Atto I

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Personaggi Atto II
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ATTO PRIMO.

SCENA PRIMA.

Camera di donna Placida.

Donna Placida e donna Luigia.

Placida. Grazie al cielo, germana, l’anno è di già compito,

Che vedova rimasi in casa del marito.
Supplito per un anno all’uso ed al dovere,
Lasciai le meste soglie, lasciai le spoglie nere.
Padrona di me stessa, ritorno in casa mia;
Con voi, cara Luigia, ritorno in compagnia.
Don Berto nostro zio, che con amor paterno,
Mancati i genitori, di noi preso ha il governo,
Unendo agli altri beni i frutti di mia dote,
Manterrà senz’aggravio la vedova nipote.
Luigia. Don Berto è il più buon uomo che dar si possa al mondo;
Sarebbe lo star seco un vivere giocondo,

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Se non avesse intorno due perfide persone,

Un scrocco adulatore e un falso bacchettone.
Placida. L’un sarà don Anselmo, l’altro don Isidoro.
Lo so che il pover’uomo fa tutto a modo loro.
Pare un destin che sempre un capo di famiglia
Abbia ad aver d’intorno chi male lo consiglia:
Un coll’adulazione, l’altro coll’impostura,
Ciascun per il suo fine dirigerlo procura.
Almen con buona grazia sapesser profittare;
Ma scroccano la mensa, e voglion comandare.
Luigia. Di più quel don Anselmo, uomo da ben stimato,
Di me segretamente io so ch’è innamorato.
Placida. Ecco il perchè ha studiato il perfido impedire
Che in casa io non venissi le trame a discoprire.
Ci sono, e a poco a poco, con arte e discrezione,
Se ne anderanno i tristi, noi sarem le padrone.
Luigia. Sorella, sono stanca di vivere fanciulla,
Se voi non m’aiutate, dal zio non spero nulla.
Placida. Tanto di maritarvi vi stimola il desìo?
Luigia. Quello che l’altre han fatto, bramo di fare anch’io.
Voi pur lo disiaste, e foste consolata,
E spero di vedervi ancor rimaritata.
Se voi fissato avete di star senza marito,
Vedete di trovare per me qualche partito.
Placida. L’esempio mio non bastavi per sconsigliarvi a farlo?
Luigia. Se incerto è il destin nostro, anch’io vorrei provarlo.
Molte incontrano male, è ver, ma vi rispondo,
Che se temesser tutte, terminerebbe il mondo.
Placida. Bella ragione invero, per cui le donne tenere
Sagrifican se stesse a pro dell’uman genere.
Pur troppo ho chi m’insidia. Pur troppo intorno a me
Sono gl’insidiatori di lidertade in tre.
Evvi don Sigismondo, un cavalier compito,
Che mi serviva ancora vivente mio marito.
Evvi don Fausto amabile, quel celebre avvocato,

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Che mi ha contro i cognati la dote assicurato.

Don Ferramondo poi, capitan valoroso,
Insiste più d’ogni altro per essere mio sposo.
Ma ci penserò bene pria di saltare il fosso.
La libertà acquistata vo’ conservar, s’io posso.
Luigia. Fate così, sorella; se non vi preme alcuno,
Dei tre che vi vorrebbero, cedetemene uno.
Placida. Qual vorreste di loro?
Luigia.   Per verità non so.
Lasciate ch’io li veda, e poi ci penserò.
Placida. Tutti han merito grande, ma tutti i tre soggetti
Hanno le lor virtudi, ed hanno i lor difetti.
Il capitano è pieno di spirto e di buon cuore,
Ma facile ad accendersi di sdegno e di furore;
Parla ben, pensa bene il giovane avvocato,
Ma nei ragionamenti è un poco caricato;
E l’altro cavaliere, ricco e di bell’aspetto,
A forti distrazioni spessissimo è soggetto.
Qual dei tre scegliereste?
Luigia.   Non sembrami gran fatto,
Che veggasi talvolta un cavalier distratto.
E se l’affettazione anche il legal trasporta,
Quand’egli è un uomo buono, l’affettazion che importa?
E in quanto al capitano, che è facile allo sdegno,
Se è saggio ed amoroso, non è d’amore indegno.
Placida. Sian buoni, sian cattivi, sian belli o siano brutti,
Sorella, a quel ch’io sento, a voi piacciono tutti.
Luigia. Mi sembra onestamente pensar come conviene,
Se trovomi disposta a prender quel che viene.
Placida. Certo che il matrimonio può pareggiarsi a un lotto.
Chi studia più, sa meno; chi l’indovina è dotto.
Tante che si hanno scelto lo sposo, innamorate,
Credendo di far bene, rimasero ingannate.
E tante che il marito hanno pigliato a sorte,
Son state fortunate, felici insino a morte.

