Le Grazie (1856)/Inno terzo

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Inno secondo Le Grazie
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INNO TERZO


PALLADE1


     Pari al numero lor volino gl’Inni
Alle Vergini sante, armonïosi
Del peregrino suono uno e diverso
Di tre favelle.2 Intento odi, Canova;
5Ch’io mi veggio d’intorno errar l’incenso,
Qual si spandea sull’are a’ versi arcani
D’Anfïone.3 Presente ecco il nitrito
De’ corsieri dircèi:4 eran divini;
Pur que’ vaganti Pindaro contenne
10Presso il Cefiso, ed adorò le Grazie.5
Fanciulle, udite, udite: un lazio Carme
Vien sonando imenei dall’isoletta
Di Sirmïone per l’argenteo Garda
Fremente con altera onda marina,
15Dacchè le nozze di Peléo, cantate
Nella reggia del mar, l’aureo Catullo
Al suo Garda cantò.6 Te pur dall’aure
Di Partenope udiam, gloria del Mincio.7
A te dal cielo Orfeo, quando t’intese

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20Pianger lei che all’eterne ombre gemendo
Da’ suoi baci tornò, scese e, commosso,
Radïante di stelle a te la lira
Diede e ’l suo lauro, e disse; ognun t’adori
Re de’ versi divini! A me voi date
25L’arte, o sacri Poeti, a me de’ vostri
Idïomi gli spirti (e la dolcezza
Mi daranno le Grazie), e co’ toscani
Modi seguaci adornerò più ardito
Le note istorie, e quelle onde a me solo
30Siete cortesi allor che degli antiqui
Sepolcri m’apparite, illuminando
D’elisia luce i solitarii campi
Ove l’errante Fantasia mi porta
A discernere il vero. Or ne preceda
35Clio, la più casta delle Muse, e chiami
Consolatrici sue meco le Grazie.8
     Della terra al desio già Citerea
Rapiano l’aure, e seco ivan le figlie;
E intorno a lei radean lievi le falde
40Dell’Ida irriguo di sorgenti.9 E quando
Fur più al cielo propinque, ove una luce
Rosea le vette al sacro monte asperge,

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E donde sembran tutte auree le stelle,10
Alle vergini sue, che la seguiéno,
45Mandò in core la Dea queste parole:
«Assai beato, o giovinette, è il reguo
De’ Celesti ov’io riedo. Alla infelice
Terra ed a’ figli suoi voi rimarrete
Confortatrici; e sol per voi sovr’essa
50Ogni lor dono pioveranno i Numi.
Ma se vindici fien più che clementi,
Allor, fra’ nembi e i fulmini del Padre,
Guiderovvi a placarli. Udrete intanto
Al mio partir tal dall’Olimpo un’alta
55Armonia, che, da voi dolce diffusa
Sovra la terra, renderà più liete
Le nate a delirar vite mortali,
Più deste all’Arti, e men tremanti al grido
Che le promette a morte. Ospizio amico
60Talor sienvi gli Elisi; e sorridete
A’ vati, se cogliean puri l’alloro,
Ed a’ prenci indulgenti, ed alle pie
Giovani madri che a straniero latte
Non concedean gl’infanti, e alle donzelle
65Che occulto amor trasse innocenti al rogo,
E a’ giovinetti per la Patria estinti.
Siate immortali!» Disse, e le mirava,
E degli sguardi diffondea sovr’esse
Soave il lume dell’eterna Aurora.
70Poi d’un suo bacio confortò le meste
Vergini sue che la seguian cogli occhi
Di lagrime suffusi; e lei dall’alto
Vedean conversa, e questa voce udiro:
«Daranno a voi dolor novello i Fati,
75E gioja eterna.» E sparve; e, trasvolando
Due primi cieli, s’avvolgea del puro11

