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Ettore fuor non balzerà, stringendo
la sua lancia tremenda, a tua salvezza,
non del padre i parenti, e non la forza
dei Frigi: un salto luttuoso, senza
pietà, col capo in giú, spiccar dovrai,
spirar l’alito estremo. O dilettissimo
tenero amplesso per la madre, o dolce
fragranza delle membra! Invano, dunque,
te nelle fasce il sen mio nutricò,
invan mi travagliai, mi macerai
nelle fatiche! Or, la tua madre abbraccia,
ché piú non lo potrai, sèrrati a me
che t’ho concetto, al collo mio le braccia
serra, la bocca alla mia bocca stringi.
○ inventori di pene orride, o Ellèni,
questo fanciullo, d’ogni colpa scevro,
perché mai l’uccidete? O tu, germoglio
di Tíndaro, non sei figlia di Giove,
ma molti i padri tuoi furono. Primo
lo Sterminio, poi l’Odio, l’Assassinio,
l’Invidia, e quanti orror nutre la terra.
Mai non dirò che t’ha concetta Giove,
Parca funesta a tanti Ellèni e barbari.
A te la morte: ché coi tuoi bellissimi
occhi, a turpe rovina hai sterminati
gl’incliti campi della Frigia. Su,
se scagliar lo volete, giú dai muri,
prendetelo, portatelo, scagliatelo,
le sue carni cibate: i Numi vogliono
la mia rovina, e allontanar la morte
da mio figlio non posso.
Consegna il fanciullo reluttante a Taltibio.

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