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Pone l’amor sovente alla ragione il velo.

Sempre sarà il migliore quel che destina il cielo.
Luigia. Chi viene a questa volta?
Placida.   Don Fausto, il mio legale.
Che vi par dall’aspetto?
Luigia.   Mi par non vi sia male.
Placida. Spero che gli altri due verranno parimenti
A consolarsi meco ch’io son co’ miei parenti.
Andate, ed attendete ch’io ve ne ceda alcuno.
Luigia. (Temo non sia disposta a cedermi nessuno).
(da sè, e parte)

SCENA II.

Donna Placida, poi don Fausto.

Placida. Ha voglia di marito; da ridere mi viene:

Povera mia sorella, è stanca di star bene.
Fausto. Servo di donna Placida.
Placida.   Don Fausto riverito.
(Eccolo, sempre lindo e sempre mai compito). (da sè)
Fausto. Godo vedervi escita da quei recinti avari
A vivere contenta fra i vostri patrii lari.
Merita ben chi unito ha il senno alla bellezza,
Nuotar felicemente nel mar di contentezza.
Placida. Vostra mercè, signore, dagli avidi cognati
I frutti della dote abbiam ricuperati.
Fausto. Astrea ragion vi fece, e prospera vi fu.
Ha vinto il vostro merito, non già la mia virtù.
Placida. Eh, il mio dottore amabile, questa signora Astrea
Da pochi si conosce per arbitra e per dea.
Se usata non aveste per me l’arte e l’ingegno,
Escita non sarei sì facil dall’impegno.
Fausto. Vantar soverchiamente il mio valor non uso,
Ma pur gli encomi vostri non sdegno e non ricuso;

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Poichè labbro gentile che di sue lodi onora,

Anche un terreno sterile, anche un vil campo infiora.
Placida. Sedete, se vi aggrada.
Fausto.   Seder non si concede
Al servo, allor che stassi la sua signora in piede.
Placida. Ambi sediamo. (siede)
Fausto.   Un cenno puote obbligarmi a farlo.
Placida. Sempre gentil don Fausto.
Fausto.   Arrossisco, e non parlo.
Placida. Dunque sperar possiamo che vinti ed avviliti
Gl’indocili avversari non tentino altre liti.
Fausto. Vivete pur sicura, sotto i legali auspici
Godrete in lieta pace, godrete i dì felici;
Ma provvida pensate, e liberal qual siete,
Che altrui render felice, che altrui bear potete.
Placida. Deggio ai poveri forse donar l’argento e l’oro?
Fausto. Far parte altrui dovete d’un più ricco tesoro.
Placida. Di che? Non vi capisco.
Fausto.   Spirto a virtute amico
Può quel che dire intendo, capir da quel ch’io dico.
Pur se vi sembra arcano di mie parole il nodo,
Porgermi può di sciorlo un vostro cenno il modo.
Placida. Soddisfa al genio mio chi parla apertamente.
Fausto. Dunque non sarò ardito, sarò condiscendente.
Signora, il nuovo stato di vostra vedovanza
Destata ha in più d’un seno la fervida speranza.
Il primo possessore di voi tratto dal mondo,
Si può sperar che possa succedere il secondo?
Placida. No, don Fausto, credetemi, non voglio più arrischiarmi
A violentar un cuore per obbligo ad amarmi.
Fausto. Obbligo tal sarebbe sì dolce e fortunato,
Che alcun desiar non puote d’esserne dispensato.
Placida. E ben, se alcun mi crede degna di qualche affetto,
Che mi ami in libertade, senz’essere costretto.
Eccovi del mio cuore tutta l’idea spiegata:

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Io non vo’ tormentare, nè essere tormentata.

