Le colpe altrui/Parte I/Capitolo II
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II.
A mezzogiorno Andrea non era ancora arrivato.
I servi mangiavano in cucina, chiacchierando sottovoce, e uno di essi, Pancraziu, anche lui scuro in viso come un arabo, si volgeva a Ignazia, la serva giovane, incitandola a scherzare.
— Sei triste e seria, sì, ma intanto vorrei sapere cos’hai fatto col frate stamattina dietro il portone quando lui se ne andava. Odori di topo come lui.
— Zitti — disse il servetto della fidanzata di Andrea che era venuto a prendere notizie. — Ecco il frate che ritorna: è stato al paese, perchè? Ha una cosa in mano sotto un fazzoletto bianco. Ah, frate Zironi, salute! Vi abbiamo veduto stamattina con una donna in riva al torrente. Ah, anche voi siete come i frati maligni dei tempi antichi...
Ignazia s’inginocchiò mormorando:
— Porta la comunione al padrone — e gli uomini si tolsero la berretta inginocchiandosi anch’essi; il servetto allora tremò tutto, col viso contro il muro, pensando che aveva scherzato mentre nella cucina passava il Corpo di Nostro Signore.
Si fece un gran silenzio in tutto lo stazzo; e un senso di attesa, calma e religiosa, una rassegnazione ai voleri di Dio parve quetare uomini e cose.
Qualche viandante si affacciava al portone per domandare notizie del malato.
— Sta meglio di voi e di me — rispondeva la vecchia Sirena.
— E Dio lo voglia!
Ed ecco Andriana, la donna delle erbe, con un piccolo boccale nero coperto con una foglia. Fu subito ammessa nella camera del malato, ma Ignazia, rimasta in cucina col frate, protestò.
— Io non glielo farei bere, il decotto delle erbe, no! Non si sa mai che erbe sono: può esservi in mezzo anche la sardonica. Ah, Signore, se arrivasse il padroncino. Il cane rosso abbaia: sentite!
Sospirò e si slanciò verso l’uscio come decisa a impedire qualche cosa; subito però tornò indietro rassegnata e silenziosa, avvicinandosi ogni tanto al portone per scrutare la lontananza.
I servi lavoravano nella vigna, e nel silenzio del chiaro pomeriggio, quando il cane taceva, s’udiva il tinnire della zappa contro le roccie e qualche grido lontano di uccello: il sole cadeva sopra la linea turchina dei monti e le ombre si allungavano sulla brughiera luminosa.
Andriana tornò in cucina e fissò negli occhi del frate i suoi occhi melanconici.
— Sia fatta la volontà del Signore, Bakis Zanche ha la febbre alta. Bisognerebbe avvisare Vittoria Zara.
Allora frate Zironi s’alzò e si avviò un’altra volta. Seguiva un sentiero fra le macchie, al di là del torrente che corre parallelo allo stradone; a poca distanza di uno stazzo bianco circondato di un recinto di siepi e di fichi d’India si fermò indeciso, ma subito scosse la testa e riprese a camminare verso il paesetto.
Ed ecco la casa di Vittoria Zara, stretta e nerastra come una piccola torre, in mezzo a un campo di fave illuminato dal tramonto. Un tronco irsuto di quercia coperto d’edera gettava la sua ombra sul piccolo spiazzo circondato di giaggioli dai grandi fiori di velluto violetto, e al di là la strada si slanciava fino al paese, bianca e dritta in modo che il campanile, in mezzo ad un gruppo nero di casupole, pareva lì vicino, col sole che tramontava sulla sua cima e la campana lucente come fosse d’oro, con la corda nera penzoloni.
