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— Bene — disse il frate, rimettendo la fisarmonica sul davanzale. — A me il vento ha rovinato tutto. I piselli son fioriti ma piangono; e i cardi, poveretti loro, bruciati senza sole. Se tua madre mi regalasse un po’ di pianticelle di lattuga?
— Non ve lo garantisco, cuor mio! Ne è così gelosa! Vuol più bene al suo orto che a me. Bevete, para — ella disse tornando in cucina col vino. — Bevete, Dio vuole. Dio è buono, vero? Voi lo conoscete meglio di me. Dio perdona, quando non facciamo il male. Che ne dite?
E come egli la guardava fisso, ella ne sostenne lo sguardo con gli occhi spalancati, con le pupille che si dilatavano e si restringevano come per un senso di paura; pareva volesse dirgli: sì, discendete in fondo all’anima mia, — ma col terrore ch’egli lo facesse.
— È da tanto che non ci vediamo — riprese abbassando la voce. — L’estate scorsa venivate spesso, ricordo, stavate qualche sera con noi, lì al fresco, ed io suonavo. Bei tempi, para! Venivano le donne dal paese e anche dallo stazzo Zoncheddu; persino Mikali Zanche, veniva... Che allegria, allora! Mi pare siano trascorsi cento anni... Perchè mi guardate così, cuore mio? Che avete fatto voi tutto l’inverno, solo lassù? Anche a me piacerebbe vivere così in un convento, sola, e pregare, pregare, e patire, patire, patire, perchè i nostri peccati sono grandi, frate Zirò, e noi non abbiamo paura della morte, frate Zirò.