La secchia rapita (1930)/Canto nono

Canto nono

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Canto ottavo Canto decimo

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CANTO NONO

ARGOMENTO

               Melindo innamorato al ponte viene,
          e tutti i cavalieri a giostra appella.
          Su l’isola incantata il campo tiene,
          e fa mostra di sé pomposa e bella.
          Cadono i primi, e fan cader la spene
          a gli altri ancor di rimaner in sella.
          Al fin da un cavalier non conosciuto
          vinto è l’incanto, e ’l giovine abbattuto.


1
     Eran partiti giá gli ambasciatori
venuti a procurar la pace in vano;
però ch’insuperbiti i vincitori
non si voleano il re levar di mano;
e ’l nunzio anch’egli entrato era in umori
ch’ei si mandasse al gran pastor romano,
come in possanza di maggior nemico,
per piú confusion di Federico.
2
     Ma finita la tregua ancor non era,
quando pel fiume in giú venne a seconda
una barchetta rapida e leggiera,
che portava due araldi in su la sponda.
Giunti al ponte, smontâr su la riviera,
l’uno di qua, l’altro di lá da l’onda:
e a giostra, poi che ne le tende entraro,
d’ambidue i campi i cavalier sfidaro.

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3
     Contenea la disfida: — Un cavaliero,
per meritar l’amor d’una donzella,
c’ha sovra quante oggi n’ha il mondo impero
in esser valorosa onesta e bella,
sfida a colpi di lancia ogni guerriero,
finché l’un cada e l’altro resti in sella:
da l’abbattuto sol lo scudo ei chiede,
e ’l suo dará se per fortuna cede. —
4
     Accettâr la disfida i giostratori;
e quinci e quindi ognun stè preparato
con pensier di dover co’ novi albori
del giá cadente sol trovarsi armato.
Ma la notte avea a pena i suoi colori
tolti a le cose e ’l mondo attenebrato
spiegando intorno il taciturno velo,
ch’una tromba s’udí sonar dal cielo.
5
     Al fiero suon trecento schiere armârse
quinci e quindi confuse e sbigottite;
quando nel fiume una gran nave apparse,
che venía giú per l’onde intumidite,
e tanti razzi e tanti fuochi sparse,
che tolse il vanto a la cittá di Dite.
Nave parea; ma in arrivando al ponte,
isola apparve, e la sua poppa un monte.
6
     Orrido è il monte e di spezzati sassi,
e signoreggia un praticello ameno,
che lungo è intorno a centoventi passi
e trenta di larghezza o poco meno.
La prora a combaciar col ponte vassi;
e quivi una colonna al ciel sereno
fiamme spargea con sí mirabil arte
ch’illuminava intorno in ogni parte.

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7
     Da la colonna pende incatenato
un corno d’oro; e dice una scrittura,
di ch’era il marmo lucido intagliato:
«Suoni chi vuol provar l’alta ventura».
Piú in alto sovra il corno era attaccato
un ricco scudo, in cui da la scoltura
tolto era al puro argento il primo onore;
e scritto avea di sopra: «Al vincitore».
8
     Avea l’egregio artefice ritratto
in esso la battaglia di Martano
col signor di Seleucia; e stupefatto
parea tutto Damasco al caso strano.
Sta Griffone in disparte accolto in atto
d’uom di dolore e di vergogna insano;
ride la corte, Norandin si strugge,
ma il buon Martan facea come chi fugge.
9
     Era coperto il pian di verde erbetta,
e la riva di mirti ombrata intorno.
Smontȃr molti guerrier ne l’isoletta,
passeggiando il pratel di fiori adorno;
ma poiché la trovar tutta soletta
trassero a gara a la colonna e al corno:
e quivi infra di lor nacque contesa,
chi dovesse primier tentar l’impresa.
10
     Giucaro al tocco, e sopra Galeotto
cadde la sorte, il giovinetto ardito.
Quegli il bel corno d’ôr prese di botto,
e sonò sí ch’ognun ne fu stordito.
Tremò l’isola tutta, e tremò sotto
il letto e l’onda, e tremò intorno il lito;
sparve il foco ch’ardea, sparver le stelle,
e perdé il ciel le sue sembianze belle.

