Le Fenicie (Euripide - Romagnoli)/Esodo

Esodo

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Euripide - Le Fenicie (410 a.C. / 409 a.C.)
Traduzione di Ettore Romagnoli (1928)
Esodo
Quarto stasimo
Questo testo fa parte della raccolta I poeti greci tradotti da Ettore Romagnoli


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Entra Creonte, in preda alla disperazione.

creonte

Ahimè, che devo far? Gemere, piangere
la mia città, che da tal nembo è cinta
da sprofondarla in Acheronte? E morto
per la patria è mio figlio, e fama ottenne
gloriosa per lui, per me funesta.
Dalla rupe del drago, ov’egli morte
diede a sé stesso, lo raccolsi or ora,
misero me, con le mie man lo addussi
e tutta un pianto è la mia casa. E giungo,
io vegliardo, alla mia vecchia sorella,
a Giocasta, perché lavi ed esponga
il figlio mio, che piú non è: ché deve
render, chi non è morto, ai morti onore,
culto rendendo al Nume sotterraneo.

coro

Uscita dalla reggia è tua sorella,
Creonte, e insiem con lei la figlia Antigone.

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creonte

E perché mai? Per quale evento? Dimmelo.

corifea

Udí che i figli, un contro l’altro, a pugna
pel possesso venir dovean del regno.

creonte

Che dici? Intento al mio figliuolo, nuova
di quest’altra sciagura a me non giunse.

coro

Già da un pezzo partita è tua sorella.
E tra i figli d’Edipo io già seguíto
il duello mortal credo, o Creonte.

creonte

Ahimè ché un segno io già distinguo: il ciglio
d’un araldo aggrondato, e il viso tutto.
Ei quanto avvenne, certo ci dirà.
Giunge un araldo.

araldo

Come, ahimè, con che parole, potrò darvi la novella?

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creonte

Siam perduti; dei tuoi detti il principio non è lieto.

araldo

Tristo me, l’annunzio io reco di gran mali, lo ripeto.

creonte

In aggiunta ai mali antichi nuovi mali. Orsú, favella.

araldo

O Creonte, i figli entrambi spenti son di tua sorella.

creonte

Ahimè!
A Tebe e a me gravi cordogli annunzi.
Casa d’Edipo, udita hai la sciagura?
Morti per un sol fato entrambi i figli?

coro

Tali, che piangerebbe anche, qualora
senso avesse, la casa.

creonte

                                   Ahi, piú d’ogni altra
grave sciagura! Oh malanni! Oh me misero!

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araldo

O se sapessi i mali ancor seguíti!

creonte

Piú miseri di questi? E come dunque?

araldo

Coi due figliuoli tua sorella è morta.

coro

Levate gemiti, levate gemiti:
i bianchi cubiti sui nostri capi le mani avventino.

creonte

Deh, quale fine, o misera Giocasta,
hai patita, mercè delle tue nozze,
e degli enigmi della Sfinge! Or, come
seguí la strage dei fratelli, e l’esito
del male che imprecò su loro Edípo?

araldo

Già sai gli eventi che alle torri innanzi
felicemente volsero: la cerchia
delle mura non è tanto lontana,

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che tu possa ignorarli. Or, poi che i giovani
figli del vecchio Edípo, ebber le membra
cinte dal bronzo, mossero allo scontro,
uomo contro uomo, in mezzo della lizza.
E, volto il guardo verso Argo, tal prece
Poliníce levò: «Dea veneranda
Era — ch’io sono or tuo, poiché la figlia
sposai d’Adrasto, e n’abito la terra —
fa’ tu che uccida mio fratello, e insanguini
l’ostile mia vittorïosa destra,
e ottenga un tal serto esecrando, uccidere
il mio germano». E molti lagrimavano,
pensando alla lor sorte, e rivolgevano
l’un verso l’altro la pupilla. — Etèocle,
poi, di Pàllade al tempio il guardo volse,
e cosí la pregò: «Figlia di Giove,
fa’ tu che l’asta mia vittoriosa,
da questa man, da questo braccio io vibri
al mio fratello in seno, e l’uomo uccida
che la mia patria a saccheggiar qui venne».
E come poi lanciato fu lo squillo
della tromba tirrena1, e un fuoco parve,
segno del sanguinoso urto, proruppero,
con terribile slancio, uno su l’altro.
E cozzarono come apri che arrotano
le selvatiche zanne, e aveano madide
le mascelle di bava. E pria si urtarono
con le lance; però si rimpiattavano
sotto i rotondi scudi; onde le cuspidi
scivolavano indarno. E dove l’uno
sporger vedesse del nemico il viso
sopra lo scudo, per colpirlo al viso

