IV

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III V
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IV.

Al mattino seguente il marchese d’Aragona mandò alla signora Primicerio un mazzo di rose bianche e di vainiglia. Toto era uscito. Checchina si faceva pettinare da Susanna: aveva gli occhi socchiusi e le labbra sbiancate, come chi ha mal dormito. Si fisava nello specchio, senza [p. 38 modifica]vedersi, come trasognata: quando vide il mazzo di fiori, si confuse, lo prese pe’l gambo, lo strinse al petto, sbalordita:

— Il cameriere aspetta — disse Susanna, con la voce dura e secca.

— Aspetta? gli dirai... gli dirai, Susanna, che ringrazio tanto il signor marchese... e che lo ringrazia anche mio marito. Va... senti, non sarebbe meglio scrivere un biglietto di ringraziamento?

— So molto io — borbottò l’altra, con una spallata.

— Senti, io non posso passare dinanzi al cameriere in sottana di flanella: fammi il favore, prendi un foglio di carta, una busta, il calamaio, la penna, e porta tutto qui. [p. 39 modifica]

Mentre Susanna si attardava, di là, Checchina con la faccia china sul mazzo delle rose, pensava a quello che avrebbe scritto al marchese: era presa dalla vergogna di non saper scriver bene, di far qualche grosso errore di ortografia. Era da tanto tempo che non scriveva più una lettera: e il marchese, sicuramente, doveva ricevere di mirabili bigliettini da quelle fantastiche principesse, sue parenti. Esse dovevano scrivere su quella fine carta che pare raso, che Isolina ci si rovinava a comprarne una scatola, una carta che odora di buono, come tutte le cose di questa gente nobile e ricca. Ella, Checchina, non aveva carta, salvo quei larghi fogli da ricetta, di suo marito, che portavano per [p. 40 modifica]intestatura: Antonio Primicerio, medico-chirurgo, consultazioni dall’una alle tre, Via del Bufalo: — larghi fogli che putivano di acido fenico come tutte le cose che Toto toccava, come ella stessa, Checchina, che ogni tanto si fiutava le maniche del vestito, per trovare la traccia di quel cattivo odore.

— Non vi è la busta — disse Susanna, rientrando.

— E come faccio, ora?

— Pieghi in quattro un foglio grande e lo chiuda con la mollica del pane.

— No, preferisco far senza. Dì’ al cameriere che ringrazî per me il marchese: ma... senti, bisognerà dargli qualche cosa a questo cameriere? [p. 41 modifica]

La serva fece una smorfia, come se non volesse intervenire.

— Ce l’hai una lira, Susanna? — pregò la padrona con la voce e con lo sguardo.

— Come vuole che ce l’abbia? Alla grazia dei quattrini che mi consegna, la mattina! Tutto è caro, il beccaio è fuori del timor di Dio e alla verdura non ci si può avvicinare, per non far peccato d’ira e di superbia. Mi sono rimasti pochi soldi in tasca... — Contali, Susanna, fossero mai una lira — le tremava la voce e aveva le lagrime negli occhi.

— Appena appena otto soldi e ho da comprare il sale per la minestra e il cacio per la trippa. [p. 42 modifica]

— Dà questi otto soldi al cameriere, e che ringrazi il suo padrone e che lo preghi di scusarmi se non ho scritto... Va’, Susanna, al sale ci penseremo...

— Già lo sa lei, che il tabaccaio credito non ne fa.

Checchina chinò la testa: mentre di là, Susanna parlava col cameriere, la padrona arrossiva, arrossiva di scorno per quegli otto soldi così meschini, così miserabili, che quel cameriere, avvezzo alle mance principesche, avrebbe certo disprezzato. Quando udì chiudere la porta, respirò di sollievo.

— ...li ha presi?

— Sfido io!

E in silenzio ricominciò a passarle [p. 43 modifica]il pettine nella foltezza dei capelli bruni. Checchina, fra le palpebre semichiuse, seguitava a guardare i fiori, a seguire il sottile traforo della lieve carta che li circondava.

— Dove lo vuol mettere quel mazzo?

— Qui...