Una ragazza alta dai lunghi occhi verdognoli un po’ obliqui e le larghe trecce nere lente sul collo olivastro, sbatteva una sottana davanti alla porta e cantava a mezza voce. Era così flessuosa che ad ogni movimento pareva si allungasse e si abbassasse, con qualche cosa di serpentino nella persona di cui il corsetto nero e la sottana pieghettata con un alto bordo violetto disegnavano le forme agili. I giaggioli intorno, il colore del suo nastro, il tronco lucente d’edera a fianco della casetta a torre, lo sfondo della brughiera e del paese sull’orizzonte d’oro, parevano creati apposta per dare maggiore risalto a questa figura di giovinezza e di gioia.
Frate Zironi s’avanzava guardandola come la mattina aveva guardato il panorama dalla montagna; e a sua volta ella gli sorrideva di lontano, con gli occhi voluttuosi, coi bei denti scintillanti nel viso scuro e fino, e sventolava la sottana per salutarlo.
Egli rispose al saluto con enfasi, sollevando le mani con le palme rivolte a lei:
— Dio è grande ed è padre amoroso dell’uomo se per sua delizia e per abbellire il mondo dà vita a creature come Vittoria Zara. Il sole? Le stelle? I fiori? Gli uccelli? Le fontane? Sì, sono cose belle, dànno luce e profumo; sì, va bene, ma che cosa contano davanti a una creatura i cui occhi brillano come quelli di Vittoria Zara? Sia dunque lodato Dio.
— Sempre sia lodato! — disse Vittoria, mostrando con civetteria tutti i suoi denti di perla. — Frate Zironi, Frate Zironi! Finalmente vi si vede! portate il buon tempo come le rondini, cuor mio. Venite, venite; dove avete lasciato il cavallo? Venite, vi darò il caffè, vi darò tutto il cuore. Siete stato allo stazzo Zanche? Il nostro servetto, tornato poco fa, dice che zio Bakis è quasi guarito.
Egli ricordò che portava cattive notizie ed ebbe rimorso di offuscare la gioia di lei.
— Sì, pareva stesse bene, ma dopo mezzogiorno è tornata la febbre alta. Bisognerebbe che una di voi andasse là finchè non arriva Andrea, per non lasciar solo il malato così in mano alle serve.
Il viso di Vittoria si oscurò e la sua voce modulata si fece triste.
— Speravo non occorresse far tornare Andrea. Verrò io, adesso, appena mia zia Zizza torna dalla fonte. Venite, vi darò da bere.
La cucina era pulita e in ordine come una stanza da ricevere: una sacra immagine nera su fondo d’oro stava attaccata allo sportello dell’armadio; una pianticella di clematide si arrampicava all’inferriata della finestruola nel cui sfondo, fra l’ondulare argenteo del campo di fave, i fiori dei giaggioli brillavano come vasetti di cristallo viola.
E sul davanzale interno della finestra una fisarmonica rossa e verde coi tasti simili a bottoni d’argento ricordava al frate una sera di estate in cui aveva sentito Vittoria, seduta sul limitare della porta, suonare lo strumento facendolo vibrare come un’anima in passione. Fin dallo stazzo Zoncheddu là in fondo al sentiero i ragazzi erano corsi ad ascoltare; e gli uomini che tornavano dal lavoro e i pastori fra le greggie in riva al torrente, e persino i cespugli intorno parevano vinti dall’incantesimo che si spandeva con la melodia appassionata e nostalgica, così violenta di gridi, di lamenti, di gemiti, d’invocazioni e di pianto, ma il tutto come coperto da uno scroscio eguale sempre uguale d’acqua che smorzava ogni cosa.
E prese in mano lo strumento che gli sembrava una scatola magica sigillata d’argento, mentre Vittoria gli diceva dalla stanzetta attigua:
— Mia madre è sempre là, nel nostro orto dietro il paese: lo coltiva da sè, e torna a casa solo la sera. È una vera passione, la sua.
— Bene — disse il frate, rimettendo la fisarmonica sul davanzale. — A me il vento ha rovinato tutto. I piselli son fioriti ma piangono; e i cardi, poveretti loro, bruciati senza sole. Se tua madre mi regalasse un po’ di pianticelle di lattuga?
