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LE FENICIE 315



edipo

O fato, o quanto me, sin dall’origine,
infelice rendesti e sventurato,
come alcun altro mai non fu degli uomini.
Pria che dal grembo di mia madre a luce
venissi, ancor non concepito, Apollo
a Laio profetò ch’io l’assassino
diverrei di mio padre. E come io nacqui,
misero me, volle mio padre uccidermi,
che m’avea generato, ei che pensava
che a lui nemico nato ero e ch’ei morte
aver da me dovesse. E mi mandò,
mentre io cercavo la mammella, misero
pasto alle fiere. Eppur, di qui fui salvo.
Deh, fosse allor del Tàrtaro fra i baratri
senza fondo, piombato il Citeróne,
che non mi sterminò! Mi diede un Dèmone
al re Pòlibo, servo. E poi che uccisi,
misero me, mio padre, il letto ascesi
dell’infelice madre, e generai
figli e fratelli miei, che poscia uccisi:
ché la maledizione ebbi in retaggio
da Laio, e ai figli la trasmisi: ch’io
tanto folle non son, che tanto scempio
contro le mie pupille e i figli miei
senza il voler di qualche Dio tramassi.
E sia. Ma che farò, tapino, adesso?
Al cieco piede mio chi sarà guida?
Questa ch’è morta? Se vivesse, certo
lo so, fatto l’avrebbe. O questa nobile
coppia dei figli? Ahimè, ché piú non sono!
Tanto giovin sono io, che la mia vita