La vigna selvaggia
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Morire, quando soffia la tempesta rimpiangendo il sole, quando non s’ode più il canto degli uccelli e l’estate sta per chiudere le sue feste: Della graziosa e piccola farfalla è cosi che^ passa la vita; quando volevi ghermirla, non comprendevi dunque il mio lamento? Alla bestiola volubile, va, lascia ancora la libertà; rubargliela sarebbe triste, lasciala volare, pastorella. È la gaiezza del maggio; della primavera è l’allegrezza, dà ai fiori tutta la sua tenerezza; non sopravvive mai quando essi muoiono.
GODELIVE.
Come la brezza dietro le nubi, io ho errato sulle alture, cercando la visione fuggitiva che intravidi un giorno. O Godelive. del trovatore non rifiutare l’amore! Nell’anima mia si accende di più in più quest’ardore, del sentimento che mi cattiva io amo il turbamento si dolce. O Godelive. Le tue pupille sono di dea, il tuo sguardo uno splendore, fiamma ardente, vivificante che caccia il crepuscolo. O Godelive. 16
LA FARANDOLA.
La Farandola, noi la faremo ad ogni costa, senza aver mai fastidio; presto, presto, presto, intrecciati, la mano nella mano, come una lunga matassa, e salteremo fino a perdere il fiato. Eccita le gentili fanciulle, che gireranno coi bei giovani, gl’innamorati sono cantori, e per cantare non ve n’ha di più bravi. Il tamburo batte, e la musica ci fa subito trasalire, da non dirsi. Oggi facciamo festa, togliamo l’abito, con maggior comodo, balleremo più che mai! Gilè in Provenza, quale gioia quando s’odono Hauti e tamburini! Le nostre amiche sentono un formicolio nelle gambe, e ciò le eccita. Ecco la folla, la farandola ondeggiando si svolge laggiù, poi con altre mosse in mezzo alla via si forma la spirale Sempre dardeggia e mette tutto in moto il nostro sole col suo buon calore: sempre brilla e rende le nostre fanciulle gentili e belle, ardenti per l’amore. Della Provenza, bella gioventù, sii a lungo la speranza e il sostegno. H voi, fanciulle tanto vezzose, porgete sempre le vostre gote ai baci. La farandola, noi la faremo ad ogni costo senza mai averne fastidio, presto, presto, presto, intrecciati, la mano nella mano, come una lunga matassa, e danzeremo sino a perdere il fiato.
ALLA VERGINE.
Il tuo nome ha il profumo d’un mazzo di rose, e la tua mano pietosa sparge la rugiada delle gioie celesti e della felicità. siccome un’acqua di frescura cheil sole tinge di rosa lo divido le strofe della mia prosa ingenua e credo piluccare un grappolo d’uva, e se verso te sale il voto del mio vicino, la mia preghiera pure, innalzandosi, l’incrocia. Tu sei la lampada d’oro notturna della Casa e spargi, o Maria, sul nostro arduo cammino il bianco abbagliante dei merletti; Perchè la tua veste è più bianca della neve e, come un pescatore sdraiato sotto la tenda, io ammiro il tuo sguardo splendere nelle stelle.
PER LA MORTE D’UNA FANCIULLA.