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Lume dell’astro suo. L’udì Armonia,
E giubilando l’etere commosse.
     Come nel chiostro vergine romita,
80Se gli azzurri del cielo, e la splendente
Luna, e ’l silenzio delle stelle adora,
Sente il Nume, ed al cembalo s’asside
Ed affatica l’ebano sonante:
Ma se le tocca insidïoso il core
85Colla occulta memoria delle gioje
Perdute Amore, movono più lente
Sovra i tasti le dita, e d’improvviso
Quella soave melodia che sgorga
Secreta ne’ vocali alvei del legno,
90Flebile e lenta all’aure s’aggira;
Tal l’armonia che discorrea da’ cieli
Le Grazie intente udirono, e nel core
L’albergaro; e correan su per la terra
A dettarla a’ mortali. E da quel giorno
95Fu più soave la fatica e il pianto,
Più liberale il beneficio, e grata
Del beneficio la memoria.12 Afflitte
Fuggon le caste Dee, fuggon l’ingrato,
E l’amicizia de’ potenti e il fasto.
100A te, Canova, a te chiedono amico
Ospizio, che alle belle Arti neglette,
O magnanimo, dài premj ed esempi.13
     E a te, felice Orfeo, primo le Grazie
Compartiano quel suono, onde a più mite
105Vivere addur l’umana plebe errante
Infra ciechi delirj. In mille piagge
Poser le Dive il piè: pure alla sacra
Terra d’Italia il nume lor più arrise.
     Vide lor possa invido Amor, de’ Numi
110Il più giovine insieme ed il più antico;

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E dai gioghi d’Olimpo, acerbo in core,
Precipita, agitando arco e faretra
Strepitanti per gli omeri al suo corso:
E i chiusi strali presagìan frementi
115Quell’invisibil Dio che, pari a notte,
Di nembi circondato e di paure,
L’alme sorelle a funestar scendea.
Come, se a’ raggi d’Espero amorosi
Fuor d’una mirtea macchia escon secrete
120Due tortorelle mormorando a’ baci,
Guata dall’ombra l’upupa e sen duole;
Fuggono quelle impaurite al bosco;
Così le Grazie si fuggian tremando.
Fu lor ventura che Minerva allora
125Risaliva que’ balzi, al bellicoso
Scita togliendo il nume suo. Di stragi
Di canuti, e di vergini rapite,
Stolto il trionfo profanò che in guerra
Giusta il favore della Dea gli porse.14
130Delle Grazie s’avvide e della fuga
Immantinente, e dietro ad un’ombrosa
Rupe il cocchio lasciava, e le sue quattro
Leonine poledre: ivi lo scudo
Depose, e la fatale egida,15 e l’elmo,
135E inerme agli occhi delle Grazie apparve.
Scendete, disse, o vergini, scendete
Al mare, ed adorate ivi la madre;
E una pietà per gli altrui lutti. in core
Vi manderà, che oblierete il vostro
140Terror, tanto ch’io rieda a offrirvi un dono
Che da Amor vi difenda. - E tosto al corso
Diè la quadriga, e giunse ratto a un’alta

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Reggia che al par d’Atene ebbe già cara:
Or questa sola alberga, or quando i Fati
145Non lasciano ad Atene altro che il nome.
     Isola è in mezzo all’oceàn, là dove
Sorge più curvo agli astri; immensa terra,16
Com’è vetusto grido, un dì beata
D’eterne mèssi e di mortali altrice.
150Ma indarno, ora del nostro or dell’avverso
Polo gli astri invocando, oggi il nocchiero
La chiede all’onde: e se il desio lo illude,
Biancheggiar mira i suoi monti da lunge,17
E affretta i venti, e per l’antica fama
155Atlantide l’appella. In Elicona
Detta è palladio ciel, dacchè la santa
Palla-Minerva agli abitanti irata,
Che il suol fecondo e le promiscue nozze
Fean pigri all’Arti e sconoscenti a Giove,
160Dentro l’Asia gli espulse, e l’aurea terra
Cinse di ciel soltanto aperto ai Numi.
Onde, qualvolta per furor di regno
Pugnano i prenci, o i popoli alla bella
Libertà danno umane ostie esecrate,
165O danno a prezzo anima e brandi all’ire
Di tiranni stranieri, o a stolta impresa
Seguon avido sir che a sconosciute
Genti appresta catene e lutto a’ suoi;18