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la lancia qui volgea; ma pronto l’altro
l'occhio abbassava ai fori dello scudo,
e vano usciva della lancia il colpo.
E piú dei due che combatteano, molli
erano di sudor quei che miravano,
per terror degli amici. Ed ecco, Etèocle
in un sasso inciampò, che sotto il piede
gli era venuto, ed una gamba espose
fuor dello scudo. E Poliníce, visto
un punto da ferire offerto al ferro,
vibrò la lancia, e attraversò la tibia
colla cuspide argiva; e un alalà
tosto levò dei Dànai l’esercito.
E a questo punto della lotta, Etèocle,
ferito già, vedendo ignudo l’omero
di Poliníce, contro il petto a lui
vibrò la lancia, e riempí di gioia
tutti i Cadmèi. Ma l’asta si spezzò
presso alla punta; e quando ei ne fu privo,
un gran macigno prese, e l’avventò,
e la lancia al fratello a mezzo franse.
Pari d’arme cosí furono, quando
scorsa a entrambi di mano era la lancia.
E, delle spade l’else allor ghermite,
ed uomo ad uomo stretto, e scudo a scudo,
combattevano; ed alto era il frastuono.
E una tessala finta immaginò
Etèocle allora, e l’esegui — fra i Tèssali
l’aveva appresa — . Il corpo svincolò
da quella stretta, il pie’ manco ritrasse,
e, riparando ben del ventre il cavo,
si spinse avanti al destro lato, e il ferro

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nell’umbilico a suo fratello, sino
alle vertebre spinse. E, rilasciati
e fianchi e ventre insiem, cadde, sprizzando
il sangue a rivi, Poliníce misero.
E l’altro, ornai sé vincitor credendo,
trionfator, gittò la spada a terra,
e si diede a spogliarlo; e a tal bisogna
volta la mente avea, non al fratello.
E questo lo perdé: ché l’altro, un fioco
alito ancor traendo, il ferro stretto
serbato avea nella fatal caduta;
e, surto a stento, lo cacciò nel fegato
d’Etèocle, esso che prima era caduto.
E, mordendo la terra, un presso all’altro
giacciono; ed indivisi i beni restano.

corifea

Ahi ahi, quanto i tuoi mali, o Edípo, io piango!
Quanto imprecavi, un Dio, sembra, compie’.

araldo

I mali odi che a questo ancor seguirono.
Poiché caddero spenti i due fratelli,
la madre loro sopraggiunse, misera,
con la vergine figlia; e in tutta fretta
moveano. E appena li mirò trafitti
dalle piaghe mortali: «O figli miei,
tardi — gridò — l’aiuto mio vi giunge!».
Ed ora a questo, ed ora innanzi a quello

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si prosternava, e li piangeva, e il lungo
gemea travaglio del suo seno; e insieme
la sorella, che seco era: «O fratelli
che dovevate alla cadente madre
esser sostegno, che le nozze mie
tradite avete!». — E la materna voce
Etèocle udí, dal sen trasse un anelito
di morte e, molle di sudor la mano
le porse, e, senza pronunciar parola,
la salutò con gli occhi, lagrimando,
sí che paresse l’amor suo. Né spento
era ancor Poliníce; e la sorella
vide, e l’annosa genitrice, e disse:
«Madre, perduti siamo. Io te compiango,
e la sorella, e il mio fratello spento;
ch’esso nemico m’era, eppur diletto.
Seppelliscimi, o madre, e tu sorella,
nel patrio suolo, e la città placate
adirata: ch’io tanto almen consegua
della terra patema, anche se privo
fui della casa. Le pupille serrami
con la tua mano, o madre — ed egli stesso
se la trasse sugli occhi — ; e addio: la tenebra
già mi circonda». Ed entrambi esalarono
la lor misera vita in un sol punto.
E la madre, poiché tanta sciagura
mirò, sconvolta dal dolore, tolse
di fra i morti una spada, e un atto orribile
compie’: s’immerse nella gola il ferro.
E morta giace anch’ella, ora, fra i suoi
dilettissimi figli, e sopra entrambi
le braccia stende. E, in pie’ surto, l’esercito