Capace son d’amare sino all’estremo giorno,
Ma ciò non vi prometto con un legame intorno.
Fausto. Amar senza un legame, e amar fida e costante!
Signora, io non v’intendo. Qual genere d’amante?
Placida. Ad uomo qual voi siete, è van che più si dica.
L’amor di cui favello, è amor di vera amica.
Quella amistade onesta che di esibir mi lice,
Un cuore che ben ama, può rendere felice.
Chi più da me pretende, chi più mi chiede audace,
Aspira ad involarmi dal cuor la cara pace.
Nell’uomo non può dirsi amore una virtù,
Se brama, per piacere, la donna in schiavitù.
Fausto. Tutti non son capaci di un virtuoso affetto.
Io forse più d’ogni altro di ciò mi comprometto.
In me, poichè quest’alma i pregi vostri ammira,
Nuovo amor, nuova fede, un bell’esempio ispira.
Sarem, se vi degnate di preferirmi a tanti,
Sarem coll’amor nostro la scuola degli amanti.
Placida. In general finora parlai del genio mio.
Son donna, e son capace d’una catena anch’io;
E quel che in secondarmi più liberal si fa,
M’insidia più d’ogni altro la cara libertà.
Priegovi, se mi amate, esser men facilmente
A quel che vi propongo di cuor condiscendente.
Se voi mi obbligherete a risentir l’affanno,
Dirò che lo faceste con arte e con inganno.
Avrete una vittoria, è ver, sul mio talento,
Ma un dì vi darà pena vederne il pentimento.
Siate nei sacrifizi più accorto e più discreto:
Il troppo compiacermi ancora io vi divieto.
Fausto. Piacemi il bel comando: un non so che vi trovo,
Vi trovo una bellezza di carattere nuovo.
Se voi foste veduta ad arringar nel foro,
Giudici non saprebbero negarvi i voti loro,

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E Paride fra mille, non che fra tre donzelle,

Voi giudicar dovrebbe la bella infra le belle.
Signora, lungamente restai più del dovere,
Ne so se vi recassi piacere o dispiacere.
Vorrei partir temendo di rendermi molesto. (si alza)
Ma no, rammento il cenno. Per dispiacervi io resto.
Placida. Certo i’ sarei dolente restando di voi priva.
(teneramente)
Fausto. Con voi, se ciò sia vero, resterò fin ch’io viva.
(con tenerezza)
Placida. Ecco una compiacenza che mettemi in periglio.
Ah, voi mi costringete fuggir dal vostro ciglio. (s’alza)
Se ingrato e compiacente valete a cimentarmi,
Addio. Sarò la prima io stessa a licenziarmi.
(vuol partire)
Fausto. Fermatevi un momento. Perdono io vi domando,
Se male col divieto confondemi il comando.
Partirò, e per non esservi grato, partendo, o ingrato,
Dirò che al mio dovere mi chiama il magistrato.
Farò, se il permettete, ritorno a riverirvi.
Spesso verrò, sperando di meglio infastidirvi.
Se in me per obbligarvi temete un qualche dono,
Odiatemi per questo, che il soffro e vi perdono. (parte)

SCENA III.

Donna Placida sola.

Certo non può negarsi, un poco è caricato,

Ma nelle affettazioni ha un brio che riesce grato.
Se alla germana mia ceder dovessi alcuno,
Il povero don Fausto, no, non saria quell’uno.
Sì sì, la libertade del cuor con tutto il zelo
Vo’ conservar se posso, ma se destina il cielo
Ch’io torni a vincolarmi, lo dico e lo protesto,
Più tosto che con altri, mi legherei con questo.

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Restar quando si prega, è facile virtù;

Partir quando si voglia, mi piace ancora più.
Non che di dolce amante la compagnia sia dura,
Ma il troppo bene al mondo è un ben che poco dura.
E per averlo a grado, e per poter prezzarlo,
Il bene qualche volta convien desiderarlo. (parte)

SCENA IV.

Don Anselmo e don Isidoro.

Isidoro. Buon giorno, don Anselmo.

