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— Speravo non occorresse far tornare Andrea. Verrò io, adesso, appena mia zia Zizza torna dalla fonte. Venite, vi darò da bere.
La cucina era pulita e in ordine come una stanza da ricevere: una sacra immagine nera su fondo d’oro stava attaccata allo sportello dell’armadio; una pianticella di clematide si arrampicava all’inferriata della finestruola nel cui sfondo, fra l’ondulare argenteo del campo di fave, i fiori dei giaggioli brillavano come vasetti di cristallo viola.
E sul davanzale interno della finestra una fisarmonica rossa e verde coi tasti simili a bottoni d’argento ricordava al frate una sera di estate in cui aveva sentito Vittoria, seduta sul limitare della porta, suonare lo strumento facendolo vibrare come un’anima in passione. Fin dallo stazzo Zoncheddu là in fondo al sentiero i ragazzi erano corsi ad ascoltare; e gli uomini che tornavano dal lavoro e i pastori fra le greggie in riva al torrente, e persino i cespugli intorno parevano vinti dall’incantesimo che si spandeva con la melodia appassionata e nostalgica, così violenta di gridi, di lamenti, di gemiti, d’invocazioni e di pianto, ma il tutto come coperto da uno scroscio eguale sempre uguale d’acqua che smorzava ogni cosa.
E prese in mano lo strumento che gli sembrava una scatola magica sigillata d’argento, mentre Vittoria gli diceva dalla stanzetta attigua:
— Mia madre è sempre là, nel nostro orto dietro il paese: lo coltiva da sè, e torna a casa solo la sera. È una vera passione, la sua.