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Ella si volse di botto, lo fissò ansando lievemente; parve volesse parlare ancora, ma d’improvviso si chiuse i lembi della gonna sul viso, come per nascondersi, per raccogliersi in sè, e riprese a camminare più in fretta.
La gobbina li raggiunse presso lo stazzo Zoncheddu.
— Ebbene, a momenti mia sorella Pietrina mi bastona, lei così tranquilla. Non voleva che Vittoria venisse allo stazzo, Dio sa perchè! Ma come corri, Vittoria, cuor mio! Sei come la fiamma; vai per la tua strada e non ti importa di nulla.
Vittoria infatti correva, precedendoli sempre; arrivata al piccolo cancello di rami che si apriva sul sentiero assiepato nello stazzo Zoncheddu, sventolò un fazzolettino rosso che poi arrotolò e consegnò ad un ragazzetto scalzo venutole giù incontro di corsa.
Da quel momento fu più tranquilla; camminò coi compagni e non parlò più. Arrivarono allo stazzo Zanche ch’era già notte: grandi stelle brillavano sul cielo violaceo e l’odore del cisto dava all’aria una dolcezza voluttuosa; tutto era silenzio intorno alla finestruola illuminata del malato, e i servi sedevano anch’essi insolitamente taciturni sotto la tettoia; d’un tratto però l’urlo rauco del cane rosso tornò a riempire d’echi la solitudine.
Invano Pancraziu gli diede un calcio: il cane si leccò la parte dolente ma non smise di abbaiare.
— Chi è? la Morte? — domandò il malato