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venne a contesa di parole. Noi
vincitor dicevamo il nostro re,
ed essi il loro. E i duci dissentirono:
quelli dicean che Poliníce il primo
colpo di lancia inferto aveva: questi
che niuno, poiché morti erano entrambi,
dir vincitore si poteva. In questa
di fra le schiere era sparita Antígone.
E tutti all’armi corsero. E fu provvido
consiglio che i Cadmèi seduti fossero
presso gli scudi. Súbito balzammo
sopra gli Argivi, e li cogliemmo quando
non avean l’armi cinte ancora, e niuno
resisté; ma fuggiaschi il piano empierono.
Ed il sangue correa di mille e mille,
caduti spenti sotto l’aste. E quando
vinta fu la battaglia, alcuni alzarono
il simulacro, per trofeo, di Giove:
altri gli scudi degli spenti Argivi
portano, come spoglie, entro la rocca;
dei caduti le salme con Antígone
degli amici al compianto altri qui recano.
Di questi eventi, alcuni felicissimi
furon per Tebe, ed altri infelicissimi.

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Si appressa un gruppo di guerrieri che recano le tre salme. Con loro è Antigone.

coro

Non piú per udita, sappiamo
la sventura di questa progenie.
Ma possiamo vedere tre salme
appressarsi alla reggia, cui spinse
fra le tènebre sola una morte.

antigone

Senza celare le morbide
guance inondate dai riccioli,
senza curar, per virgineo
pudore, la porpora
che sotto le palpebre
arrossa il mio volto,
giungo, Baccante dei morti,
dalla chioma gettando ogni benda,
gittando la stola di morbido croco
guida alle salme, ahimè ahi,
gemebonda ahimè ahi!

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O Poliníce, il tuo nome, fatidico ahimè, fu per Tebe:
fu la tua gara, non gara, ma strage su strage
funesta alla casa d’Edípo,
compiuta con empio sterminio,
con luttuoso sterminio.

Chi chiamerò, quale cantico
che echeggi i miei gemiti,
ond’io lagrimo, lagrimo,
o stirpe, o stirpe misera,
queste tre consanguinee
salme recando, la madre e i figli,
dell’Erinni ludibrio,
che addusse la progenie
quando il sagace interprete, l’enigma
intese della Sfinge, e pose termine
alla sua vita, ai cantici.

Oh padre, oh padre, ahimè,
quale Ellèno, qual barbaro,
mai, fra gli antichi principi,
nato di sangue efímero,
patí cosí visibile
lutto, con tanto spasimo?

Misera me! Quale alígero
sopra le vette piú eccelse
di querce o d’abete, alla nenïa
mia, di quest’orfana,
risponderà?

Ahimè ahimè, fra i gemiti,
sopra questi cadaveri

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io piango: in solitudine
la vita mia fra lagrime
sempre trascorrerà.

Su chi pria, lacerandomi
le chiome, le primizie
ne gitterò? Sui gèmini
materni seni onde il latte suggéi,
o sulle piaghe orribili dei due fratelli miei?

Ahi ahi, la casa lascia,
vecchio padre, e qui reca
la tua pupilla cieca;
mostra, Edípo, l’ambascia
del tuo destin. Poiché sulle tue palpebre
la caligine oscura
gittasti, entro la reggia
trascini il viver tuo, che a lungo dura.
M’odi tu, che per l’aule
l’antico pie’, vagando incerto, inoltri,
oppur t’adagi su dogliose coltri?
Dalla reggia esce barcollando Edipo.

edipo

Perché dalla camera buia,
dov’io mi giacevo, o fanciulla,
con misere lagrime
hai voluto che uscissi alla luce,
poggiando al bastone
il cieco mio piede,
io, fatuo canuto

