Le Mille ed una Notti/Storia di Dgerberi il Facchino
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Traduzione dall'arabo di Antoine Galland, Eugène Destains, Antonio Francesco Falconetti (1852)
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STORIA
DI DGERBERI IL FACCHINO.
— Eravi in Bagdad un lapidario di nome Abdullata Dgerberi, che aveva un unico figlio, al quale fece dare la miglior educazione. Sentendo avvicinarsi l’angelo della morte, Abdullah fece venire il figlio, oggetto della sua tenerezza, per abbracciarlo, ed ebbe ancora il tempo di dargli qualche consiglio, di cui credeva avesse bisogno la sua giovinezza. Dopo avergli istantemente raccomandato di non mai discostarsi dai precetti della religione, lo scongiurò soprattutto di non pensare il dì prima a ciò che doveva fare il domani. Morì abbracciando il figliuolo, che non aveva ’ancora compiti vent’anni.
«Il giovine Dgerberi non conservò a lungo il dispiacere che avrebbe dovuto provare per la morte del genitore. Senza contare i mobili e le case ereditate, trovò nel sotterraneo della sua dimora cinquecentomila zecchini contenuti in cinquanta vasi di porfido. Questa somma parve i tesori dell’India ad un giovine che non aveva idea alcuna delle ricchezze, e si abbandonò ad ogni sorta di spese. Aquistò donne pe’ suoi piaceri, e volle che fossero vestite con magnificenza; e tenne tavola aperta per tutti i giovani della sua età, i quali facevangli un’assidua corte, adulando la sua vanità, cogli elogi che prodigavano alla sua liberalità, alla sua musica, alla bontà de’ suoi vini ed alla delicatezza della sua tavola.
«Una tal condotta dissipò in breve la ricca eredità. Quand’ebbe venduti i vasi, alienò le case di città e di campagna, conservando le donne più a lungo che gli fu possibile; ma infine fu costretto a disfarsene per pagare i debiti, perchè amava la giustizia non voleva rendere alcuno vittima delle sue pazze spese e del credito accordatagli.
«In poco tempo si trovò dunque senza beni, e per conseguenza senza amici. Per fortuna, la natura avevalo dotato d’una forza e d’una salute non alterata dai piaceri; talchè, non avendo altra risorsa, si mise a fare il facchino, e fu in breve preferito a tutti quelli che esercitavano tal professione a Bagdad, a cagione dei pesi enormi che portava, e della intelligenza, probità ed allegria con cui lavorava, perchè al consiglio datogli dal padre di non pensare l’oggi a ciò che doveva fare la domane, egli aggiunse l’abitudine di dimenticare il giorno quanto avea fatto la vigilia. Laonde, in breve potè stimarsi l’uomo più felice della città; il suo lavoro, che faceva volentieri, bastavagli: non dipendeva più dai piaceri ond’era stato schiavo: conosceva la falsità degli amici e la loro ingratitudine: era stimato nella sua professione: non lavorava se non quanto gli bastava per la di lui sussistenza; infine, non aveva moglie, nè figli, e ciò senza dubbio è una vera felicità.
«Tornando una volta, verso mezzanotte, da una casa di campagna, dove aveva portato un collo, sentì, costeggiando le rive del Tigri, una voce femminile uscire dal seno delle acque, che gridava: — In nome di Dio, aiuto!» Il suono di quella voce era sì commovente, che Dgerberi non esitò a spogliarsi e gettarsi nel fiume.»
I primi albori facendosi vedere, la sultana delle Indie rimise alla notte seguente la continuazione del suo racconto.
NOTTE DXLVI
— Egli fu abbastanza fortunato, malgrado la rapidità della corrente, di salvare quella sventurata che stava in procinto di perdere le forze e d’annegarsi. La portò a terra, e quando fu riavuta dallo spavento, quella donna pregollo d’accompagnarla fino alla sua casa, che gl’indicò. Dgerberi vi acconsentì, e giunto alla porta, udì la voce di fanciulli che piangevano, chiamando la madre. Entrati in casa, la donna che aveva salvata gli parve di sorprendente bellezza; ella lo costrinse a sedere, fè accendere fuoco per asciugarsi gli abiti, e gli narrò la sua avventura, interrompendosi sovente per dimostrargli la propria gratitudine.
