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lare con zio Bakis, stasera, ma egli sta male; ho avuto pietà. Ma tornerà Andrea e lo dirò a lui. Glielo dirò: sì: Andrea, io amo un altro, amo tuo fratello. Perdona, Andrea, ma intendi la verità.

— Taci! Ascolta!

Si fermarono: s’udiva un passo.

— È lui, zia! Io grido, io lo chiamo.

— Taci! E se non è lui?

— E se non è lui che importa? Grido lo stesso, zia. Ho tanta voglia di chiamarlo, anche se è lontano.

— Vittoria, anima mia!

— Sì, grido! Così tutti lo sanno, tutti capiscono che lo amo. Zia, grido...

Ma d’improvviso si piegò, come una foglia al vento, si buttò per terra, si aggrappò alle piccole gambe della donnina.

— Zia, zia, tenetemi: mettetemi la mano sulla bocca. No; zio Bakis può sentirmi, può avere tanto dolore. Non voglio fare del male...

Intanto l’ombra era passata, il rumore spento. La luna saliva tragica e beffarda davanti alle due donne e un fischio scendeva giù dallo stazzo come il sibilo di una freccia.

Vittoria s’alzò e tornarono lassù.

— Padroncina, — le disse Pancraziu, che fischiava davanti al portone — dammi il permesso di uscire: stanotte vado a vedere mia nonna malata.

— Domanderemo a zia Sirena, — rispose Vittoria; ma, sebbene lusingata, la vecchia serva negò il permesso.