Le Troadi/Secondo episodio

Secondo episodio

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Si vede giungere un carro, e sopra Andromaca col figlio
Astianatte. Accanto a lei le armi di Ettore ed altre armi
predate ai Troiani.

corifea
A noi giunge, vedi, Ecuba, tratta
sopra un cocchio degli Èlleni, Andromaca.
Sul suo sen tutto palpiti, è il figlio
d’Ettore, Astïanatte. O infelice,
dove mai, di quel carro sul dorso
tratta sei, presso all’armi di bronzo
del tuo sposo, e alle spoglie dei Frigi
predate con l’armi,
onde il figlio d’Achille farà,
tornato da Troia, ghirlanda
ai templi di Ftia?

Strofe I
andromaca
Mi traggono i miei — signori: gli Achei.
ecuba
Ahimè!

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andromaca
                                Qual peana tu plori...
ecuba
Ahimè!
andromaca
                                        pei miei dolori...
ecuba
O Dio!
andromaca
                                        per la trista mia sorte?
ecuba
O figli!
andromaca
                                             Siam giunti alla morte.
ecuba

Antistrofe I
Distrutta è Troia, — distrutta è la gioia.
andromaca
Tapina!

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ecuba
                                   O miei figli fiorenti!
andromaca
Ahi ahi!
ecuba
                                                            Ahi che tormenti...
andromaca
m’angosciano!
ecuba
                                             O trista fortuna...
andromaca
di Troia...
ecuba
                                   che in cenere fuma!
andromaca
Strofe II
Vieni, o mio sposo, vieni.
ecuba
Il figlio mio, che posa
nell’Ade invochi, misera!

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andromaca
Soccorri la tua sposa.
ecuba
Antistrofe II
E tu, scorno degli Èlleni...
ecuba
e tu, vegliardo Priamo,
andromaca
tu, de’ miei figli padre...
guidami giú nell’Ade.
andromaca
Grandi son tali brame.
ecuba
                                   Grandi, o misera, i nostri dolori.
andromaca
Caduta è la città.
ecuba
                                   Sopra doglie s’aggravano doglie.

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andromaca
Per il corruccio dei Numi, poiché a morte sfuggiva il tuo figlio,
che per un letto odioso distrusse la rocca di Troia.
Presso Pallade stese, preda ai vulturi, stanno le salme
sanguinolente. Il giogo servile egli a Troia acquistò.
ecuba
O patria sventurata.....
andromaca
                                mentre io t’abbandono, ti piango.
ecuba
Vedi or la misera fine.....
andromaca
                                   e la casa ove madre io divenni.
ecuba
Deserta è Troia: o figli, la madre da voi si separa.
O quanto il mio tormento, o quale il mio canto di doglia!
Or nella nostra casa su lagrima lagrima stilla.
Ma piú non versa pianto chi, spento, dimentica i crucci.

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corifea
Come son dolci, a chi soffre, le lagrime,
e i tristi canti delle nenie, e i gemiti!
andromaca
Madre dell’uom che tanti Argivi spense,
vedi queste sciagure, o madre d’Ettore?
ecuba
L’opere vedo dei Celesti, come
esaltano i da nulla, e i grandi abbattono.
andromaca
Preda son tratta con mio figlio. Fui
nobile, e schiava son: mutò mia sorte.
ecuba
Terribile è il destino: or or Cassandra
fu da me lungi trascinata a forza.
andromaca
Ahi ahi!
Un altro Aiace, a quel che dici, apparve
per la tua figlia e mali altri ti premono.

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ecuba
Mali senza misura e senza numero,
che l’uno contro l’altro a gara vengono.
andromaca
Polissena tua figlia, fu sul tumulo
spenta d’Achille, offerta a salma inanime.
ecuba
Ecco, misera me, ciò che Taltibio
in via d’enigma, e non chiaro, mi disse.
andromaca
La vidi io stessa; e giú dal carro scesi,
di pepli la coprii, la salma piansi.
ecuba
Ahi scellerato sacrificio! Ahi ahi
figlia, quanto la morte tua fu trista!
andromaca
Fu quale fu la morte sua; ma pure
miglior destino ebbe di me, che vivo.