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fantasma, dell’ètere
io sogno volubile, io morto
dagl’Inferi sorto?

antigone

Udirai tristi nuove: i tuoi figli,
padre mio, piú non veggon la luce,
né la sposa che sempre al bordone
tuo presso, era guida
al cieco tuo pie’.
Oh padre, oh padre, ahimè!

edipo

Ahimè ahi sciagura! Non posso che gemere, piangere.
Narrami o figlia: come rapite
furon da un unico fato tre vite?

antigone

Non per ingiuria, non per ludibrio,
ma per doglianza parlo: il tuo Dèmone,
con fiero peso
di spade, ed impeto di fuoco, e furia
di tristi pugne, sui tuoi figli è sceso.
Oh padre, ahimè!

edipo

Ahi!

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antigone

               Perché gemi tanto?

edipo

Figlia!

antigone

               Ragione avresti ben di pianto,
se del sole potessi veder gli aurei cocchi,
e su queste due salme volger gli occhi.

edipo

È chiara dei miseri miei figli la sorte:
ma come, o figliuola, la sposa
spirò? Per che misera morte?

antigone

Tutti versare la videro lagrime, gemiti
levare, porgere
supplice il seno
supplice ai figli. Trovò la madre
i figli presso le porte Elettre,
che sopra un piano di loto florido
l’un contro l’altro l’aste vibravano,
si trafiggevano di colpi, fieri
come leoni figli d’un’unica
spelonca, gelida

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di sangue offerta sacrificale,
che Marte offerse, che Averno accolse.
Ed una spada di bronzo tolta di fra le salme,
nel proprio seno la immerse, cadde,
pel duol dei morti figli, tra i figli.
In questo giorno sopra la nostra casa raccolse,
o padre, tutti gli affanni il Dèmone
che questi eventi guida al loro esito.

corifea

Per la casa d’Edípo, è questo giorno
di molti mali origine. Deh, sia
la vostra vita in avvenir piú fausta!

creonte

Bastino i lagni omai, ché l’ora è già
di pensare alle tombe. Edípo, e tu
odi ciò ch’io dirò: di questa terra
il governo mi die’ tuo figlio Etèocle,
che sposa diede la tua figlia Antígone,
con la sua dote, al mio figliuolo Emóne.
Ora, io non lascerò che ancor tu viva
fra queste mura: ché Tiresia disse
ben chiaramente, che non mai fortuna
avrebbe Tebe, sinché tu vivessi
in questa terra. Or tu parti. E non già
per esserti nemico io te lo impongo,
né per ingiuria; ma le Furie tue
temo che alla città sciagura arrechino.

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edipo

O fato, o quanto me, sin dall’origine,
infelice rendesti e sventurato,
come alcun altro mai non fu degli uomini.
Pria che dal grembo di mia madre a luce
venissi, ancor non concepito, Apollo
a Laio profetò ch’io l’assassino
diverrei di mio padre. E come io nacqui,
misero me, volle mio padre uccidermi,
che m’avea generato, ei che pensava
che a lui nemico nato ero e ch’ei morte
aver da me dovesse. E mi mandò,
mentre io cercavo la mammella, misero
pasto alle fiere. Eppur, di qui fui salvo.
Deh, fosse allor del Tàrtaro fra i baratri
senza fondo, piombato il Citeróne,
che non mi sterminò! Mi diede un Dèmone
al re Pòlibo, servo. E poi che uccisi,
misero me, mio padre, il letto ascesi
dell’infelice madre, e generai
figli e fratelli miei, che poscia uccisi:
ché la maledizione ebbi in retaggio
da Laio, e ai figli la trasmisi: ch’io
tanto folle non son, che tanto scempio
contro le mie pupille e i figli miei
senza il voler di qualche Dio tramassi.
E sia. Ma che farò, tapino, adesso?
Al cieco piede mio chi sarà guida?
Questa ch’è morta? Se vivesse, certo
lo so, fatto l’avrebbe. O questa nobile
coppia dei figli? Ahimè, ché piú non sono!
Tanto giovin sono io, che la mia vita

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io possa sostentar? Perché, Creonte,
mi stermini cosí? Ché tu mi stermini,
scacciandomi da Tebe. Eppure, vile
non mi vedrai, le tue ginocchia stringere
non mi vedrai: non tradirò, per quanto
sventurato, la mia nobile origine.