— Stia attenta che la puzza dei fiori fa male al capo. Glielo avverto perchè una signora dove ero a servizio, ne prese un mal di testa, uno sturbo da morirne.

— Allora li metteremo in salotto.

— E dove li farà bagnare? Non ci sono vasi.

— In un bicchiere...

— Sono tutti troppo piccoli... [p. 44 modifica]

— È vero — mormorò la padrona, umiliata — sono troppo piccoli.

— Mi senta — riprese Susanna — che le do un santo consiglio. Il meglio che possa fare, è di mandare questi fiori alla Madonna Immacolata in sant’Andrea delle Fratte. Glie li dia col cuore, come dice il predicatore, e ne avrà doppio merito innanzi a quella Vergine Immacolata. Già...non si sa mai, fiori, dolci, gioielli, sono opera del diavolo e inducono in tentazione. Scansi il pericolo; mandi i fiori alla Madonna.

— Almeno aspettiamo Toto, che li veda; ne avrà piacere — disse Checchina, a voce bassa, vinta da un timore interiore.

— Sì, piacere! Se lui dice che i [p. 45 modifica]fiori costano troppi denari e non significano nulla e non servono a nulla, salvo i fiori di tiglio per far sudare e i fiori di camomilla per il mal di pancia!

— Allora portali tu alla Madonna, questi fiori.

Seguì con l’occhio quelle rose bianche dal seno rosato, quella mite vainiglia: poi cercò di scuotersi da quel torpore. S’infilò la giacchetta del suo brutto vestito di casa, cercò di rialzarne il merletto bianco del collo che era tutto gualcito, e andò a sedersi nella stanza da pranzo: per stanchezza, per disgusto, non ebbe la voglia neppure di compire il suo solito giro mattinale nella casa, per vedere se vi fosse polvere sui mobili, se gli angoli delle stanze [p. 46 modifica]fossero bene spazzati, se il focolare di mattoni lucidi, a scacchetti bianchi e neri, fosse stato lavato. Si sarebbe buttata sul letto, vestita com’era, per dormire, se la coperta di cotonina rossa e gialla, imbottita di bambagia, non le avesse dato un senso di freddo. Si mise a marcare di rosso con le iniziali A. P. e col numero progressivo, certi strofinacci nuovi, a cui aveva già fatto l’orlo. Lavorò per mezz’ora, come in sogno, cercando di vincere la sonnolenza, applicandosi a contare i fili, mentre le palpebre le battevano.

Lo strofinaccio era caduto per terra, lasciando sul vestito nero la gugliata rossa, come un filo di sangue: a Checchina le mani giacevano in [p. 47 modifica]grembo, inerti. Provava certi lenti brividi di freddo per la persona, con una pesantezza vincente della testa. Sui mattoni grezzi del tinello, i piedi, calzati da un vecchio paio di stivali di prunella, s’irrigidivano: trasse innanzi a sè una sedia e li appoggiò al cannello. Aveva una voglia grande di sdraiarsi in una poltrona lunga e soffice, dalla stoffa liscia liscia di seta che scricchiola dolcemente, affondando i piedi in un tappeto caldo e molle. Di queste carezzanti morbidezze egli le aveva parlato: e in quel dormiveglia un po’ penoso, stringendosi tutta nella vesticciuola di lana, ficcando le mani nella larghezza delle maniche, per aver caldo, chinando il capo sul petto, tutta [p. 48 modifica]raccolta; ella pensava che dovesse essere di bello, di confortante quel nido caldo, ombroso, profumato, dove si affondava nella piuma e non si udivano rumori. Le ronzava nella testa la voce di lui, così soave, così soave, mentre le parlava.