— Non ve lo garantisco, cuor mio! Ne è così gelosa! Vuol più bene al suo orto che a me. Bevete, para — ella disse tornando in cucina col vino. — Bevete, Dio vuole. Dio è buono, vero? Voi lo conoscete meglio di me. Dio perdona, quando non facciamo il male. Che ne dite?
E come egli la guardava fisso, ella ne sostenne lo sguardo con gli occhi spalancati, con le pupille che si dilatavano e si restringevano come per un senso di paura; pareva volesse dirgli: sì, discendete in fondo all’anima mia, — ma col terrore ch’egli lo facesse.
— È da tanto che non ci vediamo — riprese abbassando la voce. — L’estate scorsa venivate spesso, ricordo, stavate qualche sera con noi, lì al fresco, ed io suonavo. Bei tempi, para! Venivano le donne dal paese e anche dallo stazzo Zoncheddu; persino Mikali Zanche, veniva... Che allegria, allora! Mi pare siano trascorsi cento anni... Perchè mi guardate così, cuore mio? Che avete fatto voi tutto l’inverno, solo lassù? Anche a me piacerebbe vivere così in un convento, sola, e pregare, pregare, e patire, patire, patire, perchè i nostri peccati sono grandi, frate Zirò, e noi non abbiamo paura della morte, frate Zirò.
— Si direbbe che tu mi fai una predica! — egli disse, restituendole il bicchiere. Ed ella rise, gettandosi sulla testa una gonna a modo di scialle, e guardandosi nel vetro della sacra immagine.
Ombre e luci passavano sul suo bel viso di oliva; si volse e sorrise al frate come volesse tentarlo, poi uscì fuori e guardò di qua e di là, frugandosi in tasca e toccandovi dentro qualche cosa che doveva pungerla perchè una contrazione di dolore la costringeva a morsicarsi il labbro inferiore.
D’un tratto balzò dallo scalino della porta e volò incontro alla zia nana e gobba sotto la gonna nera buttata sul capo, che veniva su dal campo con un’anfora di acqua. Il frate s’alzò e le vide confabulare sottovoce: Vittoria, alta come la zia con l’anfora sul capo, le aveva afferrato le braccia e la teneva immobile; la gobbina accennava di no, di no, col visetto fino di cammeo ove brillavano due strani occhi rotondi, uno nero l’altro verde; finalmente parve convinta perchè si lasciò portare via l’anfora e tornò indietro: e Vittoria chiuse la porta, mise la chiave sotto una pietra e disse al frate:
— Andiamo. Zia Zizza va ad avvertire mia madre, poi ci raggiungerà. — E precedendolo cominciò a parlare, a parlare, come eccitata da un bisogno prepotente di confidarsi con qualcuno.
— Tutti dicono che io sposerò Andrea Zanche per la sua roba; ma non è vero, vi giuro in mia coscienza, frate Zirò, quando io l’ho accettato non pensavo alla sua roba. Egli non è bello; è basso di statura, ha gli occhiali, a volte, perchè soffre d’occhi, ma a me non importa, questo: quando l’ho accettato mi sembrava bello e alto come un pinacolo. E adesso? cosa si dice di me, para? Ditemelo. Potete parlare liberamente; io capisco tutto.
Si volse e lo fermò: tornarono a guardarsi, ma egli che indovinava già il mistero dell’anima di lei, disse piano:
— Io vengo dal Monte, Vittoria. Sei tu che devi dirmi le cose del mondo!