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11
     E mentre ancor durava il gran tremore,
ricoperse ogni cosa un nuvol denso,
e balenò improviso; e a lo splendore
seguí uno scoppio orribile ed immenso,
che strignendo gli spirti e ’l sangue al core
fe’ rimanere ognun privo di senso;
e giú col tuono un fulmine discese,
che percosse nel monte, e quel s’accese.
12
     S’accese il monte, e tutto in fiamma viva
fu convertito in un girar di ciglio;
e in mezzo de la fiamma ecco appariva
mirabilmente un padiglion vermiglio.
Il nobil lin, di cui giá tele ordiva
l’antica etá, d’incombustibil tiglio,
tal fra le pompe regie in oriente
fu visto rosseggiar nel foco ardente.
13
     Lasciò la fiamma il monte incenerito,
e ’l ciel tornò seren, com’era pria;
e in tanto fu di cento trombe udito
un misto suon di guerra e d’armonia.
Il lume ritornò, ch’era sparito,
su la colonna; e ’l padiglion s’apría,
e n’uscían cento paggi in bianca vesta,
tutta di fiori d’ôr sparsa e contesta.
14
     Bruni i fanciulli avean le mani e ’l viso,
e parean tutti in Etiopia nati;
un poeta gli avrebbe a l’improviso
a le mosche nel latte assomigliati.
Fuor di due porte il nero stuol diviso
uscí con torce accese, e in ambo i lati
si distinse con lunga e dritta schiera,
e lasciò vòta in mezzo una carriera.

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15
     Su l’altro capo intanto avea portato
copia di lance un provido scudiero:
e Galeotto era comparso armato
con sopravesta verde, armi e cimiero;
maneggiando un cavallo in Tracia nato,
da tre piedi balzán, di pelo ubero,
che curvettando alzava da l’arena
al tocco dello spron salti di schiena.
16
     Era ogni cosa in punto, e solamente
mancava il cavalier de la ventura;
quando iterâr le trombe, immantenente
uscí del padiglion su la pianura.
Di bianca sopravesta e rilucente
di gemme era vestito, e l’armatura
di puro argento avea, bianco il cimiero,
ma nero piú che corvo era il destriero.
17
     Alta avea la visiera, e giovinetto
d’etá di sedici anni esser parea:
biondo era e bello e di gentile aspetto,
e grazia in lui quell’abito accrescea.
Salutò intorno ognun con grato affetto;
e ’l feroce destrier che sotto avea,
su l’orme fe’ danzar che pria distinse
col piè ferrato, indi la lancia strinse.
18
     Abbassò la visiera, e attese intento,
che la canora tromba il moto accenne;
ed ecco suona, e come fiamma o vento,
l’uno di qua l’altro di lá se ’n venne.
Scontrârsi a mezzo il campo, e rotte in cento
tronchi e scheggie volâr le sode antenne:
gittò faville l’uno e l’altro elmetto,
e Galeotto uscí di sella netto.

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19
     Vago di contemplar vista sí bella,
stava l’un campo e l’altro in ripa al fiume
e le due podestá sotto l’ombrella
miravano la giostra al chiaro lume.
Videro Galeotto uscir di sella,
e vider l’altro con gentil costume
stendere al fren la generosa mano
e tenergli il destrier che gía lontano.
20
     Galeotto confuso e vergognoso
lo scudo al vincitor partendo cesse;
nel cui lembo dorato e luminoso
subito il nome suo scritto si lesse.
In tanto un cavalier tutto pomposo
d’azzurro e d’oro una gran lancia eresse;
e un leardo corsier di chioma nera
spronò contra il campion de la riviera.
21
     Ruppe la lancia al sommo de lo scudo,
e fe’ i tronchi ronzar per l’aria scura;
ma fu colto da lui d’un colpo crudo,
che lo stese tra i fiori e la verdura.
Cadde a pena, che trasse il ferro ignudo
e volle vendicar sua ria ventura;
ma l’altro si ritrasse, ed ecco un vento,
e fu ogni lume intorno a un soffio spento:
22
     e tremò l’isoletta, e fiamma viva
vomitando e tonando a un tempo fuore
quindi un gigante orribile n’usciva,
ch’a la terra ed al ciel mettea terrore.
Questi al guerrier che contra lui veniva
s’aventò dispettoso, e con furore
lo ghermí come un pollo, e a spento lume
lui col cavallo arrandellò nel fiume;