Nel dormiveglia, pensando, sognando, le pareva udire di nuovo quella voce profonda, toccante, carezzevole, che alle più dolci parole dava un’intonazione musicale: le pareva di respirare nell’aria, intorno a sè, quell’odore fresco, quasi giovanile, di violetta. — Una scossa nervosa la fece trasalire, le fece aprire gli occhi: tremava dal freddo, ora, in quella oscura stanza da pranzo, con quella umidità di novembre. Le mani [p. 49 modifica]bruciavano, le braccia le dolevano, in una gamba sentiva un formicolìo, come la puntura di mille spilli. Andò in camera sua, zoppicando, battendo i denti, si avvolse in uno scialle di lana, a quadrettini grigi e azzurri, che era già stato lavato quattro volte. Oh! avesse avuto una pelliccia almeno, come tante altre donne fortunate che incontrava per il Corso, tutte ridenti, chiuse ermeticamente nella rotonda nera che lascia vedere solo l’orlo del vestito; ma con Toto, non era il caso neppur di parlarne. Costavano, le meno care, quarantacinque lire, somma enorme. Uscire con la pelliccia, sarebbe stato tanto bello, tanto signorile, anzichè con quel vecchio [p. 50 modifica]mantello di panno nero, il cui passamano aveva perduto tutte le perline ed era diventato rosso. Allora una grande malinconia la invase: la privazione delle cose ricche ed eleganti che aiutano e fanno risplendere la bellezza feminile.

Aprì l’armadio dei vestiti e si diede ad osservarli minutamente, con una cèra afflitta: quello di estate, di lanetta a grandi scacchi gialli e verdi, era troppo chiaro, dava troppo all’occhio, la ingrossava, era troppo freddo, non ci si poteva pensare. Quello di seta nera, lo usava da quattro anni, era liso su tutte le cuciture, specie nel busto, dove le stecche di balena consumano maledettamente la stoffa; era troppo [p. 51 modifica]miserabile, sarebbe parsa una stracciona, non lo poteva mettere. Non le restava che il suo vestito di lana foglia morta, quello che portava la sera prima, al pranzo, quello stesso, sempre quello, quell’unico. Non aveva altro, doveva da capo infilarsi quello e fare la medesima figura della sera prima, cioè quella di una povera meschina, che il marito tiene a stecchetto. Oh quel Toto così taccagno, così attento al centesimo, che discuteva ore intiere sopra la spesa di una mezza lira! Quel Toto così sospettoso di essere rubato, che riuniva la moglie e la serva nello stesso sospetto, e le vigilava, e le guardava con un certo sorriso maligno, il sorriso dell’uomo furbo a cui nessuno la fa, [p. 52 modifica]che arrivava loro alle spalle, improvviso, quando parlavano sottovoce, in cucina — e loro che restavano interdette, Checchina pallida pallida e Susanna rabbiosa. Perchè non glielo avrebbe fatto un vestito di casimiro nero, di quella bella lana fina che fa le pieghe così larghe e si tende sul busto come un guanto e diminuisce le persone troppo grasse? Ma che! Ce ne volevano almeno dodici metri, a cinque lire il metro, erano sessanta lire, e una ventina di lire alla sarta, fra spese e manifattura, il meno che si poteva — il casimiro si guarnisce da sè — dunque, ottanta lire, per una volta sola, ma un vestito di quelli si porta sempre, è sempre elegante e dura un secolo. [p. 53 modifica]Da due anni, ogni tre mesi litigavano con Toto per questo vestito:

— Scusa, perchè te lo avrei da fare? Quelli che hai, non ti bastano? sono tanti! Hai da far la bellina per me? Checca mia, oramai ti conosco, ti so molto, e questo civettìo non serve più.

— Allora io ho da andare come una stracciona, nevvero? E la gente attorno dirà che sei un medico senza clienti e senza quattrini!