Nel dolce mese, quando verdeggia e fiorisce la campagna, che al gran sole sull’erba risplende la rugiada, quando il cielo si veste del più bell’azzurro* e il canto dell’amore si diffonde limpido, la fanciulla, o meschina, nella sua grazia ideate, moriva come una santa, spiegando l’ali al cielo. Attorno alla morente, muti dal dolore, il padre e la madre prorompevano in pianti e pregavano Dio che nella sua grandezza immensa, volesse aver pietà d un angelo d’innocenza. Era spettacolo triste, spettacolo di morte, nei piu begli anni, e quando s’apre il cuore ai fremiti d amore e del divino mistero, quando la vita sorride coi più gai colori. Ella, nata all’aurora d’un mattino d’aprile, splendida nella sua bellezza come un sole d’estate, amata dai parenti e dalle amiche, ora la morte crudele, nemica dell amore, recide il bel fiore ebe nei suoi freschi colori, diffondeva nell’aria un olezzo inebbriante. Piangete, monti e valli, alberi della pianura! Piangete, fiori ridenti, dal mare alle colline! È morta la fanciulla all’alba della vita. Ecco per la campagna tutto il paese che piange. Si nasconderà il suo bel corpo laggiù nel cimitero, in mezzo ad altre tombe in un triste mistero; nel senu della terra è aperta l’orrida fossa, ove le ossa della vergine troveranno pace, e si vedranno giovani e fanciulle pregare in memoria della gentile, che aveva i capelli neri e lucidi come seta, il volto amoroso e ridente di bellezza; Che aveva i fiori del seno candidi e procaci, gli occhi fulgenti come le stelle, ch’era regina e diva nei bei giorni della primavera, come Isaura e Laura nel buon tempo antico. Cun gli occhi piangenti tutte le belle fanciulle, gitteranno alla morte, alla diva crudele, una voce, suprema, segno del loro dolore: — O tu che vivi sempre nei tuoi oscuri rifugi, che sei dei gai giovani e di noi amanti lo spavento ed il timore (quando siamo felici), che colla tua ala nera nascondi il sole, che sei più fredda che in inverno la bianca neve, perchè dentro la tomba chiudi la giovinezza dell’amata fanciulla e la sua gentile bellezza? E piangono. La natura immortale, d’intorno, meravigliosa mostra agli sguardi la sua grandezza, mentre dolcemente il canto degli usignuoli si sposa, amoroso, alla canzone dell’alba.
LA VIGNA SELVAGGIA.
Quando Caino, spinto da una folle gelosia, ebbe sgozzato il suo giovane fratello Abele, trascinò il cadavere alle vigne d’Azaele, e lo seppellì, di nascosto, dietro la collina. Ciò fatto riprese la sua via sotto il crepuscolo, l’anima sua trasaliva rientrando in casa, ma quando Èva gli chiese ove avesse lasciato suo fratello, egli rispose: non so! sorridendo nell’ombra. Nel corpo del fanciullo biondo le dure vigne attinsero una nuova forza, e quando venne l’estate, sembravano un lenzuolo tessuto dalla mano di Dio stesso. Ma per la prima volta i loro grappoli rosseggiarono. Allora Caino, già torturato dai rimorsi, sentendo appesantirsi su di lui la mano onnipotente, strappò fino all ultimo quei (rutti sanguinanti, e sotto i suoi larghi piedi si pose a schiacciarli con ira. Quando, credendo la sua opera finita, si rialzò, un’immenso terrore penetrò in tutto il suo essere, poiché scoperse tosto che tutto intorno a lui le foglie erano ugualmente divenute cremisine. Ricordatevi, voi che trovate si piacente il colore vermiglio che dà ai campi la vigna selvaggia, del primo delitto che fece piangere la Terra. Quella porpora viene dal sangue dell’Innocente!
Mouri, quanti boufo la tempesto
Aduulentissènt lou soulèu;
Que s’ausis plus canta tl’aucèu,
Que l’estiéu vai barra si tèsto:
Dóu tin e pichot parpaioun
Es ansin que passo lo vido.
Quand vouliés l’aganta, marrido,
Couinpreniés dounc pas moun plagnoun?
A la bestiole cascarello,
Vai, laisso enea la liberta:
Ié la rauba sarié pietà!
Laisso-lou voula, pastourello.
Es lou chale dóu mes de Mai;
Dóu gai printèins fai l’alegresso;
Baio i tlour touto sa tendresso:
Quand moron, ié surviéu jamai!
(Annona prouvenfau — A. 1879))
Elisabeth Pericaud.