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Allor concede le Gorgoni a Marte
170Pallade, e sola tien l’asta paterna
Con che i Duci precorre alla difesa
Delle leggi e dell’are, e per cui splende
A’ magnanimi eroi sacro il trionfo.
Poi beata in quell’Isola s’asconde,
175E le Dive minori alle gentili
Arti ammaestra: e quivi casti i balli,
Quivi i canti dolcissimi, e fiorita
Sempre a’ passi la terra, ed aureo ’l giorno,
E limpido il notturno aere stellato.
     180Corsero intorno le celesti alunne,
Come giunse, alla Diva. Ella a ciascuna
Compartì l’opre del promesso dono
(Era un velo) alle Grazie.19 Ognuna allegra
Agl’imperj obbedia: Pallade in mezzo
185Colle azzurre pupille amabilmente
Signoreggiava il suo virgineo coro.
     Attenuando i rai aurei del sole,
Volgeano i fusi nitidi tre nude
Ore,20 e del velo distendean l’ordito.
190Venner le Parche di purpurei pepli
Avvolte e il crin di quercia,21 e di più trame
Raggianti, adamantine, al par dell’etra
E fluide e pervie e intatte mai da Morte,
Trame onde filan degli Dei la vita,
195Le tre presaghe riempiean le spole.
Non men dell’altre innamorata, all’opra
Iri scese fra’ Zefiri; e per l’alto
Le vaganti accogliea lucide nubi

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Gareggianti di tinte, e sul telajo
200Pioveale a Flora22 a effigïar quel velo:
E più tinte assumean, riso e fragranza,
E mille volti dalla man di Flora.
E tu, Psiche, sedevi, e spesso in core,
Senza aprir labbro, ridicendo: «Ahi, quante
205Gioje promette, e manda pianto Amore!»23
Raddensavi col pettine la tela.
E allor faconde di Talia le corde,
E Tersicore Dea, che a te dintorno
Fea tripudio di ballo e ti guardava,
210Eran conforto a’ tuoi pensieri e all’opra.
Correa limpido insiem d’Erato il canto
Da que’ suoni guidato;24 e come il canto
Flora intendeva, si pingea con l’ago.
     «Mesci, odorosa Dea, rosee le fila;
215E per te in mezzo il sacro vel s’adorni
Della imago di Psiche,25 or che perfetta
Ha la sua tela e ti sorride in viso.
Mortale nacque, e son più care in cielo
Sue belle doti; e se a noi canta o danza,
220Se mesta siede o amabile sospira,
Se talora alle fresche onde eliconie
Gode i puri lavacri, atti e parole
D’una venusta immortal luce abbella.
Segga e carezzi il fanciulletto figlio26

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225Del Sonno, a cui le rose Amor sacrava
Perchè in silenzio i furti suoi chiudesse;
E sì gli additi in aurea nube il sogno
Roseo, che sulla fresca alba di maggio
Sovra dormente giovinetta aleggia,
230E le ripete susurrando i primi
Detti d’amor che da un garzone udia.
     Or mesci, industre Dea, varie le fila;
E danzi a un lato dell’etereo velo
Giovinezza. Suo coro, abbia le ardite
235Speranze ombrate d’amaranto eterno;
E al suon d’un plettro che percote il Tempo
La menin giù pel clivo della vita.27
A lei decenti occorrano le Grazie,
E la cingan di fiori: e quando il biondo
240Crin t’abbandoni e perderai ’l tuo nome,
Vivran que’ fiori, o Giovinezza, e intorno
L’urna funerea spireranno odore.
     Mesci, o madre dei fior, lauri alle fila;
Ed il contrario lato orna, ideando
245Levissima l’imagine del sogno
Ch’a un dormente guerrier mandan le Grazie
A rammentargli il suo padre canuto,
Che solitario nella vota casa
Spande lacrime e preci; e quei si desta,
250E i prigionieri suoi guarda e sospira.28
     Mesci, o Flora gentile, oro alle fila;29
E il terzo lembo istorïato esulti
D’un festante convito: il Genio amici