Ma non andavano più oltre le ribellioni della natura flemmatica e timida di Checchina. Ella si stringeva nelle spalle, si rassegnava, ricadeva nella sua apatìa, riaccomodava i suoi vecchi vestiti, li faceva tingere, li faceva lavare. Ma ora, ora [p. 54 modifica]sorgeva ardente, vivissimo il desiderio di questo vestito nero. Le sarebbe andato così bene, tutto semplice, coi bottoni di pastiglia nera, col fazzoletto di velo bianco avvolto al collo, come un collarino monacale, con una di quelle spille d’argento che sono formate dalle lettere di un nome: Fanny, che Suscipi le vende, a buon mercato. E su la pelliccia e il cappello... come era brutto il cappello che aveva! Era di paglia nera che aveva perduto il lucido, foderato di velluto nero, con una falda dritta e un’altra abbassata, una piuma nera, piccola, povera, che aveva perduta l’arricciatura e pendeva, sfilacciata, come se avesse preso una grande bagnatura. Visto sulla testa, [p. 55 modifica]di sotto in su, il cappello non stava male: ma a guardarlo di dietro, era una pietà. Ecco, ci sarebbe voluta una cappottina di velluto nero, semplice, con un piccolo diadema e un gruppetto sollevato di pennine nere, niente che un fiocchetto, e i nastri anche di velluto che si annodano sotto il mento: ne avevano tutte le modiste, di queste cappottine, e costavano da venti a venticinque lire. Col vestito nero e con la pelliccia, sarebbe stata una cosa meravigliosa. Ma niente, niente: ella non aveva niente di tutto questo, non lo avrebbe mai avuto, tutto era inutile, tutto, tutto, era impossibile.

Ebbe una mezz’ora di annullamento nella desolazione, mentre in [p. 56 modifica]cucina Susanna grattava la tavola con un grosso coltello, per raschiarne l’unto. Quel rumore monotono, continuo, finì con lo scuoterla, col darle animo. Qualche cosa bisognava fare. Si mise a frugare nel cassetto dell’armadio, fra i vecchi fiori artificiali dai petali sgualciti, fra le piumette rôse dai tarli, fra i rotoletti di straccetti. Vi era una cappottina di raso nero, di due anni prima; la forma era troppo alta, sulle pieghe il raso mostrava la trama di cotone, non vi erano nè fiori nè piume. Ma scucendola, questa cappottina, e rifacendola, nascondendo le pieghe consunte, mettendovi la piuma del cappello rotondo, che si poteva arricciare con le forbici, ne [p. 57 modifica]poteva venir fuori un cappellino passabile, ma senza le sciarpe. Subito, presa da una voglia di far presto, si mise all’opera, scucendo, ricucendo, piegando, ripiegando quel poco raso, non riuscendo a celarne le strisce consumate, impazientandosi. Ne venne fuori un certo coso informe, tutto sbuffi e gonfiamenti: ma la penna avrebbe accomodato tutto questo. La tolse dal cappello rotondo e l’appuntò con gli spilli su quello che rifaceva, per provare. Innanzi allo specchio, si guardava, con quel cappellino troppo piccolo sul capo, con la penna che andava di traverso, e vedeva di aver fatto un pasticcio.

— Che fai qui? — chiese il marito, arrivandole alle spalle. [p. 58 modifica]

Ella si rivolse precipitosamente, spaventata come se avesse commesso un delitto, imbarazzata; con quel berretto sul capo.

— Che fai qui? — ripetè lui.

— Niente: provavo ad accomodarmi un cappello, perchè non ne ho, come tu sai.

— Alle solite, neh, Checca mia? Sarebbe meglio pensassi alla minestra di cicoria, che Susanna ha dimenticato di metterci una cotenna grassa di maiale. E dire che lo sai, quanto mi piace la cotenna!

— Come ti pare questo cappello? — chiese lei.

— E che vuoi che io ne capisca, dei vostri capricci femminili? So molto io, dei vostri cappelli! [p. 59 modifica]

— Ma pure, dimmelo, Toto — supplicò lei.

— Ti sta male, ti sta male, ecco tutto, giacchè vuoi la verità. Era meglio l’altro.

Ella si tolse lestamente di capo quel berretto strano e ne staccò la piuma.

— Ora non è tempo di far cotesto, Checca — esclamò il dottore, con la sua grossa voce — ora si mangia.

A tavola, mentre Toto tagliava il lesso rassegnato, Checchina gli disse del mazzo di fiori, come per caso, guardando nel piatto.