«— Or son sei mesi,» gli raccontò quella donna, «una vecchia entrò in casa mia, e mi disse: — Io non ho mai mancato di sentire le prediche che si fanno nella grande moschea; ma oggi ebbi alcuni affari che m’hanno impedita di fare la mia purificazione; sapete che non posso entrare nella moschea senza aver compito questo dovere; vi prego di darmi un vaso d’acqua. —
«Le accordai ciò che mi domandava: si purificò, e recatasi alla moschea, venne quindi a ringraziarmi. Io volli trattenerla a pranzo, non potendo far meglio, a mio credere, quanto attirarmi in casa una donna che pareva vivere sì divotamente, ed impegnarla a pregar Dio per mio marito, che trovasi assente. Ma ella rifiutò dicendo; — Figliuola, io pregherò Dio di ricompensarvi del piacere che mi faceste, ma non conviene ad una donna della mia età di mangiare fuor di casa. —
«Dopo avermi colmata di mille benedizioni, partì. Da quel tempo ella è venuta tutti i venerdì a trovarmi all’ora solita. Capitò ier l’altro, e mi disse: — Spesso voi mi avete proposto di passare alcuni momenti con voi; se volete, accetterò stasera il vostro invito, e passeremo poi la notte pregando pel ritorno di vostro marito; ma alla condizione che domani partiremo di buon mattino, e che verrete con me in una casa di campagna, dove si devono faro gli sponsali d’una mia parente; io m’incarico poi di ricondurvi a casa. —
«Accettai la proposta, e partimmo all’alba; trovammo un battello che ci aspettava per farci passare il Tigri, e giunte in un luogo quasi deserto, un vecchio decrepito e mal vestito si presentò al nostro uscire dal battello, e ci condusse in una fattoria, dove trovammo una quindicina di donne. Malgrado la buona accoglienza che mi fecero, quello che vidi m’insospettì e mi persuase che la vecchia avevami ingannata. Le chiesi con inquietudine ove fosse la festa nuziale annunziata; mi rispose che si celebrerebbe alla sera, quando gli amanti di tutte le fanciulle che vedeva fossero arrivati. — Allora,» aggiuns’ella, «noi pranzeremo insieme, beremo del buon vino, e voi sceglierete poi l’uomo che meglio vi gradirà. —
«Non abbisognò di più per farmi travedere l’abisso in cui quella miserabile vecchia avevami trascinata. Pure seppi nascondere il mio terrore, e rivolta a Dio, gli domandai la sua protezione in un sì grave pericolo; questa preghiera dissipò il mio timore, e risposi alla vecchia con intera libertà di spirito: — Vi sono grata d’avermi condotta in un luogo dove troverò maggior piacere che nella mia solitudine.» Quelle parole ingannarono la vecchia, e noi non parlammo, per tutto il giorno, che dei piaceri che avremmo gustati la notte.
«Quando il sole tramontò, vidi arrivare da diverse parti una ventina di ladri, la maggior parte storpii. Essi salutarono la vecchia, e le chiesero perchè fosse stato tanto tempo senza venirli a trovare. Colei scusossi, adducendo le cure ch’erasi data per procurarmi ad essi; poi mi presentò, e tutti convennero che non aveva mai condotta una donna più vezzosa e di loro gusto.
