua. Non piangere, figlia mia. In America forse egli sarà più vicino a te che non lo è qui. Dammi il refe, anima mia.
Allora le due donne cominciarono a cucire, e Battista si pungeva il dito perchè qualche goccia del suo sangue rimanesse coi punti dentro la stoffa e parlasse a lui quando fosse lontano nel mondo ignoto, dicendogli tutto l’affanno e il desiderio del cuore dond’era sgorgato.
Mikali intanto, fra le stoppie del campo mietuto e nei sentieri intorno, finiva di domare i puledri di Zuannandria Majore, sfogando su di essi la sua rabbia e il suo dolore: erano due bestie indiavolate, le peggiori che egli avesse avuto, e si rizzavano come giganti mostruosi riempiendo la brughiera di nitriti che sembravano urli umani.
— Siete indomiti come la mia sorte; ma vi domerò io, vi domerò!
Come essi lo trascinavano verso il torrente, ecco la gobbina sollevarsi fra le pietre a fior d’acqua sbattendo i panni lavati.
— Lo sapete che me ne vado? — gridò Mikali da lontano. — Forse non tornerò più, o se tornerò sarà... Ebbene, sì, diteglielo pure a vostra nipote, poichè bisogna parlarle per ambasciata, diteglielo dunque che tornerò per le sue nozze. Bisogna pure che le faccia un regalo, quel giorno... una collana di corallo... così San Michele mi assista! Avete inteso?
La donnina proruppe in un grido lungo e tremulo che fece nitrire i puledri.
— Ohi, ohi, Mikà, ho inteso! Collana di goccie di sangue, tu vuoi dire! Ma quel giorno non arriverà mai perchè Vittoria non si sposerà mai.
— Meglio, allora! Che vada a farsi monaca; che vada a stare col frate fra le rovine di Monte Nieddu; che vada al diavolo donde è venuta, — egli disse, smontando sulla riva del torrente; ed ella balzò come una palla e lo afferrò per le falde del cappotto, fissandolo negli occhi coi suoi occhi strani, come il gatto selvatico quando affascina l’allodola.
— Mikali, ascoltami; tu sei nato ieri e non capisci nulla. Mia nipote non pensa che a te e non sposerà che te. Perchè vuoi partire?
— Parto perchè così mi pare! non perchè sia disperato, no, femminuccia! Un uomo come me trova donne e denari in ogni angolo della terra e non permette che si rida di lui. Questo solo voglio far capire a vostra nipote: che ella mi ami o no, non m’importa, ma voglio che ella mi rispetti. Troppo si è burlata di me! Io parto, sì, ma che ella non guardi altro uomo, perchè se no... io tornerò prima del tempo...
— Sentimi, Mikali: io non posso ripetere queste cose a Vittoria; perchè non gliele dici tu, prima di partire?
— E dove gliele dico? In casa del boja? Ella si è messa a correre, l’altro giorno, perchè mi ha visto da lontano. Se credeva che io corressi dietro a lei si sbagliava! Io non corro, no; io sto fermo.
— Va bene, senti: combiniamo di parlarvi. Io le dirò: Mikali parte e non tornerà più, ma prima desidera vederti per l’ultima volta. Ella verrà; giurami però che non le farai del male.
— Io sono un cristiano; io non ho mai fatto male a nessuno! — egli gridò offeso.
— E il puledro del dottore, Mikà, chi lo ha punto? Del resto tu hai ragione; sei un uomo, tu, non un fantoccio di sughero.
Mikali sorrise lusingato, e accondiscese alla proposta di lei di rivedere Vittoria con la scusa di dirle addio; poi saltò d’un balzo sulla groppa di uno dei puledri, tirandosi addietro l’altro, e scosse il nerbo in aria urlando di gioia.
— Ohiò!... Utalabìh!
Il suo grido si incrociava con la piccola voce della gobbina che cantava felice battendo i panni sulla pietra.
Una columba in su nìu |
E tutto il paesaggio primitivo, dai monti rocciosi dell’ovest all’isola di Tavolara venata di azzurro e di rosa come un fiore enorme, parve animato di centauri e di gnomi.
*
Seduta un po’ stanca sulla panchina del cortile, Vittoria parlava con la vecchia serva preoccupata perchè dai mucchi del frumento giù nella stanza terrena uscivano file di moscherini che coprivano le pareti come un velo sempre più fitto.
Bisognava farli sparire, altrimenti avrebbero guastato il grano come il tarlo guasta il legno.
— Manderemo a chiamare Nicola Farre per gli scongiuri. La luna è fuori; il tempo è quindi adatto.
E guardò la luna nuova sopra il muro del cortile, pensando che anche lei aveva dentro l’anima un verme roditore contro cui non valeva scongiuro di sorta. Ma la figurina misteriosa della zia, col cestino sul capo, apparve nel vano glauco del portone, e tosto, nell’occhio verdastro che la fissava, ella vide un raggio dolce come quello della luna nuova.
Quando c’era molto da fare, la gobbina passava le giornate nello stazzo, aiutando le donne che parlavano continuamente del padrone morto come se egli fosse ancora lì seduto sulla panca col suo libro e le sue immagini in mano. Anche Pancraziu, quella sera, stava con loro nel cortile; e si discuteva se gli scongiuri di Nicola Farre erano più validi di quelli fatti col Libro dei Vangeli.
— Il padrone, beato sia, diceva che i Vangeli sono più validi. Una volta, così Dio mi assista, ho veduto una volpe cadere morta stecchita appena il prete lesse il Libro dietro il cespuglio dove essa aveva il covo... Sì, domandate a frate Zironi, se non credete a me.
Vittoria taceva e pensava a frate Zironi. Venisse! Le parlasse ancora una volta come le aveva parlato quel giorno nello stradone! Ella aveva risposto no, quel giorno, ma a misura che il tempo passava qualche cosa cadeva dal suo cuore come le pietre dal muro, lasciando un varco.
Mentre i servi discutevano s’alzò e uscì nell’orto, fino al muro su cui s’era aggrappato Mikali la notte di San Giovanni. Un peso la soffocava; volse il viso alle stelle, ansando lievemente, quasi volesse dissetare la sua angoscia d’amore bevendo l’infinito; e cominciò a piangere, ad occhi chiusi, mordendosi le labbra, e trasaliva nel sentire le sue lagrime scivolare lungo le guancie, lungo il collo e caderle nel seno quasi dure come perle. Che catena era quella! La legava al passato, la chiudeva in un cerchio di morte. E aveva paura di volgersi perchè i fantasmi erano dietro di lei; e le pareva di odiarli, pure piangendo di rimorso, quei due morti che la tenevano chiusa nella loro casa come per farle provare un poco della loro sepoltura: li odiava, pure piangendo per loro.
Si aggirò per l’orto, quasi cercando un buco ove fuggire; ritornò verso il muro e s’acquetò, stanca, come l’uccellino che ha invano sferzato le ali contro la gabbia. Tutto era finito: a che ribellarsi? Eppure... Un solo fruscìo la fa di nuovo sobbalzare. Chi è? Il morto? Il vivo? Entrambi la fanno egualmente palpitare.
— Ah, zia, siete voi? Che c’è?
— Senti, ho da parlarti.
La gobbina le si attaccò addosso come un’ombra; e fu un lungo discutere, un sommesso ma vivo protestare da parte di Vittoria, poi lunghi sospiri, un gemito di rassegnazione seguìto da un momento di silenzio, e infine una risatina soffocata, il gorgheggio dell’uccellino che riprendeva a svolazzare nella sua gabbia.
Note
- ↑ Una colomba nel nido
Hanno ferito dormendo...
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