— Sentite. La gente dice che io sposo Andrea Zanche per i denari. Non è vero. Io sono allegra, spensierata, e so che i denari invece rendono la gente infelice. Vedete loro, i Zanche? La donna aveva sposato il vecchio per la sua roba e subito lo tradì e accadde la sciagura. Mio padre e mia madre, invece, erano poveri ma si amavano e furono felici, tanto che ancora oggi mia madre vive solo nel ricordo di mio padre: e così, sebbene ella sembri triste, è felice, perchè spera di ritrovare mio padre ad attenderla sulla porta dell’eternità! Io non sono una stupida, para. Ho studiato, potrei fare la maestra, ma d’altronde non occorre saper leggere e scrivere per capire le cose. Da bambina il fatto dei Zanche mi faceva tanto pensare; io andavo apposta nello stazzo Zoncheddu, lo vedete laggiù bianco come una casetta di neve? andavo apposta per vedere zia Marianna cacciata via di casa da suo marito e ridotta a fare la serva. Che impressione mi faceva quella donnina sciagurata! Sì, con lei, amica di mia madre ai suoi tempi, noi siamo state sempre in buona relazione, ed io giuocavo nello stazzo con Mikali, il bastardo, e con Maria Battista Zoncheddu, una ragazza che ha il padre condannato all’ergastolo ed è stata raccolta nello stazzo dai suoi parenti come un’orfana. Qualche volta veniva, di nascosto del padre, anche Andrea. Ebbene, egli mi faceva pietà più di quelli altri due: era più disgraziato, benchè avesse la roba. E così l’ho considerato sempre, disgraziato; sì, a voi lo posso dire: quando egli, ultimamente, veniva a casa nostra e stava lì ore e ore e non si decideva ad andarsene mi faceva pietà come un viandante che non ha casa e si riposa in qualche luogo ospitale. Così, para: voi, anche, capite tutto.
Con le mani entro le maniche egli camminava a testa bassa e accennava di sì, ma come rispondendo a qualche sua interna domanda.
— Così, para, vi dico. Con zio Bakis, sebbene parenti, non siamo andati mai d’accordo. Egli non ci perdonava la nostra amicizia per la moglie, e intentò persino una lite a mia madre, povera vedova, per la scusa dell’acqua che dal nostro orto deve scorrere in un suo terreno attiguo. Mia madre però, bisogna dirlo, è una donnina di pasta dolce ma dura: non si piega, non perdona. Noi non andavamo mai da zio Bakis, nè egli venne mai da noi; e Andrea con noi non parlava mai di lui. Anche mia madre è taciturna. Ma ecco, l’anno scorso, si andò alla festa di San Paolo a Monti, con le Zoncheddu, mia zia, Andrea. C’era anche Mikali, il bastardo, ma pareva lui il padrone della compagnia. Portava alle corse due puledri domati da lui, perchè fa anche il domatore, per divertirsi, e vinse i premi. Andrea era allegro, in nostra compagnia, e rideva con noi come un fanciullo. E al ritorno ci pregò di passare nel suo stazzo, io e mia madre, e Bakis Zanche ci accolse con festa. Un servo aveva la fisarmonica ed io suonai, nel cortile. Andrea mi sedeva accanto, mentre zio Bakis scherzando ballava con zia Zizza, lui come un gigante, lei come una nana. I servi ridevano: ma Andrea mi guardava, pallido, con gli occhi pieni di lagrime. Mi misi a piangere anch’io, mentre pure suonavo, e le lagrime mi cadevano sui tasti. Così egli poi, mi disse che mi amava, ed io promisi di sposarlo. Zio Bakis venne a fare la sua domanda prima che Andrea partisse per il servizio militare. Adesso la gente mormora; dicono che io sposerò Andrea per la sua roba... Ma io voglio rendergli la sua parola, perchè non so fingere, perchè è vero che non lo amo... perchè se sono costretta a fingere mi sento soffocare come se un malfattore mi aggredisca mettendomi una maschera sul viso...
Il fraticello non pareva sorpreso: sollevò il viso, la guardò precederlo sempre rapida e lieve, guardò il cielo tutto d’oro sopra i monti violetti, riabbassò gli occhi chiudendoli come abbagliato dalla luce.
— Vittoria, figlia d’oro, — disse piano — sì, bisogna vivere senza maschera.