«Si servì la cena, e non mi si diede altro posto se non le ginocchia del capo de’ ladri, su cui mi vidi costretta a sedere. Io non feci difficoltà alcuna, ed adottai anzi d’essere di buon umore; ma era sempre occupata dei mezzi di sfuggire alla sciagura che minacciavano; quando m’accorsi che colui al quale era caduta in sorte, mi credeva invaghita di lui quant’egli di me, finsi d’aver bisogno di uscire. La vecchia prese un lume per condurmi di fuori. — Sapeva bene,» mi disse, «che non sareste stata molto tempo in collera con me; bisogna cominciare coll’adirarsi, è l’uso; ma domani mi ringrazierete vie meglio. —
«Sdegnai risponderle; ma vedendomi abbastanza lontana dalla casa per seguire il disegno che meditava, trovai il mezzo di spegnere il lume come per caso, e la pregai d’andar a riaccenderlo: ella v’acconsenti. Allora mi misi a correre verso il luogo dove eravamo sbarcati; non vi era ancora, giunta, che udii la voce di parecchi di quei miserabili che m’inseguivano, chiamandomi, e dicendo non essere così facile lo sfuggire dalle loro mani. Quelle parole raddoppiarono il mio terrore; mi volsi a Dio in quel terribile frangente, e gli dissi: — Dio mio, voi conoscete l’onestà del mio cuore; preferisco una morte violenta, ma virtuosa, alle dolcezze d’una vita infame. —
«Ciò detto, chiusi gli occhi, e trovandomi sulla sponda, mi precipitai nel fiume: voi mi avete intesa; e Dio si è servito del vostro mezzo per salvarmi. Non dimenticherò mai il servizio che mi rendeste, ed avrò per voi il medesimo rispetto che professo per mio padre. —
«Poscia la donna gli regalò un magnifico tappeto e cento zecchini, dicendo essere ben afflitta di non potergli offrire di più. Dgerberi accettò il solo tappeto, assicurandola ch’era troppo lieto che Iddio avesselo scelto per un’opera sì buona, e partì.
«Dgerberi era di tal forza, ed il lavoro aveala tanto accresciuta, che i facchini di Bagdad, dolenti di vedere ch’egli solo faceva più di tutti loro insieme, e che gli avventori aspettavano piuttosto che prenderne un altro, deliberarono d’andarlo a trovare, e gli dissero: — Dgerberi, vuoi tu non lavorar più, e passare la vita nel riposo? noi ci impegniamo a pagarti dieci aspri (1) al giorno. —
«Il giovane acconsentì, ed i facchini furono esatti a pagargli la somma; egli visse tranquillamente, e mantenne dal proprio canto la parola data. Ma l’ozio snervò le sue forze; il suo temperamento si alterò, e ne cadde ammalato. Siccome non aveva mai pensato al domani, fu in breve ridotto alla miseria, ed i facchini, vedendolo così debole, ricusarono di passargli il solito assegnamento.
«Nella sua disgrazia, egli ricorse a Dio. Mentre dormiva, gli apparve il santo Profeta, e gli disse: — Dgerberi, tu non sei infermo se non per non aver continuato ad impiegare le tue forze, dandone le debite lodi a Dio; umiliati, lavora, e le ritroverai.» Nello stesso punto il suo cuore fu tocco, e si sentì guarito; ma era ancora troppo debole per riprendere la sua professione coll’eguale profitto di prima, e soprattutto per vendicarsi dei facchini.
«Stava un giorno seduto davanti alla porta del palazzo del gran visir, quando una donna piangente venne a’ suoi fianchi per aspettar l’ora dell’udienza di quel ministro; Dgerberi le domandò la causa delle sue lagrime. — Ah!» disse colei, «ieri hanno assassinato mio figlio; egli è venuto a cadere dinanzi la mia porta, trafitto di molte ferite, ed è morto senza aver avuto il tempo di pronunciare il nome del suo assassino: era il mio unico sostegno; io vengo a pregare il visir di far ritrovare il suo uccisore, per non lasciarne almeno invendicata la morte.
«— Avete qualche schiarimento da dargli?» soggiunse il giovane.
«— Aimè! no, e ciò raddoppia il mio dolore. Io sono vedova d’un mercante: mio figlio era giovine e sperava che fosse stato il mio appoggio. Il visir mi risponderà, senza dubbio, che in una città, sì grande come Bagdad è difficile scoprire l’omicida d’un uomo, se non puossi dargli qualche schiarimento.