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23
     onde a fatica ei si salvò notando.
Restò lo scudo, e ’n lui si lesse: «Irneo».
Allor di nuovo l’isola tremando
s’aperse, e il gran gigante in sé chiudeo:
e ’l chiaro lume, ch’era gito in bando,
tornò a le torce spente e l’accendeo.
Tacque il tremito e ’l vento: e nuova giostra
chiamando, il cavalier fe’ di sé mostra.
24
     Il terzo giostrator fu Valentino,
che passeggiando venne un destrier sauro:
e ’l quarto il valoroso Giacopino
sopra un ginetto altier del lito mauro,
ch’avea ferrato il piè d’argento fino
e sella e fren di perle ornati e d’auro:
ma l’uno e l’altro uscí de l’isoletta
senza lo scudo, e dileguossi in fretta.
25
     Il quinto fu il signor di Livizzano;
ch’innamorato di Celinda altera,
e per lei colto in fronte e messo al piano,
ebbe a perir de la percossa fiera.
L’asta rotta si fesse, e ’l colpo strano
fe’ le scheggie passar per la visiera;
ond’ei cadde trafitto il destro ciglio,
de l’occhio e de la vita a gran periglio.
26
     Il Potta rivoltato a Zaccaria
che gli sedea vicin, disse: — Messere,
quest’è certo un incanto e una malía:
ognun quel cavalier fará cadere. —
Rispose il vecchio allor: — Per vita mia
ch’a me l’istesso par, né so vedere
che possan guadagnar questi briganti
a cozzar col demonio e con gl’incanti:

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27
     però, se stesse a me, farei divieto
che nessuno de’ miei con lui giostrasse. —
Prese il Potta il consiglio, e fe’ un decreto
che ne l’isola alcun piú non entrasse;
e se ne stette poscia attento e cheto,
mirando ciò che l’inimico oprasse:
e vide due, vestiti a bruno ed oro,
appresentarsi co’ cavalli loro.
28
     L’un d’essi corse: e tócco a pena fue,
ch’uscí di sella e si distese al piano;
e pur mostrava a le sembianze sue
d’esser di core indomito e di mano.
Secondò l’altro; e per la groppa in giue
restò cadendo al suo caval lontano.
Risorse il primo, e a quel de la riviera
disse con voce e con sembianza altera:
29
     — Guerrier, se tu non sei per via d’incanto
prode con l’asta, or de l’arcion discendi
e con la spada che tu cigni a canto
a trarmi in cortesia d’inganno imprendi;
e s’hai timor di non turbar fra tanto
la giostra, a tuo piacer pugna e contendi;
pur ch’io ti provi un colpo o due col brando:
ecco lo scudo e piú non t’addimando. —
30
     Rispose il cavalier de l’isoletta;
— A dismontar sarei forse ubbligato,
s’a combatter per odio o per vendetta
fossi venuto in questo campo armato.
A giostrar venni e solo amor m’alletta,
e ’l mio disegno a tutti ho palesato:
sí ch’io non son tenuto a uscir di questa,
per variar tenzone a tua richiesta.

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31
     Ma perché non m’imputi a codardia
il rifiutar la prova de la spada,
lasciami terminar l’impresa mia,
poi ti risponderò come t’aggrada.
Lo scudo, se ’l mi chiedi in cortesia,
io lo ti lascierò; per altra strada
non ti pensar di ritenerlo, o ch’io
a tuo voler sia per cangiar desio. —
32
     — Il cangerai, soggiunse, al tuo dispetto,
l’altro guerrier, malvagio incantatore. —
E del tronco de l’asta in su l’elmetto
ferillo, e trasse a un tempo il brando fuore.
Tremò l’isola al colpo, e tremò il letto
del fiume; e sparve tosto ogni splendore:
balenò il cielo; e con orrendo scoppio
s’aprí la terra, e n’usci un fumo doppio.
33
     Sfavillò il fumo; ed ecco immantenente
due tori uscir d’insolita figura,
che con occhi di foco e fiato ardente
parean seccare i fiori e la verdura.
S’uniro i due guerrier, tratte repente
le spade; e non mostrar di ciò paura.
Vengono i tori: e l’uno e l’altro campo
trema de gli occhi al formidabil lampo.
34
     Il cavalier de l’isoletta s’era
tratto in disparte a rimirar la guerra.
Come saetta, l’una e l’altra fera
col biforcuto piè trita la terra.
S’apre a l’arrivo lor la coppia altera;
passa il corno incantato, e non gli afferra:
menano entrambi, e ’l taglio de la spada
par che su lana o molle piuma cada.