GOUDELIVO.
Coume l’aureto aprés li nivo,
Ai barrala sus lis autour,
Cercant la vesioun fugitivo
Qu’ entre-veguére un jour.
O Goudelivo!
Dóu troubadour
Refuses pas l’amour.
Dins moun amo se recalivo
Mai-que-mai aquelo cremour.
Dóu sentimeli que me cativo
Ame iéu la coumbour.
O Goudelivo! etc.
Ti prunello soun d’uno divo;
Toun regard uno resplendour,
Flamo arderouso, renadivo
Que coucho l’escabour.
O Goudelivo! etc.
(Op. omonima))
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Gabriel Perrier.
LA FARANDOULO.
La farandoulo, nàutri la faren
Riboun-ribagno,
Emé jamai la cagno;
Leu, leu, leu. nous agantaren,
Man dins la man, coume uno lungo escagno,
E sautaren jusqu’à n’en perdre alen.
Escarrabiho
Lì gènti tìho
Que viraran emé 11 bèu jouvènt;
Li calignaire
Soun de cantaire,
Mai per canta n’i’a ges de plus vatènt.
Lou tambour pico,
E la musico
Nous reviscoulo, subran, que-nnun-sai!
Vuei fasen fèste,
Pausen la vesto,
A i’aise, dau! farandoulen que mai!
Car en Prouvènjo,
Que jou’issèngo
Tre qu’ ausissèn flahutet, tambourin!
Nòstis amigo
An de fournigo
Dins lì boutèu, acò li bouto en trin.
Veici la foulo,
La farandoulo
En ersejant se debano eilalin:
Pièi autro causo,
La cacalauso
Aro se formo au initan dóu camiti.
Sèmpre dardaio,
Met tout en aio,
Noste soulèu, ’mé sa bpno calour;
Mai s’escandiho,
Fai nòstl fiho
Gènto e poulido, ardènto per l’amour.
De ta Prouvèn?o,
Bello jouvènco,
Fugues long-tèms, l’espèro e lou cepoun 1
E vous, chatouno,
Tant galantouno.
Pourgès toujour vésti gauto i poutoun!
La farandoulo, nèutri la faren
Rilioun-ribagno,
Emé jamai la cagno;
Leu. leu, leu, nous agantaren.
Man dins la, man, coume ur.o lohgo escagno,
E dansaren jusqu’à n’en perdre alen.
(Armanti P‘ ouv rn’jiu — A. 1892))
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Alexandre Peyron
(18S9).
À LA VIERGE.
Toun noum a lou prefum d’uno garbo de roso,
E ta man pietadouso escampo lou blasin
Di joio celestìalo e de bonur, ansin
Qu’ uno aigo de frescour que lou soulèu fai roso.
Debane li coublet de moun adoulo proso
E semble desgruna lis age d’un rasili
E se mounte vers tu, lou mot de moun vesin,
Ma preguiero peréu, en s’enaurant, lou eroso.
Siés la viholo d’or à la niue de l’oustau
E jites, o Maia I subre nòsti rountau,
Coume t’esbléugimen arminous di dentello;
Car ta raubo es pu bianco encaro que la nèu
E, pescaire coucba souto lou tibanèu,
Aluque toun regard lusi dins lis estello 1
(Op. separalo))
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E. Portal.
(1864).
PÈR LA MORT D’UNO CHATO.
Au dous mes, quand verdejo e llouris la compagno,
Que trelusis sus l’erbo. au grand soulèu l’eigagno,
Quand s’abiho de lus lou bèl azur au cèu,
E lou cant de l’Amour s’espandis clarinèu,
La chatouno, pecaire! en sa gràci idealo
Mourié coume uno santo, à Diéu virant sis alo.
Autour de la mourènto, amudi de doulour,
Lou p’aire emù la maire escampavon si plour,
E pregavon que Diéu, en sa grandour inmènso,
Vouguèsse ave pietà d’un ange d’innoucònfo.