Ella si volse di botto, lo fissò ansando lievemente; parve volesse parlare ancora, ma d’improvviso si chiuse i lembi della gonna sul viso, come per nascondersi, per raccogliersi in sè, e riprese a camminare più in fretta.
La gobbina li raggiunse presso lo stazzo Zoncheddu.
— Ebbene, a momenti mia sorella Pietrina mi bastona, lei così tranquilla. Non voleva che Vittoria venisse allo stazzo, Dio sa perchè! Ma come corri, Vittoria, cuor mio! Sei come la fiamma; vai per la tua strada e non ti importa di nulla.
Vittoria infatti correva, precedendoli sempre; arrivata al piccolo cancello di rami che si apriva sul sentiero assiepato nello stazzo Zoncheddu, sventolò un fazzolettino rosso che poi arrotolò e consegnò ad un ragazzetto scalzo venutole giù incontro di corsa.
Da quel momento fu più tranquilla; camminò coi compagni e non parlò più. Arrivarono allo stazzo Zanche ch’era già notte: grandi stelle brillavano sul cielo violaceo e l’odore del cisto dava all’aria una dolcezza voluttuosa; tutto era silenzio intorno alla finestruola illuminata del malato, e i servi sedevano anch’essi insolitamente taciturni sotto la tettoia; d’un tratto però l’urlo rauco del cane rosso tornò a riempire d’echi la solitudine.
Invano Pancraziu gli diede un calcio: il cane si leccò la parte dolente ma non smise di abbaiare.
— Chi è? la Morte? — domandò il malato alla vecchia serva, sforzandosi ancora a parlare aspro, sebbene la baldanza solita lo avesse abbandonato e un ansito affannoso gli sollevasse il petto. La febbre cresceva: curva sul lettuccio in disordine zia Sirena sentiva un calore di forno esalare dalle membra di lui rudi ardenti come tronchi accatastati sul focolare.
Ma quando il fruscìo delle vesti di Vittoria attraversò come un soffio la camera e il viso di lei chiuso fra i lembi violetti della gonna si curvò sul letto, tutto intorno parve sollevarsi; la serva si scostò per lasciarle il posto e l’uomo le chiuse la mano nella sua e l’attirò a sè respirando forte come per imbeversi della freschezza di lei.
— Figlia! Figlia! Andrea non è venuto ancora, ma tu sì, ma tu sì! Tu, sì, vuoi bene a zio Bakis... tu, sì, notte di primavera!...
Vittoria si mordeva le labbra per non piangere.
— Zio Bakis mio! Vi credevo guarito, io, se no sarei venuta prima. Mia madre non voleva.
— Che fa quella faina? Siediti, Vittoria; non ti lascio più andare... Sì, adesso guarirò perchè tu sei venuta.
Ella sedette, senza poter liberare la sua dalla mano di lui.
Una gioia febbrile lo agitava: rise, col riso velato del delirio, e disse alla serva:
— Vedi, vecchiona? Ti sei fatta subito gelosa. Che occhi fa! Sì, questa è la piccola padrona e tu devi obbedire a lei e tacere. Adesso va: fa cuocere le uova con le salsiccie, per la nostra padrona. Aspetta; fa cuocere anche un agnello intero, da Pancraziu che lo sa bene: intero, hai capito?
— C’è anche frate Zironi, lo volete? — domandò Vittoria sottovoce.
— Che me ne faccio di frate Zironi, se ci sei tu? Va! — gridò alla serva irritandosi.
Rimasero soli; ma Vittoria aveva paura e il calore che la mano di lui le comunicava la faceva sudare.
— Andrea non arriva! Neppure la disciplina militare gl’insegna l’obbedienza. Ma tu lo sgriderai, tu che hai la testa ferma e il cuore profondo... Io farò il testamento e lascerò tutto a te... perchè tu sarai la padrona vera... la colonna della casa...
Vittoria chinò il viso sulla mano di lui e si mise a piangere; ma egli si sentì come rinfrescato da quelle lagrime che credeva di riconoscenza e d’amore, e balbettando si assopì.