Anselmo.   Don Isidoro mio,
Il ciel vi dia quel bene che bramo avere anch’io.
Isidoro. Don Berto non si vede?
Anselmo. Don Berto, il poveraccio,
Con questa sua nipote si è preso un beli’impaccio.
Isidoro. Questa signora vedova intesi dir che sia
Una di quelle donne che fanno economia.
Avvezza col marito ad esser la matrona,
Chi sa che ella non voglia qui pur far da padrona?
Anselmo. Per me ch’ella comandi, poco ci penso, o nulla:
Spiacemi solamente per l’altra, ch’è fanciulla.
Chi ha praticato il mondo, ch’è un consiglier sì empio,
Non può che alle innocenti servir di mal esempio.
Donna Luigia amabile è una colomba pura.
(Temo per acquistarla perduta ogni mia cura). (da sè)
Isidoro. Son da tant’anni avvezzo dispor di questa casa,
Io sono il consigliere, io son mastro di casa,
Comando al cantiniere, comando alla cucina:
Che ora costei venisse a far la dottorina?
Mi spiacerebbe, affè. Noi siam bene avvezzati
Mangiare con don Berto bocconi delicati.
Di tutte le primizie la tavola è ripiena.
Si mangia bene a pranzo, meglio si mangia a cena.

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E siam padroni noi più del padrone istesso,

E che costei venisse a comandare adesso?
Anselmo. Eh, per mangiar non preme; si piglia quel che viene.
Isidoro. Però, se vi è del buono, voi vi portate bene.
Anselmo. Per la mia bocca facile i ceci anche son buoni.
Isidoro. Mi pare che vi piacciano le trute ed i capponi.
Anselmo. Se vi son, non li sdegno. Son creati per l’uomo,
Ma basta per nudrirci una radice, un pomo.
Per vivere digiuno avrei forza e virtute,
Del prossimo potendo giovare alla salute.
Isidoro. Ecco viene don Berto.
Anselmo.   Convien discreditare
Costei; non per il sozzo desio di mormorare,
Ma sol perchè don Berto scacci la donna pazza,
Che può nel mal costume condurre una ragazza.
Isidoro. A voi preme la figlia, a me sol la cucina.
Anselmo. Ah, non sapete quanto vaglia un’innocentina.

SCENA V.

Don Berto e detti.

Berto. Amici, eccomi qui. Finora mi han fermato,

Per via di donna Placida, in certo magistrato.
Libero dagli affari per la nipote mia,
Eccomi qui a godere la vostra compagnia.
Isidoro. Oggi che e’è da pranzo?
Berto.   Non andaste in cucina?
Isidoro. Andarvi non ardisco: or v’è la signorina.
Berto. Perchè vi è la nipote, deesi aver soggezione?
Oh bella! in casa mia non sarò io padrone?
Il solito costume non cambiasi per lei:
Voglio mangiare, e voglio goder gli amici miei.
Presto andate in cucina. Io spendo, ed io comando.
Sollecitate il cuoco, a voi mi raccomando.

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Isidoro. Vado immediatamente. Mi ha detto il bottegaio,

Che avea delle pernici.
Berto. Che se ne compri un paio.
Isidoro. Oggi siam cinque a tavola. Saran poche due sole.
Berto. Che se ne comprin quattro; più fatti e men parole.
Isidoro. Mando lo spenditore a prenderle a drittura.
(La cosa in questo modo non andrà mal, se dura).
(da sè, e parte)

SCENA VI.

Don Berto e don Anselmo tiratosi da una parte.

Berto. Cosa fa don Anselmo involto in quel mantello?

Anselmo. (Per giugnere al disegno conviene andar bel bello), (da sè)
Stava fra me pensando al figlio di un amico
Caduto per disgrazia in un luttuoso intrico.
Era il più buon figliuolo che abbia mai conosciuto;
Ma seco un suo parente ad abitar venuto,
Gl’impresse il mal costume nel core a poco a poco,
Ed or quel miserabile sente d’amore il foco.
Chi ha figli o figlie in casa da custodir, vi pensi.
Tenera gioventute ha delicati i sensi.
Al mal natura inclina, è un seduttore il vizio,
E basta un mal esempio per trarne al precipizio.
Berto. Grazie al ciel che lontano son io da tai perigli.
Non ho mai presa moglie per non aver dei figli.
Anselmo. Però di due nipoti il ciel vi ha caricato.
Buon per voi che la peggio per tempo ha preso stato;
Ma vi ritorna in casa vedova, accostumata
All’odierno stile di donna maritata.
Vorrà conversazioni, vorrà serventi al fianco.
Male per donna Placida, ma pur per essa è il manco.
Orribile è il periglio della germana nubile.
Buona è donna Luigia, ma pare un po’ volubile;
E temo, se non veggasi a tempo rimediato,
Il caso dell’amico in voi verificato.