— Già, tutti compagni questi nobili — rispose il medico — tutti a un modo. Gli date un pranzo che vi costa su per giù un trentacinque [p. 60 modifica]lire, tanto che voi ci mangereste dieci giorni, cavate i quattrini dalle vostre vene, chè vi sfacchinate dalla mattina alla sera, toccando polsi di gente malata, guardando lingue sporche e altre cose più sporche ancora, infine cercate di far buona figura, dandogli da mangiare, lui viene, mangia il pranzo come se nulla fosse, chi si è visto s’è visto, la mattina dopo un mazzo di fiori alla signora!

— Così usa, forse — disse ella, guardando nel bicchiere, dove vi erano poche gocce di un vinello bianco dei castelli.

— Usa, usa! Non mi parlare dei loro usi, di questi aristocratici. Dammi quella trippa: è fatta col lardo, nevvero, Checca? Usano una [p. 61 modifica]quantità di scempiaggini, questi signori: i fiori costano tanto denaro e non servono a niente. Ci voleva il cacio pecorino, su questa trippa. Susanna, perchè non ce lo avete messo, il cacio pecorino?

— Non avevo più quattrini, per comprarlo — gridò quella dalla cucina, con un grande rumore di forchette e di coltelli.

— Tutto avete speso?

— Tutto.

— Al solito, sempre la stessa antifona! aveste mai un soldo da restituire!

— Ci è stata la mancia al cameriere del marchese — replicò la serva alacremente.

— Anche la mancia?! [p. 62 modifica]

Checchina ingoiò in fretta un bicchiere d’acqua, tutto intiero.

— Anche la mancia: ecco a che servono i fiori, a farmi mangiare la trippa senza cacio. Ma se crede così uscire d’obbligo, il signor marchese! Debbono essere affari, debbono essere clienti, quelle trentacinque lire di pranzo ch’egli s’è pappate! Vedremo se è galantuomo, il signor marchese. Frutta, da ieri, non ce ne sono restate?

— No — rispose la moglie.

— Susanna, porta allora le caldarroste — gridò il medico.

Dopo pranzo egli si andò a sedere nel suo scrittoio, aspettando le consultazioni che avrebbero dovuto esserci dall’una alle tre, ma che [p. 63 modifica]venivano di rado, una, ogni tre o quattro giorni: per lo più egli apriva un libro di medicina e vi si addormentava sopra, sul seggiolone di pelle nera, coi piedi sotto la scrivania. Checchina era restata a tavola, pensando, rompendo le cortecce vuote delle caldarroste in minuti pezzetti, mentre Susanna sparecchiava. Nella stanza ondeggiava l’odore della cicoria bollita e quello della trippa in umido.

— Per la cena basterà l’arrosto di abbacchio e la insalata di patate? — domandò Susanna, tirando a sè la tovaglia e scotendola per farne cadere le molliche di pane.

— Basterà — le rispose Checchina, restando ancora al suo posto, [p. 64 modifica]incapace di levarsi su, ripresa da quel letargo della mattina.

— Ho parlato col padre Fileno, stamane, a Sant’Andrea delle Fratte — riprese la serva, familiarizzandosi, in quella benevolenza della digestione. — Quel santo sacerdote si lagna, che lei non ci vada più spesso.

— Potevi dirgli che Toto ci s’inquieta e mi grida.

— Gliel’ho detto che il padrone non ci crede, perchè sa come è fatto dentro l’uomo e perchè vede morire di mala morte tanti cristiani, che Sant’Andrea Avellino, protettore degli agonizzanti, ci scampi e liberi. Ma già questi uomini sono tutti a un modo: stanno bene e si ridono della religione e peccano come tante [p. 65 modifica]anime dannate — poi, quando sono ammalati, chiamano Dio e la Madonna... basta, ho detto al padre Fileno che sarei andata oggi a confessarmi. Me le dà due ore di permesso, quando il signore va a Santo Spirito?

— Non potresti andare un altro giorno, venerdì? — fece la padrona, come sbadatamente.

— No, no, gli ho detto che sarei andata oggi. Perchè vorrebbe mandarmici venerdì?

— Va’ pure oggi, fa’ come vuoi — e si strinse nelle spalle, come una persona che ha fatto tutto quello che poteva.