«— Ascoltatelo col rispetto dovuto alla sua dignità,» rispose il giovane; «ma se non trova il mezzo di contentarvi, ditegli che se Dgerberi il facchino fosse visir, saprebbe ben egli trovar l’assassino di vostro figlio. —
«La madre desolata non contò molto su d’un sì debole soccorso; pure ringraziollo. Tutto ciò ch’essi avevano preveduto accadde; il visir medesimo, stanco delle lagrime di quella donna, ordinò di farla uscire; allora essa, cadendo ai suoi piedi, gli disse: — Signore, degnatevi consultare Dgerberi il facchino, ed io conoscerò l’uccisore di mio figlio. — Almeno è uno schiarimento che mi dai; l’accusi dunque d’aver assassinato tuo figlio? — No, signore,» rispose la donna, «ma egli mi disse che, se fosse visir, saprebbe trovare il mezzo di scoprire l’assassino. — «Il visir, voltosi a’ suoi ufficiali, ordinò loro d’andar subito a cercare quest’uomo sì destro, e condurlo alla sua presenza, aggiungendo che, se non manteneva la parola, l’avrebbe punito in modo da guarirlo della sua presunzione.»
NOTTE DXLVII
— Gli uffiziali non impiegarono gran tempo a condurre Dgerberi al cospetto del visir. — Conosci tu questa donna?» diss’egli al facchino. — No, signore,» rispose il giovane. — Conoscevi dunque suo figlio? — Ancor meno. — Hai qualche cognizione del suo uccisore? — Nessuna. — Come vuoi dunque ritrovarlo?» chiese il visir con impazienza. — Se avessi la vostra autorità,» rispose Dgerberi con fermezza, «domattina saprei chi è l’individuo che ha ucciso il figlio di questa donna. Io te la concedo,» soggiunse il visir, «sino a quel punto, e potrai ordinare quanto ti parrà meglio; ma se non riesci, ti farò dare cinquecento colpi di bastone. — Acconsento,» rispose il facchino.
«Dgerberi ordinò allora ad un ufficiale di giustizia, di recarsi alla moschea più vicina alla dimora della desolata madre, e di giungervi verso il tramonto del dì, per aspettarvi alla porta il muezin, che grida sul minareto, coll’ordine di dargli, uscendo, alcuni schiaffi, legargli le mani e condurglielo davanti. L’ufficiale eseguì esattamente gli ordini di Dgerberi.
«Quando il muezin fu in sua presenza, gli chiese scusa di averlo fatto maltrattare, e volle dargli in dono dieci zecchini per consolarlo; poi fece uscire ognuno, ed ingiunse al muezin di dire a tutti quelli che gli domandassero il motivo del suo arresto, di essere stato preso per un altro; gli raccomandò inoltre istantemente di chiamare alla preghiera durante la notte, scendendo tosto dal minareto per rispondere a quelli che vorrebbero sapere perchè avesse chiamato in un’ora sì indebita, coll’ordine di notar bene colui che pel primo gli volgesse tale domanda.
«Il muezin si ritirò contentissimo, e fece quanto eragli stato imposto. Aveva appena chiamato alla preghiera, che un giovine accorse a domandargli perchè fosse stato arrestato il giorno prima. Il muezin rispose semplicemente che l’avevano preso per un altro.
«Quando si rese conto a Dgerberi dell’accaduto, mandò a prendere il giovane che aveva dimostrata tanta curiosità, e fecegli dare una sì violenta bastonata, che confessò, coi più piccoli dettagli, in qual modo avesse assassinato il misero figlio della vedova. Aggiunse che il timore di essere scoperto rendendolo attento a tutto ciò che accadeva di straordinario, avevalo indotto a venir ad informarsi perchè si annunciasse la preghiera ad ora sì tarda, sospettando di tutto dopo il commesso delitto.
«Dgerberi, secondo la legge, abbandonò la sorte dell’omicida alla madre dell’ucciso, ed essa ne chiese la morte, che le venne accordata.