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35
     Tornano i tori; e i cavalier rivolti
son loro incontro, e menano a la testa.
Lampeggiaron le fronti ove fûr colti:
ma l’impeto e ’l furor per ciò non resta.
I cavalier su ’l corno a forza tolti
fûr portati nel fiume a gran tempesta:
restâr gli scudi, e scritti i nomi loro,
«Perinto» e «Periteo», negli orli d’oro.
36
     Balzâr ne l’onda a precipizio i tori
coi cavalieri; e quivi uscîr di vista.
Si ravvivaro i soliti splendori,
depose il ciel quella sembianza trista:
l’isoletta cessò da’ suoi tremori,
lieta tornando come prima in vista:
e ’l cavalier, che ritirato s’era,
tornò a mettersi in capo a la carriera.
37
     E nuova giostra in vano un pezzo attese,
ch’ognuno era confuso e spaventato;
fin che dal ponte un cavalier discese
maneggiando un corsier falbo dorato,
che la briglia d’argento e ’l ricco arnese
avea d’oro trapunto e ricamato.
Questi in pensier di cambiar lancia venne,
e ne fe’ inchiesta, e la richiesta ottenne.
38
     Diede il segno la tromba: e come vanno
per li campi de l’aria i lampi ardenti,
ch’a terra e cielo e mar dar luogo fanno,
e portano con lor grandine e venti;
tal vannosi i guerrier, con l’aste c’hanno
abbassate, a ferir gli elmi lucenti.
Volâr le scheggie e le faville al cielo,
né vi fu cor che non sentisse gielo.

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39
     Cozzaron i destrier fronte con fronte;
e quel del cavalier de l’isoletta
lasciò col suo signor l’altro in un monte,
e via dritto passò come saetta.
Tosto risorse il cavalier del ponte,
bramando far del suo cavai vendettta,
e a nuova lancia il giostrator richiese:
ed ei gli fu di ciò molto cortese.
40
     Venne un altro corsier di pel roano,
e su montovvi il cavalier d’un salto.
Sospese il fren con la sinistra mano,
e con lo sprone il fe’ guizzare in alto;
e poiché si rimise in capo al piano
lo sospinse di corso al fiero assalto:
ma ne rincontro fu toccato a pena,
che si trovò rovescio in su l’arena.
41
     Levossi e disse: — Ecco lo scudo mio;
ch’or veggio che se’ mago e incantatore,
né teco vo’ né col demonio rio
mettere in compromesso il mio valore:
forse avverrá ch’ancor tu paghi il fio
per altre mani, e con tuo poco onore,
del mal acquisto; or qui ti resta intanto
col diavolo ch’eletto hai per tuo santo. —
42
     De l’isola partissi in questo dire,
e ne lo scudo suo «Tognon» fu letto.
Dopo costui si vider comparire
due cavalier di generoso aspetto,
che ’l giostratore andarono a ferire
l’un dopo l’altro con sembiante effetto:
rupper le lance ne l’argento terso;
e l’uno e l’altro si trovò riverso.