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Ode gli augurj, e largamente in volta
255Pirme corona agli esuli le tazze.30
E faconda è la Gioja, e co’ Lepori
Libera scherza, e amabile è il Decoro.
Qui l’Ironia che i motti ama conditi
Di riso, e il ver dissimulando accenna:
260E qui la liberal candida Lode
Va con lor favellando. A parte siede
Bello il Silenzio, delle Grazie alunno,
Col dito al labbro, e l’altra mano accenna
Che non volino i detti oltre le soglie.
     265Mesci cerulee, Dea, mesci le fila;
E pinta il lembo estremo abbia, al barlume
Di queta lampa, una solinga madre
Sedente a studio della culla. E teme
Non i vagiti del suo primo infante
270Sien presagi di morte; e in quell’errore
Non manda a tutto il cielo altro che pianto.
Lei mirano invisibili le Grazie.
Beata! ancor non sa quanto agl’infanti
Provido è il sonno eterno; e que’ vagiti
275Presagi son di dolorosa vita.»31
     Come d’Erato al canto ebbe perfetti
Flora i trapunti, ghirlandò l’Aurora
Gli aerei fluttuanti orli del peplo
De’ fior che ne’ celesti orti raccolse:
280Ignoti fiori a noi; sol la fragranza,
Se presso è un Dio, talor ne scende in terra.
Venne, fra tutte giovinette eterne
Bellissima, la bionda Ebe, ravvolta

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In mille nodi fra le perle i crini:
285Tacitamente l’anfora converse,
E dell’altre la vaga opra fatale
Rorò d’ambrosia; e fu quel velo eterno.
     Pallade il tolse, e scese; e le tre caste
Timide Grazie vide assise al lito
290Di Mergellina, Galatea chiamando.
Tendean le palme a Galatea: «deh, vieni
Colla tua conca, o nivea Galatea!»
Ed a loro il divin senno di Palla:
«Venere, o Grazie, più del bacio v’ama
295Che Amor le dà: perciò v’insegue Amore
Invido, e non fanciul, come più spesso
Pare agli umani; ma d’Apollo assume
L’alta persona; ad Ercole la clava
Strappa dinanzi a Giove; e non ha l’ali,
300Gli occhi bensi, che sospettosi intorno
Volteggia e intenti, minacciando; ed arde,
Perchè dal crin sino alle piante è fiamma.
Ma pur, vergini Dee, d’Amor sorelle
Creovvi il Fato; nè da lui potrei
305Partirvi, ne il desia la Terra o il Cielo.
Ma qualor di sue fiamme arda l’Olimpo,
Arda il cor de’ mortali, e di voi, caste
Dive, a’ consigli e al lacrimar s’adiri,
Vi ricopra il mio velo; e si raccolte,
310Finchè nel furor suo freme e imperversa,
Siavi la reggia mia securo albergo.
Quindi ospiti improvvise all’elegante
Pittor scendete, e il vostro ingenuo riso
Dolce un decoro pioverà alla tela;
315Nitido il verso suonerà al Poeta,
Se voi l’udrete; e lo scalpel sul marmo
Scorrerà facilissimo, spontaneo,
Purchè raggiate su quel marmo i guardi:
Cosi d’amore oblio l’Arti saranno.»
     320Taceva: e già l’invïolabil velo
Che circonda le Dee manda improvviso

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Suon, quasi di lontana arpa, scorrente
Sulle penne de’ Zeffiri; soave
E mesto al par dell’armonia32 che diede
325D’Orfeo la Lira, allor che al sacro capo
Dalle Baccanti di Bistonia33 infissa,
Venne nell’alto Egeo spinta da’ monti;
E un’armonia sono tutto quel mare,
E l’isole l’udiano e il continente.
330Pur nė vate giammai, nė arguta corda
Di lidia cantatrice,34 o legge o nome
Diè a quel suono fatal. Così velate,
Sdegnan le Dee mostrarsi a chi l’arcano
Tenta spiar della immortal bellezza
335Con profano pensiero. E ne fa saggi
Di questo avviso Eufrosine,35 cantando
Flebile un carme che da Febo un giorno
Sotto le palme di Cirene36 apprese:
E tu l’odi, o Canova, e in cor lo serba.
     340Innamorato, nel pïerio fonte
Mirò Tiresia37 giovinetto i fulvi
Capei di Palla, liberi dall’elmo,
Coprir le rosee disarmate spalle;
Senti l’aura celeste, e mirò l’onde
345Lambire a gara della Diva il piede,
E spruzzar riverenti e paurose
La sudata cervice e il casto petto,
Che i lunghi crin discorrenti dal collo