Allora Vittoria piano piano, aiutandosi con l’altra mano, si liberò dalla stretta di lui e si alzò cauta; quando fu sull’uscio si volse per assicurarsi che egli dormiva e attraversò di corsa l’andito come fuggendo: ma rientrata nella cucina fu ripresa dal senso della realtà: no, di là non si poteva fuggire; i servi sedevano attorno al focolare e Pancraziu invece dell’agnello arrostiva allo spiedo un formaggello che si gonfiava e si screpolava come una grossa mela rossa; la gobbina scherzava con loro, mentre il frate stanco e mezzo addormentato pregava, coi piedi sulla cenere confusi con le radici di lentischio che alimentavano il fuoco. Il servo anziano diceva:
— Zitti, cristiani. Il cane insiste nell’abbaiare perchè il frate ha con sè l’olio santo per dare l’estrema unzione al malato se si aggrava... Zitti, zitti...
Ma Pancraziu volgeva in beffe anche le cose sante.
— Se egli si addormenta glielo rubo, l’olio santo: mi serve per fare le malìe.
La presenza di Vittoria li fece tacere; e di nuovo un senso di attesa li vinse. Aspettavano, non sapevano che: l’arrivo d’Andrea, l’aggravarsi del malato, un grido, un segno che interrompesse il corso silenzioso del tempo nella solitudine.
*
Vittoria non poteva resistere a questa angoscia: sospirò forte, come desiderosa d’aria, si alzò e uscì nel cortile. La gobbina la seguì; il cane riprese a urlare.
— Andiamo fuori, zia. Mi pare che il cane gridi per noi o annunzi la morte di zio Bakis. Ed io non voglio che muoia adesso... no... no...
— Ebbene, comanda a Dio, tu, se sei brava! Ah, puoi comandare a tutti, ma a quello no.
— Tacete! Non è ora di dire stoltezze, questa — disse Vittoria tremando tutta: e la trasse giù per il sentiero fino allo stradone la cui linea correva chiara come un fiume silenzioso fra il nero delle macchie. La luna spuntava al confine della brughiera e pareva una fiamma nel mare; di contro i monti neri con le loro torri mozze, gli spalti, le muraglie diroccate apparivano ancora più fantastici in quel chiarore, forme di un mondo distrutto; e un senso di morte gravava su tutto il paesaggio: solo segno di vita, Vittoria che camminava agitata, ora curvandosi con disperazione sulla gobbina, ora sollevando il viso come per cercare la vastità del cielo.
— Zia, ho dato il fazzoletto a Mauru, perchè lo portasse a Mikali, per avvertirlo di non andare, stanotte: ma non mi fido. Mikali è pazzo come me e può venire qui, a cercarmi... Sono uscita per vedere... Voi non distinguete nulla? Quella forma nera, laggiù? Ah, se zia Sirena se ne accorge! Mi viene da ridere...
— Non ridere! Altro che ridere! — mormorò la gobbina, che si guardava attorno spaurita. — Ah, Vittoria! Vittoria!
— Ah, Vittoria! Vittoria! — ripetè la fanciulla a sè stessa. — Ah, no, non rido, zia, non rido...
Camminarono ancora, trepide, agitate quasi dallo stesso affanno. La gobbina seguiva Vittoria pronta a vigilarla e a sostenerla, ma sentiva di essere travolta e di non poter nulla contro il destino.
— No, no, zia, sono stanca! — disse Vittoria, sollevando il viso come per parlare alle stelle. — Perchè questo mistero? Io amo Mikali e voglio gridarlo a tutti. Male è fingere, è tradire, come faccio io adesso. Ma sono venuta qui apposta per finire l’inganno: volevo parlare con zio Bakis, stasera, ma egli sta male; ho avuto pietà. Ma tornerà Andrea e lo dirò a lui. Glielo dirò: sì: Andrea, io amo un altro, amo tuo fratello. Perdona, Andrea, ma intendi la verità.