Dopo, ricucita la piuma sul cappello rotondo, ripose tutti quei [p. 66 modifica]cenci, quei pezzetti di nastro, quello scuffiotto di raso nero, con un sospiro. Giammai avrebbe osato chiedere dei quattrini a Toto. Si rassegnava, soffrendo, in silenzio, pur di non udire quella grossa voce che calcolava il valore di un soldo e gliene rinfacciava la spesa, pur di non udire le domande sospettose di Susanna. Ora rifaceva le iniziali rosse agli strofinacci, dove le aveva sbagliate, al mattino. Non poteva pensare a quello che le mancava per essere vestita bene: non voleva pensarci, per non affliggersi più. A che contristarsene? Solo un momento, in due ore, si alzò per vedere quello che faceva suo marito. Dormiva, russava [p. 67 modifica]sopra un grosso libro, con la bocca socchiusa e storta, la testa china sopra una spalla, il panciotto sbottonato che lasciava vedere la camicia bianca e la camicia di flanella. In cucina Susanna faceva dei piccoli buchi nella polpa rosea dell’agnello da arrostire, per ficcarvi del rosmarino e del pepe. Poi, alle tre e mezzo Toto si svegliò di pessimo umore, chiese il soprabito pesante, il fazzoletto da collo per quando usciva da quel maledetto ospedale, bestemmiò la professione di medico, chi l’aveva presa e chi la prendeva, e se ne andò, sbattendo la porta. Checchina taceva, come sempre, quando lo udiva gridare. Poi Susanna si mise il vestito di lanetta marrone, color [p. 68 modifica]monacale, il velo nero sul capo, lo scialletto nero sulle spalle e venne a salutare la padrona.

— Raccomandami a Dio — le disse costei, sospirando.

— Indegnamente — rispose l’altra, tutta compunta.

Finalmente era sola, per due ore, di poter andare, venire, pensare, libera, almeno in questo. Ora più che mai le bruciava dentro la ferita del non aver vestiti. Quelle principesse che ne cambiavano tre al giorno, le cui cameriere vestivano con maggior eleganza di lei, Checchina! Quelle principesse che certo visitavano, nelle ore dei convegni, l’appartamento del marchese d’Aragona! Ella doveva andarci così, come una [p. 69 modifica]stracciona, con quella roba vecchia di cui si vergognava?

Una forte scampanellata la scosse: restò interdetta, non osando aprire, guardandosi intorno, ritta in mezzo alla tela gialla degli strofinacci. Chi poteva essere? Suonarono di nuovo, più forte. Bisognava aprire. Finì col chiedere a voce tremante, di dentro:

— Chi è?

— Amici; apri, Checca, sono io, Isolina.

— Ah! sei tu — disse Checca, come delusa, aprendo.

— Sola, eh? Quanto mi fa piacere! Un bacione, anzi due su questa bella faccia pallida. Che hai, core mio?

— Niente: non ho niente.

— Hai avuto paura che fossero i [p. 70 modifica]ladri? Si sentono tanti brutti racconti, che io faccio sempre domandare chi è, da Teresa. Già Teresa ha sempre da chiacchierare, fuori la porta: ora con un bimbo, ora con una donna, ora con un vecchio: è una disperazione.

— Come sei bella, oggi, Isolina!

— Non ti pare? — e si levò in piedi, per farsi veder bene.

— Tutto per Giorgio, tutto per quel caro amore mio — riprese, sedendosi.

— Sei ancora da lui, oggi? — chiese l’altra, dopo una esitazione.

— Ancora, sempre che posso, appena ho mezz’ora di libertà, scappo da lui. Oggi, vedi, sapevo che mio marito usciva alle cinque; gli ho [p. 71 modifica]scritto, a Giorgio, che sarei andata dalle cinque alle sei. Sai, sono le ore migliori, per gli appuntamenti. Invece quella bestia di mio marito va via alle tre e mezzo e io perdo un’ora e mezzo. Giorgio non andrà a casa sua che alle cinque meno cinque minuti. Ho pensato: ora vado da Checca e sto un po’ con lei: mi servirà anche di scusa, se mio marito dovesse domandarmi dove sono stata. Se tu dovessi vederlo, gli dirai che sono stata qui fino alle sei. Tra amiche, sai...

