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— Si direbbe che tu mi fai una predica! — egli disse, restituendole il bicchiere. Ed ella rise, gettandosi sulla testa una gonna a modo di scialle, e guardandosi nel vetro della sacra immagine.
Ombre e luci passavano sul suo bel viso di oliva; si volse e sorrise al frate come volesse tentarlo, poi uscì fuori e guardò di qua e di là, frugandosi in tasca e toccandovi dentro qualche cosa che doveva pungerla perchè una contrazione di dolore la costringeva a morsicarsi il labbro inferiore.
D’un tratto balzò dallo scalino della porta e volò incontro alla zia nana e gobba sotto la gonna nera buttata sul capo, che veniva su dal campo con un’anfora di acqua. Il frate s’alzò e le vide confabulare sottovoce: Vittoria, alta come la zia con l’anfora sul capo, le aveva afferrato le braccia e la teneva immobile; la gobbina accennava di no, di no, col visetto fino di cammeo ove brillavano due strani occhi rotondi, uno nero l’altro verde; finalmente parve convinta perchè si lasciò portare via l’anfora e tornò indietro: e Vittoria chiuse la porta, mise la chiave sotto una pietra e disse al frate:
— Andiamo. Zia Zizza va ad avvertire mia madre, poi ci raggiungerà. — E precedendolo cominciò a parlare, a parlare, come eccitata da un bisogno prepotente di confidarsi con qualcuno.
— Tutti dicono che io sposerò Andrea Zanche per la sua roba; ma non è vero, vi giuro in mia coscienza, frate Zirò, quando io l’ho