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ecuba
Non son tutt’uno vivere e morire.
La morte è il nulla; ma chi vive spera.
andromaca
Non son le tue parole ineccepibili,
o madre. Odimi e in cuor qualche sollievo
accoglierai. Morire e non esistere
la stessa cosa, dico io, sono; e meglio
vale morir, che turpemente vivere.
Niun male sente e niun dolore un morto;
ma chi, beato un dí, piomba in miseria,
l’alma si danna, ripensando al tempo
della ventura. Polissena, come
se mai la luce vista non avesse,
è spenta, e nulla piú sa dei suoi mali.
lo, che alla buona fama ebbi la mira,
poi che l’ottenni, tanto piú frustrata
fui da fortuna. Quante si registrano
femminili virtú, tante solevo
esercitarne nella casa d’Ettore.
E prima, i luoghi ove una donna, solo
con la presenza, o buono o tristo sia
il suo contegno, mal nome s’attira,
io ne scacciai la brama, e in casa stetti.
E in casa non lasciai che penetrassero
le adorne ciance femminili; e il senno
maestro ottimo avendo, a me bastai.
E sereno lo sguardo e muto il labbro
al mio sposo offerivo; e ben sapevo

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quando io dovessi averla vinta, e quando
la vittoria lasciare a lui dovessi.
E questa fama, degli Achivi giunta
all’esercito, me trasse a rovina:
ché, poi che presa io fui, d’Achille il figlio
sposa mi volle avere; e nella casa
degli assassini nostri io sarò schiava.
Or, s’io da me respingo il caro volto
d’Ettore, e schiudo al nuovo sposo l’anima,
trista al defunto sembrerò: se l’odio,
odiata sarò dai miei signori.
Dicono, è vero, che una notte basta
l’odio a placare che una donna nutra
per il letto d’un uom; ma quella femmina
che il primo sposo per un nuovo talamo
repudia, ed ama un altro, io l’aborrisco.
Sin la puledra, dalla sua compagna
separata, a malgrado il giogo soffre;
e un bruto è pur, senza parola od uso
di senno, e inferiore è per natura.
E sposo qual bramavo, Ettore, io t’ebbi,
per nobiltà, per senno, per ricchezza,
per insigne valore. E intatta dalla
casa del padre tu m’avesti, e primo
nel mio virgineo letto entrasti. E adesso
tu sei caduto, ed io, sopra un battello,
tratta a giogo servil sarò ne l’Ellade.
Mal minore non trae seco la morte
di Polissena, che tu piangi? A me
nemmeno resta la speranza, l’ultimo
ben di tutti i mortali; e non m’illudo
d’aver mai bene; eppur, soave è illudersi..

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coro
Siam di sciagura al punto istesso; e conscia
dei miei cordogli il gemer tuo mi rende.
ecuba
Mai non entrai nei fianchi d’una nave,
ma per udita so, dipinto vidi
come i nocchieri, quando affrontar debbono
men tremenda tempesta, ogni lor zelo
impiegano a salvarsi; e al timon questi
corre, e un altro alle vele, e fa riparo
dall’acqua un terzo alla sentina. Ma
quando troppo sconvolto il pelago estua,
s’abbandonano all’impeto dei flutti,
s’affidano alla sorte. Anche io cosí,
da tanti mali oppressa, muta resto,
cedo senza parlar: ché mi soverchia
dei mali il flutto onde gli Dei m’opprimono.
     Ma tu, figlia diletta, al suo destino
Ettore lascia: richiamarlo in vita
non potranno le tue lagrime: onora
il tuo nuovo signore, e la lusinga
cara offri a lui dei tuoi costumi: lieti
con ciò tu renderai tutti gli amici,
e di mio figlio il figlio alleverai,
grande conforto a Troia, ove i suoi figli
d’Ilio possano un dí novellamente
le mura alzare, e la città risorga.
Ma nuova a nuova s’avvicenda. Quale
famulo degli Achei vedo, che nuovi
divisamenti reca, e a noi s’appressa?

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Giunge Taltibio.
taltibio
Non volermi odïare, o sposa d’Ettore,
del piú prode tra i Frigi: a mal mio grado
giungo, dei Dànai nunzio e dei Pelòpidi.
andromaca
Che c’è? Sciagure il tuo preludio annunzia.
taltibio
Deciso han che tuo figlio..... Oh come dirlo!
andromaca
Ch’abbia un altro padrone, e non il mio.
taltibio
Niun degli Achivi sarà suo padrone.
andromaca
Lo lascieran dei Frigi qui superstite?
taltibio
Blande parole a dirti il mal non trovo.