«Il visir, colpito dello spirito e del giudizio di Dgerberi, volle conoscerne la storia, e sentitala, quel ministro gli rimproverò d’aver abbracciata una professione sì vile come quella del facchino, e lo determinò ad entrare nelle truppe che il califfo mandava contro i Guebri. Il visir era lieto di parer ricompensare il merito, mentre in realtà allontanava da Bagdad un uomo che il califfo avrebbe potuto avvicinare alla propria persona, se caso mai ne avesse udito parlare.
«Dgerberi fece prodigi di valore nelle sue campagne contro i Guebri; ma fidando troppo nelle proprie forze, fu fatto prigioniero. Mentre i suoi nemici deliberavano sul genere di morte da fargli subire, per vendicarsi dei mali per lui sofferti, egli, dopo aver letto il centoquindicesimo articolo del Corano, infranse le catene, strangolò il carceriere che voleva opporsi alla sua fuga, e nel timore di ricadere nelle mani dei nemici, inoltrossi nei deserti, dove visse assai tempo di frutta e radici; infine, si trovò in una foresta sulla riva del mare, e salì su d’un albero per dormire in sicurezza e guarentirsi dalle bestie feroci.
«Calata la notte, vide uscir dal mare un toro fiero, che mandava muggiti spaventevoli, e che accostossi all’albero sul quale era salito. Osservò che quell’animale lasciossi cadere di bocca una pietra che illuminava la foresta, e servivagli a scegliere le erbe che convenivangli di più, come lo zafferano ed i giacinti.
«Dgerberi, educato in mezzo alle gemme, di cui suo padre aveva fatto grandissimo commercio, non dubitò quello non fosse un vero carbonchio, pietra preziosa e rara di cui aveva sentito spesso parlare, senza averne mai veduto. Colpito dallo splendore e dalla grossezza di questa, quando si riebbe dallo spavento incussogli dal toro, si occupò tosto dei mezzi d’insignorirsi di tanta meraviglia.
«Sorta l’aurora, il toro nero riprese la pietra, e rientrò nel mare. Il nostro avventuriere scese dall’albero, fece la sua preghiera, colse frutti, ne mangiò, e recossi quindi sul lido, ove raccolta un po’ di terra, ebbe cura di portarla sull’albero, sul quale aveva passata la notte. Il toro nero venne come il primo giorno, pose in terra la pietra, e quando fu alquanto lontano per cercarsi il cibo di suo gusto, Dgerberi gettò sulla pietra il fango raccolto. Il toro, non vedendo più luce, si precipitò nel mare, mandando spaventosi muggiti, e Dgerberi s’impadronì del carbonchio, che non aveva eguale.
«Lieto di quella fortuna, non pensò più che a far ritorno in patria. La sorte lo favorì, facendogli trovare una nave che lo condusse sino ad Ormuz; attraversò tutta la Persia, e sapendo che il re di questo paese amava molto le pietre preziose, e ne raccoglieva da tutte le parti dell’universo, si fece presentare al monarca come un uomo che poteva offrirgli il più bel pezzo che in questo genere avesse mai veduto.
«Il monarca stava allora con un gioielliere di Balsora, che facevalo stupire per la quantità, la magnificenza e la beltà delle gemme che gli mostrava. Il re, lieto di poter confondere la vanità d’un mercante, il quale si faceva annunciare in modo sì pomposo, ordinò di farlo entrare appunto nel momento che il negoziante di Balsora presentavagli, in fatto di gioie, quanto credeva esservi di più bello.