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Berto. Voi mi mettete in capo tal pulce e tal spavento,

Che di aver preso in casa la vedova mi pento.
Ma la dovea lasciare abbandonata e sola?
Anselmo. Tutto, fuor che introdurla dappresso a tal figliuola.
Berto. Or non vi è più rimedio.
Anselmo.   Sì, vi è rimedio ancora.
Il ciel non abbandona chi il suo consiglio implora.
La vedova star sola non dee, l’accordo anch’io;
È troppo tristo il mondo. Udite il parer mio.
Togliete ogni periglio, troncate ogni rigiro:
Finchè si rimariti, ponetela in ritiro.
Sul cor della germana colà non potrà nulla.
Berto. Ma non sarebbe meglio chiudere la fanciulla?
Anselmo. No, don Berto, la gente di senno è persuasa,
Che meglio custodite sian le fanciulle in casa.
È ver che non ha madre questa nipote vostra,
Ma a ogni obbligo supplisce l’educazione nostra.
Voi coll’esempio vostro, io coi consigli miei
Possiam perfezionare ogni virtude in lei.
Levatele d’intorno la scaltra vedovella:
Avrà donna Luigia il cuore di un’agnella.
Berto. Voi trovate il ritiro, ed io la chiuderò.
Anselmo. Sia ringraziato il cielo, a ritrovarlo andrò. (parie)

SCENA VII.

Don Berto, poi donna Placida.

Berto. In casa il precipizio adunque era venuto?

Caro il mio don Anselmo! il ciel mi ha provveduto.
Io credo facilmente, e vedo che son stato
Da questa mia nipote sedotto ed acciecato.
Ma il mio fedele amico, sincero per costume,
Nel buio dell’inganno mi porge un chiaro lume.
Placida. (Parte quell’impostore, e appena mi saluta.
Inutilmente io spero non essere venuta). (da sè)

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Berto. (Eccola; chi direbbe sotto quell’umil ciglio)

Tanta malizia fossevi, e tanto rio consiglio?) (da sè)
Placida. Serva, signore zio.
Berto.   Nipote, vi saluto.
Vi dirò in due parole di voi che ho risoluto.
Placida. Sì, signor, comandate, solo obbedirvi aspiro.
Berto. Vo’, fin che siete vedova, che andiate in un ritiro.
Placida. (Capisco donde viene cotal risoluzione.
Il fingere opportuno deluda la finzione). (da sè)
Berto. (Mi par che non le comodi). (da sè)
Placida.   In verità, signore,
Dar non mi potevate consolazion maggiore.
Moglie fui per mio danno, il mondo ho già provato,
E vivere destino nel libero mio stato.
Ma son tanti i perigli, tante le insidie sono,
Che ora l’offerta vostra accetto per un dono.
Che sono i falsi beni di questa terra ingrata?
Ogni più dolce brama dal tosco è amareggiata.
Speranza ingannatrice ogni piacer distrugge,
E solo il tristo mondo può vincere chi fugge.
Spero nel mio ritiro un vivere beato.
Mi si aprano le porte.
Berto.   (Son rimasto incantato), (da sè)
Placida. Signor, padre amoroso non siete di me sola,
Ma di Luigia ancora, d’amore a voi figliuola.
Fate ch’ella non meno, fuggendo ogni deliro,
Venga meco a godere la pace del ritiro.
Berto. Fanciulla... giovinetta... direi, a parer mio,
Fosse meglio educata in casa dello zio.
Placida. Oh, in questo perdonate. Ho pratica del mondo.
Il bene, il mal conosco, e franca vi rispondo,
Che un uom che ha sue faccende, di ciò sa poco o nulla,
E che maggior custodia esige una fanciulla.
Berto. È ver, ma in luogo mio, a custodirla viene
Un certo don Anselmo, ch’è uom saggio e dabbene.

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Placida. Ah, m’inspirasse il cielo tal forza e tal consiglio,

Da farvi rilevare l’inganno ed il periglio.
Se un uom con donna giovine a conversar si metta,
Chi è quel che prosontuoso resister1 si prometta?
Sia don Anselmo un vecchio, anche nei vecchi il foco
Ad onta delle nevi si accende a poco a poco.
Sia virtuoso e forte, abbiam più d’un esempio
Che il saggio in occasione è divenuto un empio.
Tutti siam d’una pasta misera, inferma e frale,
Tutti ad errar soggetti.
Berto.   (Affè, non dice male). (da sè)
Placida. Avrete cuor, signore, di espor la paglia al foco?
Berto. Ci ho quasi un po’ di dubbio... ci penseremo un poco.