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43
     Restâr gli scudi, e «Paolo» e «Sagramoro»
negli orli impressi. Indi a giostrar si mosse,
sovra un corsier di pel tra bigio e moro,
un cavalier con piume bianche e rosse
e sopravesta di teletta d’oro
ricamata a troncon di perle grosse,
ch’una mano di paggi intorno avea
vestiti a superbissima livrea.
44
     Questi era un cavalier non piú nomato,
figlio d’un romanesco ingannatore;
che pria fu rigattier, poi s’era dato
in Campo Merlo a far l’agricoltore,
e ’l grano e le misure avea falsato
tanto che divenuto era signore;
e per aggiugner gloria al figlio altiero
quivi dianzi il mandò per venturiero.
45
     Costui se ’n venía gonfio come un vento,
teso ch’un pal di dietro aver parea:
fu conosciuto a l’armi e al guarnimento
e a la superba sua ricca livrea.
Potrei rassomigliarlo a piú di cento
di non forse inegual prosopopea;
ma toccherei un mal vecchio decrepito,
e la zerbineria farebbe strepito.
46
     Ninfeggiò prima e passeggiò pian piano,
poi maneggiò il destriero a terra a terra;
in fin che si ridusse in capo al piano
dove s’avea da incominciar la guerra.
Ecco la tromba; ecco con l’asta in mano
vien l’uno e l’altro, e fa tremar la terra:
risonarono i lidi a le percosse;
né a quell’incontro alcun di lor si mosse.

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47
     Fu il primo cavalier, ch’in sella stette
contra il campion mantenitor, costui:
e ben maravigliar fe’ piú di sette,
che non credean giá mai questo di lui.
Il cavalier de l’isola ristette
pensoso un poco, e favellò co’ sui:
indi a le mosse ritornando, fôro
lance piú sode appresentate loro.
48
     Ma come l’altre si fiaccaro e fero
salire i tronchi a salutar le stelle:
piegossi l’uno e l’altro cavaliero,
e fûr per traboccar giú de le selle.
Perdé le staffe il romanesco altiero,
e vide l’armi sue gittar fiammelle;
ma rinfrancossi al suon ch’intorno udiva
del nome suo da l’una e l’altra riva.
49
     Come si gonfia a l’Euro in un momento
il mar Tirreno, e sbalza e fortuneggia,
cosí il cor di costui si gonfia al vento
del populare applauso, e ne folleggia:
va tronfio e pettoruto, e bada intento
ai saluti, a gli sguardi, e paoneggia;
e fatta c’ha di sé pomposa mostra,
nuova lancia richiede e nuova giostra.
50
     Fremean Perinto e Periteo di sdegno
che durasse costui tanto in arcione;
quando diede la tromba il terzo segno
da la parte che guarda il padiglione,
poser le lance i cavalieri a segno,
e venner furiosi al paragone:
ma ne l’elmo colpito il romanesco,
finalmente caddé su l’erba al fresco.

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51
     Di terra si levò tutto arrabbiato;
trasse la spada, e sbudellò il destriero,
come fosse il meschin del suo peccato,
de la caduta sua l’autor primiero:
indi al guerrier de l’isola voltato,
— Ti sará, disse, d’aspettar mestiero,
ch’uno scudo i’ ti dia d’altro lavoro;
ché questo i’ nol darei per un tesoro. —
52
     Sorrise il giostratore, e disse: — Questo
teco giostrando ho vinto, e questo voglio.
Il mio val piú del tuo, né saria onesto
che ti volessi anch’io cambiare il foglio. —
Rispose il romanesco: — I’ ti protesto
che lo difenderò sí come i’ soglio. —
E tratto il brando, al solito costume
si scosse il suol, ma non si spense il lume.
53
     E un asinello uscí, che due stivali
per orecchie e una trippa avea per coda;
con l’orecchie fería colpi mortali,
e la coda inzuppata era di broda:
terribil voce avea, calci mortali,
la pelle d’un diamante era piú soda;
e sempre che ferir potea dappresso,
balestrava col cul pallotte a lesso.
54
     Parean polpette colte ne l’inchiostro,
e appestavano un miglio di lontano.
Titta di Cola s’affrontò col mostro
(che tal nomossi il cavalier romano),
e gli fu d’altro che di perle e d’ostro
ricamato il vestito a piena mano.
Egli del brando a quella bestia mena,
ma segna il pelo, ove lo coglie, a pena.