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Coprian, siccome li moveano l’aure.
350Ma ne più salutò dalle natie
Cime eliconie il cocchio aureo del Sole.
Nè per la coronèa selva38 odorata
Guidò a’ ludi i garzoni, o alle carole
Le anfionie fanciulle; ed insultanti,
355Delle sue frecce immemori, le lepri
Gli trescavano attorno, e i capri e i cervi
Tenean securi le beate valli,
Chè non più il dardo suo dritto fischiava;
Però che la divina ira di Palla
360Al cacciator col cenno onnipossente
Avvinse i lumi di perpetua notte.
Tal destino è ne’ fati. Ah! senza pianto
L’uomo non vede la beltà celeste.
     Addio, Grazie! son vostri, e non verranno
365Soli quest’Inni a voi, nè il vago rito
Oblïeremo di Firenze a’ poggi
Quando ritorni April. L’arpa dorata
Di novello concento adorneranno,
Disegneran più amabili carole
370Le tre avvenenti Ancelle vostre all’ara:
E il fonte, e la frondosa ara, e i cipressi,
E i favi, e i serti vi fien sacri, e i cigni,
E delle ninfe il coro e de’ garzoni.
     Ma intanto udite, o Vergini divine
375D’ogni arcano custodi, un prego udite,
Ch’io dal sacrario del mio petto innalzo.
Date candidi giorni a lei che sola,
Quando più lieti mi fioriano gli anni,
Il cor m’accese d’immortale amore,
380Poi che la sua beltà tutta m’aperse
La beltà vostra. Nè il mio labbro mai
Osò chiamare il nome suo; nè grave
Mi fu nudrir di muto pianto il duolo
Per lei nel lungo esilio. Ed ella sola

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385Secretamente spargerà le chiome
Sovra il sepolcro mio,39 quando lontano
Non prescrivano i Fati anco il sepolcro.
Confortatela, o Grazie, or che non vive,
Qual pria, felice. I balli e le fanciulle
390Di nera treccia insigni e di sen colmo,
Sul molle clivo di Brianza,40 adorna
Di giovenile rosëo candore,
Guidar la vidi: oggi le vesti allegre
Obliò mesta e il suo vedovo coro.
395E, se alla Luna e all’etere stellato
Scintillando più azzurro Eupili ondeggia,41
Il guarda avvolta in lungo velo, e plora
Coll’usignuol, finchè l’Aurora il chiami
A men soave tacito lamento.
400Deh! nel lume ravvolte aureo dell’Alba
A lei movete, o belle Grazie, intorno;
E nel mirarvi, o Dee, tornino i grandi
Occhi fatali al lor natio sorriso.