creonte

Hai detto bene, che non vuoi prostrarti
ai miei ginocchi: ed io non lascerei
che tu qui risiedessi. Ora, di queste
due salme, una portata entro la reggia
sia; ma costui, che con gli estranei venne
a distrugger la patria, oltre i confini
gittato sia: senza sepolcro resti
di Polinice il corpo. E sia lanciato
ai Cadmèi tutti questo bando: chi
sarà sorpreso che ghirlandi o cuopra
questa salma di terra, avrà la morte.
E tu, lasciato il triplice compianto
di queste salme, nella casa, Antígone,
torna, a virginea vita; e il giorno attendi
in cui t’accoglierà d’Emóne il talamo.

antigone

Miseri noi! Fra che sciagure, o padre,
siamo piombati! E per te gemo io, piú
che per i morti: ché su te, sciagura
non s’aggrava qui piú, lí meno: in tutto

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sei sventurato, o padre. Ed a te chiedo,
nuovo signore: a che mio padre oltraggi?
Da questo suol perché lo scacci? E a che
contro un povero estinto un bando lanci?

creonte

È d’Etèocle voler, questo, non mio.

antigone

Oh folle! E folle tu, che ad esso ottémperi.

creonte

Come? I voleri suoi compier non debbo?

antigone

No, poiché tristi sono, empî comandi.

creonte

Che? Non è giusto darlo ai cani in pasto?

antigone

La pena che chiedete, equa non è.

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creonte

Sí: stranïer non era, e fu nemico.

antigone

E la pena al destino ei ne pagò.

creonte

Anche al sepolcro paghi adesso il fio.

antigone

Di che? Chiese la sua parte di terra.

creonte

Rimarrà senza sepoltura, sappilo.

antigone

Da me l’avrà, se pur Tebe lo vieta.

creonte

Seppellirai vicino a lui te stessa.

antigone

Bello è, presso giacer, due che s’amavano.

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creonte

Costei sia presa, e sia condotta in casa.

antigone

No, ch’io non lascerò questo cadavere.

creonte

Il Dio vuol questo, e non ciò che a te piace.

antigone

E legge è pur, che i morti non s’oltraggino.

creonte

Niun su costui porrà la molle polvere.

antigone

Per la madre Giocasta io te ne supplico.

creonte

Impetrar nol potrai: t’affanni invano.

antigone

Lascia che di lavacri almen l’asperga.

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creonte

Questo sia proibito a tutta Tebe.

antigone

Ch’io bende apponga alle selvagge piaghe.

creonte

Niun onor devi a questa salma rendere.

antigone

Che almen la bocca tua baci, o carissimo!

creonte

Non far di pianti alle tue nozze augurio.

antigone

Io, viva, nozze con tuo figlio stringere?

creonte

E schivarle potresti? È inevitabile.

antigone

Quella notte sarò nuova Danàide2.

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creonte

Vedi l’ardire suo? Vedi l’oltraggio?

antigone

Chiamo testi al mio giuro il brando e il ferro.

creonte

Perché ti vuoi da queste nozze sciogliere?

antigone

Esule andrò con questo padre misero.

creonte

Nobiltà tu dimostri, e insiem follia.

antigone

E se piú vuoi saper, con lui morrò.

creonte

Al figlio mio non darai morte: vattene.
Creonte parte.

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edipo

Lodo il tuo pronto buon volere, o figlia.

antigone

Dovrei sposare, e tu solo andar esule?

edipo

Resta felice: il mal patir saprò.

antigone

Chi di te cura avrà, padre? Sei cieco.

edipo

Ove il fato m’adduca, io lí starò.

antigone

Edípo ov’è? Dove gli enimmi celebri?

edipo

È spento: un dí beommi, uno mi strugge.

antigone

Non dovrei dei tuoi mali esser partecipe?

[p. 323 modifica]


edipo

Sconvien, col cieco padre errar la figlia.

antigone

Anzi, è bell’opra, se a modestia unita.

edipo

Guidami or tu, ché la tua madre io tocchi.

antigone

Stendi la mano: è qui l’antica salma.

edipo

O madre mia, mia sposa infelicissima!

antigone

Giace infelice, ed ogni mal l’oppresse.

edipo

E dove sono, Poliníce, Etèocle?

antigone

L’uno all’altro vicin distesi giacciono.