SCENA VIII.

Don Isidoro e detti.

Isidoro. Don Berto, le pernici son belle e comperate,

E le ho colle mie mani e concie e preparate.
Tolto del pan francese, dentro ben ben scavato,
Delle pernici il ventre nel pane ho collocato;
E il grasso del salvatico dallo schidion stillando,
Cade nel pane a goccia, e il pan si va ingrassando.
Ah, quel pane abbrostito che buon sapore avrà!
Subito che son cotte, in tavola si dà.
Berto. Bravo, bravo davvero.
Placida.   Signor, ditemi un poco,
Chi siete in questa casa? lo spenditore o il cuoco?
(a don Isidoro)
Isidoro. Son di don Berto amico, non cuoco o spenditore.
Berto. È un che la mia tavola frequenta, e mi fa onore.
Placida. Per quei pochi di giorni che in questa casa io resto,
Caro signor, vi prego non impacciarvi in questo.

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Son così stravagante nel gusto di cibarmi,

Che il grasso di pernice potrebbe stomacarmi.
(a don Isidoro)
Berto. Questo mi spiacerebbe.
Isidoro.   Ciascuno ha i gusti suoi.
Se voi non ne volete, le mangerem da noi.
(a donna Placida)
Berto. Da noi. (a donna ’Placida)
Placida.   L’odor mi annoia.
Berto.   L’annoia, poverina.
(a don Isidoro)
Isidoro. Che stia nella sua camera. (a don Berto)
Berto.   Sì, per questa mattina.
(a donna Placida)
Placida. Sì signor, volentieri, si faccia il suo consiglio.
(a don Berto)
Per altro, perdonatemi, di voi mi maraviglio.
(a don Isidoro)
È ver che in questa casa non vanto autorità;
Ma si usa colle donne trattar con civiltà.
Permettere ch’io stia rinchiusa in una stanza
Per satollar la gola, vi par discreta usanza?
Signor, spiacemi il dirvi che tai villani amici
(a don Berlto)
Non mertano di essere trattati con pernici;
Ma son de’ pari suoi degnissime vivande
La paglia ed il trifoglio, il frutice e le ghiande.
Andrò fra pochi giorni a ritirarmi in pace;
Potrete i vostri beni gittar con chi vi piace,
Ma almen per carità pensate alla nipote,
Di cui lasciovvi il padre in man la propria dote.
Questi che vi circondano, ingordi per costume,
Non pensan che a se stessi. Il ventre è il loro nume.
E voi che in soddisfarli siete corrivo e pronto,
Dovrete al cielo e al mondo del speso render conto.

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Perdon di ciò vi chiedo. (a d. Ber.) Lo chiedo a voi, signore,

Se il titolo vi diedi di cuoco o spenditore.
Confesso che il mio labbro fu inavveduto e sciocco:
Vi darò in avvenire il titolo di scrocco.
(a don Isidoro, e parte)

SCENA IX.

Don Berto e don Isidoro.

Berto. Sentiste mia nipote? Per dirla, io non vorrei....

Isidoro. Di tante impertinenze offendermi dovrei.
Ma sono amico vostro, e per quei pochi dì
Ch’ella con voi rimane....
Berto.   Non verrete più qui?
Isidoro. Anzi, per amor vostro venire io vi prometto.
Verrò per l’amicizia, verrò per suo dispetto.
Gli amici si conoscono nelle occasioni, e spero
Che ora conoscerete se sono amico vero.
Ad onta de’ strapazzi e degl’insulti suoi,
Saldo, costante e fido vengo a pranzar con voi. (parte)
Berto. Meco verrà a pranzare per atto di amicizia.
Parmi in un tal discorso che non vi sia malizia.
Se ascolto lui, mi appaga. Se lei, dice benone.
Sempre chi parla l’ultimo, mi par che abbia ragione.

Fine dell’Atto Primo.

Note

  1. Ed. Zatta: Chi è quel prosontuoso che regger ecc.