Note

  1. * Pallade Dea delle Arti, consolatrice della vita e maestra degl’ingegni. (F.).
  2. 4. La greca, la latina e l’italica.
  3. 6-7. Anfione, figlio di Giove e d’Antiope, fu uno de’ primi Vati iniziatori di civiltà per mezzo delle Arti del diletto. Quindi la Favola disse che egli avesse edificato le mura di Tebe col suono della sua lira, dono di Mercurio.
  4. 8. I corsieri di Pindaro; chiamati dircei dalla fontana Dirce presso Tebe, patria di quel poeta.
  5. 9. Tocca delicatamente del senno con cui quel gran lirico seppe ne’ suoi componimenti conciliare l’apparente disordine dell’entusiasmo poetico col concetto d’unità e di convenienza.
  6. 11-17. Sirmione, penisola amenissima situata nel lato orientale del lago di Garda, ed ove aveva una magnifica villa Valerio Catullo. Questi, oltre molti altri elegantissimi versi, ci ha lasciato due Carmi epitalamici, ed il poemetto delle Nozze di Teti e di Peleo, veramente miracoli di poesia. Secondo la più comune opinione, fu veronese, e nacque l’anno 667 di Roma. (Vedi Maffei, Verona illustrata.)
  7. 18-24. Virgilio, che nato sul Mincio, presso Mantova, scrisse la maggior parte de’ suoi poemi presso Napoli, ossia Partenope, ov’anche è sepolto. — Fra le sue poesie è celebre l’episodio con cui termina il quarto libro delle Georgiche, nel quale narra la sventurata morte d’Euridice sposa d’Orfeo, la costui discesa all’inferno per impetrare di riaverla, e il pietoso errore che gliela fece perdere nuovamente, e per sempre. — Orfeo, dopo il miserando scempio che di lui fecero de Baccanti, fu assunto in cielo ed onorato qual nume. Anco la sua Lira fu cangiata in costellazione, e collocata presso il tropico del Cancro. (Vedi S. Agostino, De civitate Dei. — Festi Avieni Arat. Phenomen.)
  8. 29-36. Le prime storie tanto degli eroi che de’ popoli furono trasmesse alla posterità per mezzo della poesia accompagnata dalla musica, cioè della lirica; e Clio, secondo Esiodo la prima delle Muse, presiedeva a tali canti storico-lirici: quindi in tempi più vicini a noi essa fu nomata la Musa della Storia. Erodoto, quantunque dettasse le sue Storie in prosa, pure ai nove libri delle medesime diede il nome delle nove figlie di Giove e della Memoria, e al primo, quello di Clio. Intanto, siccome nella primitiva mistione di tutti i generi della letteratura si chiamarono storie anco le allegorie poetiche, ossia le favole, presso i poeti seguitò l’uso di appellare storie anco le loro finzioni morali o metafisiche. A questo mirava il Foscolo invocando Clio sul principio di questo Inno terzo, contenente una sublime narrazione allegorica, con cui si stabilisce, che la benefica influenza delle Arti gentili (le Grazie) non basta a compiere la umana civillà, per gli ostacoli che le vengono opposti dalla violenza delle passioni (Amore), senza il governo e gli aiuti della sapienza (Minerva). — Del resto, chiama Clio la più casta delle Muse, come quella a cui più dell’altre è debito di non adulterare il vero.
  9. 40. Montagna dell’Asia Minore, alle cui falde era situata Troia. A mezzo aveva un antro, gradito soggiorno degli Dei, e particolarmente caro a Venere, poichè ivi, per giudicio’ di Paride, ella ottenne il contrastato premio della bellezza.
  10. 43. Siccome le stelle sono tanti soli, la loro smisurata distanza o la interposizione di tutta la nostra atmosfera ci fanno parer bianca la loro luce solare. Dagli altissimi monti, e qui l’Ida poeticamente si annovera fra essi, la minor densità e profondità, e la maggior purezza dell’atmosfera possono ben permettere più sincera la vista del loro vero colore.
  11. 76-7. Secondo il sistema Tolemaico, seguito dai Poeti, il pianeta di Venere è posto nel terzo cielo. — Armonia, o Ermione, fu figlia di Venere e di Marte.
  12. 96-7. Fa scritto dagli antichi, che le Grazie erano state rappresentate di giovenile aspetto, per insegnarci che la memoria dei benefizi non deve invecchiare giammai.
  13. 102. Il Canova non solo fu sommo artista, ma altresì generoso protettore d’artisti. (Vedi Missirini, Vita del Canova.)
  14. 125-29. Gli antichi ci hanno lasciato memorie assai vaghe e confuse sul conto degli Sciti. La più comune opinione è che equivalessero a quelle popolazioni da noi chiamate Tartari. Erodoto ne favella a lungo, ed attribuisce loro, come principali caratteristiche, il valore e la più nefanda immanità in guerra. Nè adoravano, nè conoscevano la Deità di Minerva. (Vedi Erodoto, Melpomene.)