— Taci! Ascolta!
Si fermarono: s’udiva un passo.
— È lui, zia! Io grido, io lo chiamo.
— Taci! E se non è lui?
— E se non è lui che importa? Grido lo stesso, zia. Ho tanta voglia di chiamarlo, anche se è lontano.
— Vittoria, anima mia!
— Sì, grido! Così tutti lo sanno, tutti capiscono che lo amo. Zia, grido...
Ma d’improvviso si piegò, come una foglia al vento, si buttò per terra, si aggrappò alle piccole gambe della donnina.
— Zia, zia, tenetemi: mettetemi la mano sulla bocca. No; zio Bakis può sentirmi, può avere tanto dolore. Non voglio fare del male...
Intanto l’ombra era passata, il rumore spento. La luna saliva tragica e beffarda davanti alle due donne e un fischio scendeva giù dallo stazzo come il sibilo di una freccia.
Vittoria s’alzò e tornarono lassù.
— Padroncina, — le disse Pancraziu, che fischiava davanti al portone — dammi il permesso di uscire: stanotte vado a vedere mia nonna malata.
— Domanderemo a zia Sirena, — rispose Vittoria; ma, sebbene lusingata, la vecchia serva negò il permesso.
— È notte di vigilare, stanotte, non di andare in giro.
I servi sedettero di nuovo davanti al fuoco e Vittoria li stette a guardare come non li conoscesse ancora. Erano tre: Pancraziu piccolo come un fanciullo, coi capelli scuri crespi, le labbra carnose nel viso scarno e maligno; gli altri due grandi e imponenti come apostoli. Uno aveva la barba rossa e gli occhi azzurri di San Matteo, l’altro era calvo con una ghirlandina di riccioli bianchi intorno alla nuca come San Pietro.
L’ora passava. Di là il malato s’era di nuovo assopito e Ignazia, accoccolata sul pavimento, vegliava. Zia Sirena tornò in cucina e disse:
— Preghiamo.
Sedette fra San Pietro e San Matteo e le righe della sua gonna rosseggiarono come striscie di sangue al chiarore del fuoco. Il frate dormiva: Pancraziu gli toccò il piede con la paletta e disse:
— Ohè, frate, preghiamo.
— Padre nostro che sei nei cieli, — cominciò allora la vecchia serva, curvandosi a guardare il fuoco — sia santificato il nome tuo, venga a noi il regno tuo, sia fatta la volontà tua come in cielo così in terra. Dà a noi oggi il nostro pane quotidiano e rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori; non c’indurre in tentazione, ma liberaci dal male, così sia.
E d’un tratto si sollevò e guardò Vittoria. E finito il rosario, Vittoria uscì di nuovo nel cortile e sedette sulla panchina accanto alla finestra. La luna era già sopra il tetto, il portone chiuso; anche il cane taceva. Ella aspettava ancora, ma sentiva che non era l’attesa grande degli altri, la sua; gli altri, sebbene servi, erano più fedeli di lei in quella casa ove ella era già la padrona.
— Ecco, — pensava — qui, proprio qui stava Marianna Zanche con l’amante quando il marito li sorprese. Egli spiava di lassù, dove adesso spunta la luna. Dio, Signore, Signore grande! — Rivedeva la scena, sentiva l’urlo dell’uomo ferito.
— Con un servo si è messa! Con un servo, anima mia! Doveva essere ben disperata, doveva soffocare, qui, senza amore... Ah, meglio morire che vivere senza amore... meglio morire che fingere. Mikali, anima mia...
Con le mani strette intorno alle ginocchia, piegata dalla sua passione, si cullava un poco come fanno le donne nei loro canti funebri; e sentiva infatti come un grido di morte attraversare la notte soave, una voce che la richiamava dal suo sogno di sangue e di amore: ah, era il maledetto cane rosso che abbaiava contro di lei con gli occhi luccicanti nell’ombra.