— Glielo dirò — e sorrise lievemente. — Questo cappello è nuovo, nevvero?

— Sì, nuovo: figurati, non l’ho pagato ancora. Ma la Coppi mi [p. 72 modifica]conosce, mi aspetterà. Avevo dei quattrini, ma ho dovuto comprare le scarpette.

— Queste qui, lucide, dorate?

— Queste qui, core mio: niente meno costano sedici lire, da Carducci, un orrore di prezzo, ma vedi che tacco alto, che impuntura, che punta sottile!

— Sono bellissime.

— Giorgio adora i piedini ben calzati. Se tu sapessi, come sono strani, gli amanti! Io avevo dei fazzoletti semplici, di tela bianca, con una lettera I ricamata, mi restavano del mio corredo. Che! niente affatto, Giorgio vuole che io porti i fazzoletti di batista, con un merletto intorno, come questo. [p. 73 modifica]

— È bellissimo.

— Costa cinque lire. Poichè gli piace di fare lo scherzetto, di stringere le mani nel manicotto, ho dovuto comprare questo, per nove lire. Ti piace?

— È bellissimo.

— Non puoi credere, come si spende: è una rovina, ninuccia mia. Faccio una quantità di pasticci, d’imbrogli, di debiti, una cosa da impazzire. Ora, per tutta questa roba che mi serviva, ho pigliato sessanta lire in prestito, da una donna che conosceva Teresa, che dà il denaro a usura. Invece di sessanta, debbo restituirne centoventi, il doppio, a sei lire la settimana. Il brutto è che, se non si paga ogni sabato, quella [p. 74 modifica]strega viene, si siede in anticamera e aspetta. Giusto, questa prima settimana non ho avuto da pagare. Che ci è voluto per mandarla via! Ho dovuto pregarla, gridava...

— Povera Isolina!

— Che importa? Per Giorgio farei tutto.

— Dicevi che questa donna presta denari?

— Ti serve, forse? — chiese Isolina, alzandole gli occhi in volo.

— No, no... dicevo per dire.

— Credevo... Ma è difficilissimo averne. Per nulla, minaccia di parlare al marito: una scellerata...

— Per carità! Anche quello spillo è nuovo?

— Sì, l’ho comprato ieri. Ora si [p. 75 modifica]usano i ferri di cavallo, sono in gran moda. Le signore lo hanno in brillanti, io l’ho in argento. Non importa, non vorrei avere i brillanti, vorrei almeno avere un orologetto d’oro, uno di quei piccolini, sai, come un medaglioncino. Non puoi credere che è di terribile non aver l’orologio, quando si ha l’amante! Si sbaglia già sempre l’ora. Arrivi, è troppo presto, non vi è: è una morte lenta. Arrivi tardi, è passato un quarto d’ora, per un altro quarto d’ora egli ti porta il broncio, gli uomini si seccano di aspettare. Sei da lui, ogni cinque minuti gli domandi: che ora sarà? Quello s’irrita di questa domanda. A casa ritorni sempre in ritardo, con una cèra sbalordita che [p. 76 modifica]è un miracolo non ti tradisca. Dio mio, che farei per avere un orologio! Adesso, per esempio, che ora sarà? Sono o non sono ancora le cinque?

— Io non so: non ce l’ho, io, l’orologio.

— Vedi, non so se andare o no. Basta, cara, è meglio che me ne vada. Vieni da me, poi, un giorno?

— Certo, verrò.

— Fammelo sapere almeno. Ma già, non ci credo. Resti sola, ora, qui?

— Sola.

— E che fai?

— Nulla.

— Buon tempo perduto! Un bacio, cara. Purchè io non incontri nessuno! [p. 77 modifica]

Quando fu sola, nell’ombra del crepuscolo, Checchina si mise a piangere. Ella non aveva nè scarpette dorate, nè i fazzoletti di batista, nè il manicotto, nè lo spillo a ferro di cavallo, nè l’orologio. Piangeva, poichè non aveva niuna di queste cose che servono all’amore.