  15. 133-34. Quantunque sovente l’egida sia confusa collo scudo di Minerva, pure Servio dice chiramente: Ægis proprie est munimentum pectoris æreum, habens in medio Gorgonis caput. E aggiunge, che se è sul petto di un Nume, si chiama egida, se sul petto di un mortale, lorica. (Vedi Servio, in Æneid., lib. 8.)
  16. 146-47. Intende l’Atlantide, come spiega più sotto, isola celebre per ciò che ne scrissero Platone, Strabone, Plinio ed altri antichi; ma che tuttavia dai più vien riputata favolosa. Il primo dei citati Autori, e che ne parla a lungo, particolarmente nel suo dialogo intitolato Critias, sembra che la collochi nell’Oceano Atlantico, oltre lo stretto di Gibilterra. Sotto all’equatore la colloca pure il Poeta. — Pongasi mente alla figura sferoidale del globo terraqueo, alquanto depresso ai poli, più rilevato all’equatore, e s’intenderanno facilmente questi due versi.
  17. 152-53. Allude a quello stupendo fenomeno che si offre sovente a chi viaggia pei deserti o sui mari, e che consiste in una vivacissima illusione ottica, per la quale sembra di vedere spesso e fiumi, e amene praterie, ed isole ed altri oggetti di tal sorta, i quali però si dileguano tosto che l’uomo vi si appressa. Molti e solenni esempi ne riferisce l’Autore americano della vita di Cristoforo Colombo. (Vedi Washington Irving, Vita ec.)
  18. 162-73. Bellissima e degna di un Poeta che avea cinto la spada per la libertà e per la gloria, ma che sdegnò cingerla per la servitù della sua patria, è la distinzione fra la guerra oppressiva ed empia, e quella liberatrice e santa. Alla prima presiede Marte figlio della sola Giunone, cioè della Terra; alla seconda, la prole della mente di Dio, Minerva. Le Gorgoni erano tre: Steno, Eurialo e Medusa. Quantunque d’ordinario i Poeti narrino che sullo scudo di Minerva era soltanto lo spaventevole teschio della terza, pure Esiodo sullo scudo d’Ercole, nel Poema dello stesso titolo, le colloca tutte e tre.
  19. 183. La descrizione del Velo delle Grazie, col simulato titolo di traduzione di un antico frammento greco scoperto dal Foscolo nel monastero di San Dionigi al Zante, e che vorrebbesi attribuire a Fanocle, fu pubblicata dal Poeta in Inghilterra in un libro assai raro, consacrato ad illustrare non solo il gruppo delle Grazie, ma ancora altre insigni produzioni dell’Arte, possedute dal Duca di Bedford. Noi abbiamo fatto uso con libera scelta tanto delle lezioni che ci offrono quei frammenti pubblicati in Inghilterra, quanto di quelle porteci dai Mss. d’Ugo.
  20. 188. Il giorno era diviso dagli antichi Greci e dai Romani solamente in tre parti; e così la notte. (Omero, Iliad., lib. X, v. 252-3) (F.)
  21. 190-91. Anco presso Platone, e nell’antico Inno alle Parche attribuito ad Orfeo esse vengono rappresentate come coperte di veli tessuti della più risplendente e lucida porpora. E Catullo nel carme Delle nozze di Peleo e di Teti le descrive avvolte intorno di fronde di quercia, emblemi sì gli uni come le altre della loro suprema e irresistibile autorità e forza.
  22. 200. La Dea de’ fiori abbellisce di ricami il velo di Minerva, perchè la vera sapienza, lungi dall’avere a schivo il Bello, lo ha caro invece, e se ne fregia. Circa ad Iride, vedi la nota al v. 162 dell’Inno I.
  23. 203-5. La favola di Psiche fa narrata distesamente da Apuleio (vedi Asino d’Oro, lib. 4 e 5), o ne sia stato egli l’inventore, o l’abbia raccolta dalle greche tradizioni. È una leggiadra allegoria delle varie vicende dell’anima umana che riman presa d’Amore. Con profondo senso il Poeta mostra Psiche, ossia l’anima, artefice primiera del mistico velo che la Sapienza ci dona a schermo delle tempeste della vita;
    Chè sovente addivien che il saggio e il forte
    Fabro a sè stesso è di beata sorte.
  24. 208-13. La Musa della danza opportunamente applaude co’ suoi tripudj alla formazione del Velo, perchè la danza fu sacra presso gli antichi, come quella che conferisce alla sanità, e rallegra lo spirito. — Anco nelle ceremonie religiose danzavasi sempre al suono di qualche stromento accompagnato dai canti. Quindi Erato, la Musa delle affettuose canzoni, ed accompagna il rito, e governo cantando il magisterio di Flora.
  25. 216. Psiche, secondo Apuleio, fu figlia di un re; e per la sua bellezza e per le altre amabili doti fu sposa ad Amore, che le impetrò da Giove la immortalità.