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andromaca
Ti approvo, sol che un mal tu non m’annunzi.
taltibio
Un male, e grande: uccideran tuo figlio.
andromaca
Ahi, male delle nozze anche maggiore!
taltibio
Convinse Ulisse l’assemblea, dicendo.....
andromaca
Ahimè dolor ch’ogni misura supera 1
taltibio
che sconvien d’un tal padre il figlio vivere,
andromaca
Sui figli suoi ricada un tal giudizio!
taltibio
e che bisogna giú scagliarlo dalle
torri di Troia. E tu non far contrasto,

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e non serrarti al figlio; e i tuoi tormenti
nobilmente sopporta. Alcun soccorso
tu qui non hai. Considera. Perduto
hai lo sposo e la patria, e schiava sei;
e noi capaci siamo di combattere
contro una donna sola. Ond’io t’esorto
che tu lite non cerchi, e non commetta
atto veruno indecoroso o basso,
e neppure agli Achei scagli rimproveri.
Ché, se tu dici motto onde l’esercito
s’adiri, privo resterà di tomba,
di nenie, il figlio tuo: se muta, in pace
sopporterai le tue sciagure, il figlio
non lascierai senza sepolcro, e piú
benigni a te ritroverai gli Achivi.
andromaca
○ carissimo, o tu sopra ogni cosa
adorato figliuolo, or la tua madre
misera lascierai, morrai per mano
dei tuoi nemici; e ucciso la grandezza
di tuo padre t’avrà che agli altri suole
recar salute; e fu quel suo valore
per te retaggio inopportuno. O letto
mio sventurato, o nozze, o casa d’Ettore,
dove un giorno entrai sposa, e non perché
vittima un figlio procreassi ai Dànai,
ma un sovrano alla fertile Asia. O figlio,
tu piangi: intendi la sciagura tua?
Perché t’afferri con le mani a me,
stringi le vesti mie, come augelletto
ripari sotto l’ali mie? Dal suolo

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Ettore fuor non balzerà, stringendo
la sua lancia tremenda, a tua salvezza,
non del padre i parenti, e non la forza
dei Frigi: un salto luttuoso, senza
pietà, col capo in giú, spiccar dovrai,
spirar l’alito estremo. O dilettissimo
tenero amplesso per la madre, o dolce
fragranza delle membra! Invano, dunque,
te nelle fasce il sen mio nutricò,
invan mi travagliai, mi macerai
nelle fatiche! Or, la tua madre abbraccia,
ché piú non lo potrai, sèrrati a me
che t’ho concetto, al collo mio le braccia
serra, la bocca alla mia bocca stringi.
○ inventori di pene orride, o Ellèni,
questo fanciullo, d’ogni colpa scevro,
perché mai l’uccidete? O tu, germoglio
di Tíndaro, non sei figlia di Giove,
ma molti i padri tuoi furono. Primo
lo Sterminio, poi l’Odio, l’Assassinio,
l’Invidia, e quanti orror nutre la terra.
Mai non dirò che t’ha concetta Giove,
Parca funesta a tanti Ellèni e barbari.
A te la morte: ché coi tuoi bellissimi
occhi, a turpe rovina hai sterminati
gl’incliti campi della Frigia. Su,
se scagliar lo volete, giú dai muri,
prendetelo, portatelo, scagliatelo,
le sue carni cibate: i Numi vogliono
la mia rovina, e allontanar la morte
da mio figlio non posso.
Consegna il fanciullo reluttante a Taltibio.

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                                                            Or nascondete
questo misero mio corpo, gittatelo
dentro la nave. Ad un soave imene,
or che perduto ho il mio figliuolo, io muovo!
Il carro la trascina via.
coro
Mille e mille hai perduto, o Troia misera,
per una donna e un odioso talamo.
taltibio
○ fanciullo, su, dunque, l’amplesso
della misera madre abbandona,
e t’avvia delle torri paterne
verso l’alta ghirlanda: sentenza
fu che quivi esalare lo spirito
tu dovessi... Prendetelo. Oh, simili
ambasciate affidar si dovrebbero
ad un uom d’impudenza piú amico
ch’io non sia, che pietà non conosca.
c|Parte, coi soldati che portano via Astianatte.}}
ecuba
○ fanciullo, o figliuolo del mio
sventurato figliuolo, ci rubano
la tua vita, a tua madre ed a me,
empiamente. Che cosa farò?
Come posso, tapina, soccorrerti?

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Questi colpi che vibro al mio capo,
t’offro, queste percosse al mio seno,
questo solo or posseggo. Oh città,
oh fanciullo infelice! E che manca,
che s’aspetta, perché sia completa
la rovina in cui tutti crolliamo?
Cade nuovamente prostrata al suolo.