[p. 324 modifica]


edipo

La cieca mano appressa ai volti miseri.

antigone

Ecco, la mano ai morti figli appressa.

edipo

Misere salme, care al padre misero!

antigone

O Poliníce, o nome dilettissimo!

edipo

Compiuto dell’Ambiguo, ecco, è l’oracolo.

antigone

Quale? Altri mali ancor tu mi dirai?

edipo

In Atene morire esule devo.

antigone

Quale t’accoglierà terra dell’Attica?

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edipo

Colòno sacra, dell’equestre Nume3
soggiorno. Orsú, tu guida il padre cieco,
quando vuoi dell’esilio esser partecipe.

antigone

Muovi al misero esilio, padre mio, d’anni grave,
la man diletta porgimi:
io per te sarò l’aura che sospinge la nave.

edipo

Ti seguo, eccomi, o figlia:
e tu sii guida misera, al mio pie’.

antigone

Misera, sí; fra le tebane vergini,
niuna ve n’è misera al par di me.

edipo

Dove sospingo il vecchio
mio pie’? Porgimi, o figlia, il mio bordone.

antigone

Qui seguimi, qui seguimi,
il piede qui, qui colloca,
o tu di sogno fatua visïone.

[p. 326 modifica]


edipo

Ahi, miserrimo esilio!
Ahimè, bandirmi cosí grave d’anni!
Ahimè, patisco atroci, atroci affanni.

antigone

Dai tuoi lagni desisti:
non punisce degli uomini
Giustizia le follie, non vede i tristi.

edipo

Io son quei che di gloria
e di vittoria sino al cielo ascesi,
perché l’inesplicabile
della vergine Sfinge enigma intesi.

antigone

Perché la gloria vai della Sfinge
rammemorando? T’opprime or misera
calamità,
che dalla patria via ti sospinge,
padre, a morire dove sarà.
Ed io, lasciando brama di lagrime
alle fanciulle dilette, in bando
vo’ dalla patria,
come a fanciulla sconviene, errando.
Ma la mia pïetà

[p. 327 modifica]

verso il mio padre misero,
buon nome a me darà.
Me tapina! E gli oltraggi al mio fratello
fatti, che dalla reggia
lontano giace, spento e senza avello?
Dovessi, o padre, anche morir nell’opra,
debito è che di terra io lo ricopra.

edipo

Toma alle amiche care.

antigone

Son sazia dei miei lài.

edipo

Torna alle preci, all’are.

antigone

Son sazia dei miei guai.

edipo

Almen torna ov’è Bromio
e l’alpestre inaccesso
recinto delle Mènadi4.

[p. 328 modifica]


antigone

Al Dio per cui la nèbride
cadmèa cingevo spesso,
celebrando per Sèmele
del tíaso i sacri riti?
Offersi onore ai Súperi,
ma furon mal graditi.

edipo

Or mirate questo Edípo, voi di Tebe abitatori,
che spiegò l’arcano enigma, ch’ebbe un giorno i sommi onori,
che le stragi della Sfinge, che il poter troncò da solo,
ora in bando, afflitto e misero lungi va da questo suolo.
Ma perché vado gemendo, perché mai lagnarmi? Il male
che proviene dai Celesti, sopportar, deve un mortale.

coro

O grande, o veneranda,
Vittoria, non desistere
dal protegger la mia vita, dal cingere
al mio crin la ghirlanda.

Note

  1. [p. 339 modifica]La tromba è detta tirrena, perché se ne favoleggiarono inventori i Tirreni.
  2. [p. 339 modifica]Sarò nuova Danaide, ucciderò, cioè, nella prima notte di matrimonio il mio sposo, come già uccisero il loro le cinquanta figlie di Danao.
  3. [p. 339 modifica]L’equestre Nume è Nettuno, perché a lui erano sacri i cavalli.
  4. [p. 339 modifica]L’alpestre inaccesso recinto delle Menadi è il monte Citerone, sacro a Bacco.