Èro espetacle triste, espetade de mort,
Dedins li plus bèus an, e quand se duerb lou cor
I fernisoun d’amour e dóu divin mistèri,
Quand la vido sourris de suau refoulèti.
EIo, nascudo à l’auho en un matin d’abriéu,
Courouso en sa bèuta cottine un souléu d’estiéu,
De si parènt amado emai de sis amigo.
Aro la fóro mori (de l’amour enemigo)
Coupo la tlour d’elèi, qu’en si frèsqui coulour
Espandissié dins l’èr soun enebrianto óulour.
Plouras, mount e valado, aubre de la piamiro!
Plouras. risènti tlour, de la mar à i’auiuro!
Es morto la chatouno à l’aubo de sis an:
Veila per lou campas tout lou pals plourant.
S’escoundra soun bèu cors alìn au cementèri,
Au m ita il d’àutri toumbo en un sourne mistèri,
Dins lou sen de la terrò es dubert Porre eros
Ounte la vierge aura dou{o pas per sis os.
E se veiran prega jouvencèu e chatouno
En memori de la filieto galantouno,
Qu’avié si bruii cabéu coume sedo lusènt,
Soun visage amourous e de bèuta risènt,
Qu’ avié la flour dòli sen candido e redounello,
Sis iue beluguejant coume finis estello,
Qu’ èro rèino emai divo i bèu jour dóu printèins,
Coume Isauro e Laureto à l’antique bon tèms.
Emé sis iue plourant tóuti li fiho bello,
Jitaran à la mort, à la divo crudèle,
Uno suprèmo voues, signe de sa doulour:
— O tu que vives sèmpre en ti négri founsour,
Que siés di gai jouvènt e de nautre amourouso
L’esfrai e la cregnèmjo (au tèms que sian urouso).
Qu’ emé toun alo negro escoundes lou soulèu,
Que siés plus frejo que d’ivèr la bianco nèu,
Perqué dintre la toumbo enclauses la jouinesso
De l’amado chutouno, e sa gènte beiesso? —
E plouron. La naturo, inmourtalo, alentour
Meravihouso estalo au regard si grandour,
Dóu-tèms que dougamen lou cant di bouscarido
A la cansoun de l’aubo amourous se marido.
(Poncsìo e versioun prouvrnralo).
Maurice Raimbault
(1865).
LA VIGNO FÈRO.
Quouro Caio buta d’uno jalousié fulo,
Aguè pièi sagata soun jouine fraire Abèl,
Tirasse lou cadabre i vigno d’Azaèl
E l’entarré, couchous, au revès de la colo.
Ein ’acò s’adraiè souto lou calabrun,
Soun amo tresanavo en rintrant vers soun paire.
Mai Évo demandant ounte leissè soun fraire,
Éu respoundè: «Noun sai» sourrisènt dìns l’oumbrun.
Au cors de l’enfant blound li vise dur pousèron
Uno forco nouvello e, quand venguè l’estiéu,
Sembiavon un lancòu teissu meme per Diéu.
Mai per lou proumié cop si liame rougejèron
Alor Ca’in, deja per lou remors troussa,
Sentènt pesa sus éu la man ounnipoutènto,
Derrabè tin que d’uno ésti frucho cruènto
E souto si petas, vague de lì trissa.
Coume, l’obro acabado, aubouravo 1 esquino,
Tratìguè tuut soun èsse uno inmènso terrour
Car s’avisè subran que tout à son entour
Li pampo èror. tarobèn vengudo cremesino.
Record à vautre sié qu’ atrouvas tant plasènt
Lou vermeiau que bouto i champ la vigno fèro,
Dóu proumié crime que taguè ploura la Terrò.
Aquelo pourpro vèn dóu sang de I lnnoucènt.
(Op. separato))
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