  26. 224-6. È Arpocrate dio del silenzio, che si rappresenta sotto la sembianza di un fanciullo. Anco in un epigramma greco Amore offre una rosa ad Arpocrate, pregandolo che taccia le parole dei convitati. — Questa prima storia del velo significa essere principalissimo documento di sapienza la gelosa custodia delle dilicate ed arcane gioie dell’anima. Di ciò è simbolo il sogno del primo amore di una giovinetta, chè delle giovinette particolarmente sono propri il riserbo e il pudore.
  27. 232-42. Insegna che l’ardore giovenile e la baldanza debbono essere temperati ed abbelliti dalla decente amabilità delle Grazie, e dagli studi gentili ond’elle sono ispiratrici, in chi desidera lasciar di sè grate memorie.
  28. 243-50. Idoleggiando i teneri e generosi sentimenti del suo cuore, e facilmente qualche caso della sua vita, il Poeta raccomanda la pietà alle altrui sciagure. Gli Spartani, prima di entrare in battaglia, sacrificavano alle Grazie.
  29. 251-64. Il candore e la politezza dei costumi, l’amabilità ed il brio dell’ingegno si palesano sopra a tutto nei convitl. Quindi il Poeta ne fa soggetto della quarta storia del Velo, come a rassumere tutto ciò che spetta alle più squisite norme della convivenza sociale.
  30. 255. Con questo verso visibilmente Ugo allude ad una ben nota urbanissima costumanza della ospitalità inglese; ed io in questa pubblicazione degl’interi Inni volentieri lo noto, non senza un vivo senso di nazionale gratitudine verso tutti quei figli dell’Isola potente, i quali con affettuose cortesie addolcirono talvolta l’acerbità dell’esilio a quell’anima grande ed agitata.
  31. 265-75. Al culto delle virtù domestiche, senza le quali le pubbliche non sono nè possono essere, consacra l’ultima storia. Nella madre vigilante e trepida sulla culla del figlio, ognuno facilmente riconosce la madre del Poeta, Diamante Spaty-Foscolo, per la quale egli ebbe un affeto ed una reverenza da sembrare straordinarj anco a chi più sente i doveri di figlio.
  32. 322. Anco questa similitudine, ed il seguente racconto della punizione di Tiresia, quantunque con qualche varietà, si trovano pubblicati dal Foscolo nei commenti alla Chioma di Berenice.
  33. 326. La Bistonia fu una provincia della Tracia, così nomata da Bistone figlio di Marte, che vi fabbricò una città. Qui è posta per la Tracia intiera.
  34. 331. Il metro musicale lidio, così nomato perchè molto in uso presso i Lidj popoli dell’Asia Minore, da cui voglionsi discesi gli Etruschi, narrano che fosse sommamente atto a toccare il cuore; ma Platone lo volle bandito dalla sua Repubblica, accusandolo d’insinuare la mollezza.
  35. 336. Eufrosine, une delle tre Grazie.
  36. 338. La ninfa Cirene, amata da Apollo, diede il nome alla capitale della Pentapoli, detta ancora Cirenaica, in Affrica, regione feconda di palme. Il Poeta qui allude a Callimaco, che fu nativo di Cirene, e di cui ci rimangono tuttavia Inni bellissimi. In quello intitolato I lavacri di Pallade è narrato il fatto di Tiresia, ma, se non andiamo errati, meno leggiadramente che dal Foscolo. Questi poi con tale episodio, sotto le mitiche apparenze, intese a colpire di civile riprovazione chi, per triste passioni, profana la santità delle Lettere e delle Arti liberali.
  37. 341. Tiresia nacque in Tebe, capitale della Beozia, da Evero dalla ninfa Sparto.
  38. 350-52. Il monte Elicona è nella Beozia. — Coronea era una provincia della Beozia stessa, e così chiamata da una città del medesimo nome, fondata da Corone nipote di Sisifo.
  39. 385-86. Anco ai dì nostri le donne greche conservano l’uso dei loro antenati, di consacrare le loro chiome ai cari estinti.
  40. 391. La Brianza «è un aggregato di fertili e ridenti colline, che trovansi nella Lombardia, provincia di Como, a borea di Milano e di Monza, ed a ponente da Lecco, tra l’Adda e il Lambro.» (Rampoldi, Corografia ec.)
  41. 396. I laghi di Pusiano, d’Annone e d’Alserio, che occupano il centro della Brianza, sembra che una volta tutti insieme riuniti formassero l’antico Eupili menzionato de Plinio il vecchio. Ora tal nome dai poeti vien dato particolarmente al lago di Pusiano. Così il Parini, che sulle sue rive cantò, fra gli altri, questi versi eterni, che se non debbono formare l’impresa di chi coltiva le Lettere, è meglio che non vi sieno letterati.
    «Me non nato a pecuotere
    Le dure illustri porte
    Nudo accorrà, ma libero,
    Il regno della morte;
    No, ricchezza nè onore
    Con frode e con viltà,
    Il secol venditore
    Mercar non mi vedrà.»