«Dgerberi comparve precisamente nel mentre il mercante di Balsora diceva al re: — Vostra maestà non deve meravigliarsi di tutti i capolavori della natura ch’io le presento; quando saprà da qual parte mi sono venuti, la cosa le sembrerà più semplice. —
«Il re avendogli attestato che ascolterebbe con piacere in qual modo avesse adunate tante ricchezze, il mercante riprese la parola, e disse: — Mio padre era povero e pescatore di professione. Noi eravamo un dì con lui, i miei tre fratelli ed io, nel suo battello; gettammo le reti, dopo avere invocato il gran Profeta perchè ci concedesse una pesca favorevole, e fu con infinito stento che le ritirammo, tanto il peso n’era enorme. Finalmente, giungemmo a tirarle a terra, ed alta fu la nostra sorpresa scorgendovi un pesce di figura umana. Mio padre propose di portarlo alla città e mostrarlo per qualche mercede; ma l’uomo marino, dopo averci guardati, quasi ne avesse intesi, si mise, con nostra meraviglia, a favellarci così: — Io sono un abitante delle acque e creatura di Dio come voi; concedetemi la libertà, non abusate del sonno che mi fè cadere nelle vostre reti, e se m’accordate tal grazia, io vi domando pochissimo tempo per portarvi di che arricchire notabilmente. —
«L’uomo marino c’impietosì colle sue preghiere, giurando pel santo nome di Dio che v’erano dodicimila musulmani nel mare, e ch’egli andava ad adunarne gran numero per raccogliere i doni che voleva farci per l’acquistata libertà. Avendo acconsentito alle sue istanze, ci salutò, pregandone di trovarci due giorni dopo al luogo dov’eravamo, e lo vedemmo subito rituffarsi in mare.
«Noi fummo esatti all’appuntamento: l’uomo marino comparve seguito da molti individui della sua specie, i quali avevano anzi l’aspetto d’essere a lui sommessi, carichi di prodigiosa quantità di pietre preziose, che ci furono presentate dall’uomo cui avevamo resa la libertà. Le gemme che vedete, o sire, sono di tal numero. Abbandonammo il nostro mestiere di pescatore, dopo aver collocato nostro padre in modo che nulla gli possa mancare; e diviso tra noi quattro fratelli quanto avevaci dato l’uomo marino, facemmo commercio di gioielli nelle varie città da noi scelte per nostra residenza.
«— La beltà delle pietre prova la verità di questa storia,» riprese il re con ammirazione; poi, volgendosi a Dgerberi, gli disse: — Che rispondi tu a quanto vedesti ed udisti? Senza dubbio l’esame di tante ricchezze t’impedirà di mostrarmi la gemma che m’annunciasti con tanto elogio!
«— Sire,» rispose Dgerberi, «quand’anche non avessi premesso di far vedere a vostra maestà una delle meraviglie del mondo, questa storia e tutte le pietre che qui veggo mi ci avrebbero indotto. Le avventure di codesto mercante e le mie provano che il caso è più favorevole delle più faticose ricerche per far ritrovare le belle cose. —
«Allora gli mostrò il maraviglioso carbonchio; il, re ne rimase abbagliato, ed il mercante di Balsora, a tal vista, chiuse via prontamente tutte le sue gemme, si ritirò. Dgerberi disse al re: — Principe, questa pietra dovendo senza dubbio appartenere al più gran monarca della terra, non deve escire dalla vostra corte; io supplico vostra maestà di accettarla, e son troppo lieto che la fortuna m’abbia scelto per presentarvela.—
«Il re, lusingato da quel discorso, e commosso di tanta generosità, disse al visir di dargli in prima cinquecentomila dramme d’argento, mille pezze di broccato, due cavalli e dieci abiti d’onore. — Non è tutto,» aggiunse poi; «io voglio sapere come questo stupendo carbonchio sia caduto nelle vostre mani. — Non solo vostra maestà ne sarà istruita,» rispose Dgerberi, «ma saprà anche tutto quello ch’è accaduto ad uno de’ suoi fedeli schiavi, se ha la compiacenza di dargli un momento di udienza. —
«Acconsentì. Dgerberi gli narrò le sue avventure, ed il re, ammaliato di tutti i buoni sentimenti scoperti in lui, non volle più separarsene, e io creò suo visir, l’altro non convenendogli più per ragioni particolari: Dgerberi occupò quella carica con onore fino alla sua morte.
«Il giorno comparve mentre la sultana finiva la storia di Dgerberi. Schahriar, alzandosi, accolse favorevolmente la promessa fattagli da Scheherazade di raccontarne un’altra la mattina seguente, come fece infatti nel solito modo e nei seguenti termini:
Note
- ↑ Piccola moneta.