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55
     L’asino un par di calci gli appresenta,
indi mena la coda agile e presta;
apre a un tempo la canna, e lo sgomenta
coi ragli che tremar fan la foresta;
sbatte l’orecchie, e di ferir non lenta
or le spalle, or i fianchi, ora la testa;
volta la poppa, e tuona, e a l’improviso
fulmina, e a fresco gli dipigne il viso.
56
     Il buon roman, che la tempesta sente,
getta lo scudo ed a fuggir si pone:
rise il mantenitor dirottamente,
e tornò in su le mosse al padiglione.
Ma giá la notte il carro a l’occidente
volgea, né compariva altro campione:
ond’ei si chiuse ne la tenda, e ’ntanto
dieron principio i galli al primo canto.
57
     Il dí seguente il giostrator si stette
nel padiglione, e non fe’ mostra alcuna;
ma poi ch’usciro i gufi e le civette
su per gli tetti a salutar la luna,
a suon di trombe con nov’armi elette
anch’egli fe’ vedersi in veste bruna:
bruno il cimiero e bruno il guarnimento,
ma bianco era il destrier piú che l’argento.
58
     E i paggi, che servian per candelieri,
dove dianzi parean de la Guinea,
parean scesi dal cielo angeli veri,
e come i visi ancor cangiâr livrea.
Tutti comparver con vestiti neri
in calze a tagli; onde a veder correa
con voglia ingorda la milizia tosca
tirata dal favor de l’aria fosca.

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59
     E ’l giovine Averardo, il qual non s’era
fin allor visto appresentarsi in mostra,
fu il primo a comparir su la riviera
e ’l primo a uscir di sella in quella giostra.
Diede lo scudo, e alzossi la visiera,
e si fermò nella fiorita chiostra
a ragionar co’ paggi e a fare inchiesta
del nome del guerriero e di sua gesta.
60
     Da molti lumi intanto accompagnata,
de l’isola era uscita una donzella
in abito stranier candido ornata,
e di maniere accorte e ’n viso bella:
e venne ove Renoppia era attendata,
con due scudieri e con due paggi in sella,
e gli acquistati scudi appresentolle,
e in nome del guerrier poscia narrolle:
61
     che la fama l’avea del suo valore,
quel dí ch’armata in su la riva corse
e l’esercito ostil giá vincitore
sostenne e mise la vittoria in forse,
quivi condotto a far sol per suo amore
la bella giostra e in avventura a porse:
onde chiedea che non s’avesse a sdegno
che gli scaldasse il cor foco sí degno.
62
     Vergognosa Renoppia e sdegnosetta:
— Ruffianela mia, disse, a l’aria, ai venti
meco il vostro guerrier l’arti sue getta;
ch’io non fui vaga mai d’incantamenti.
Ma voi che siete bella e giovinetta
e che con lui vi state a lumi spenti,
perché lasciate voi che i premi vostri
v’escan di mano e che per altra giostri? —

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63
     — Serva son io, rispose la donzella,
e troppa per me fòra alta mercede:
possiede il mio signor terre e castella,
né inchinerebbe a la mia sorte il piede. —
Renoppia allora, astuta come bella:
— Se questo è, soggiugnea, fategli fede
ch’io mi chiamo ubbligata a quel valore,
che mostra con la lancia in farmi onore.
64
     E se ben forse avrei piú caro avuto
ch’in soccorso de’ nostri a vero marte
con l’armi per mio amor fosse venuto,
senza apparecchio alcun di magic’arte;
pur l’affetto gradisco e lo saluto:
e questo gli darete da mia parte. —
E di seno, a quel dir, senza intervallo
si trasse una crocetta di cristallo,
65
     dov’era un dente di san Gemignano,
e papa Onorio l’avea benedetta,
e finse porla a la donzella in mano,
che la desse al guerrier de l’isoletta:
ma quella sparve come un sogno vano,
al subito toccar de la crocetta;
e sparvero con lei paggi e scudieri,
e rimasero sol gli scudi veri.
66
     Lesse i nomi Renoppia, e quelli rese
ch’esser trovò de’ cavalieri amici;
gli altri di ritener consiglio prese
come spoglie e trofei de’ suoi nemici.
Intanto il giostrator seguía sue imprese
con gli usati successi ognor felici:
quand’un guerriero ignoto in veste gialla
al ponte capitò su una cavalla.

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67
     La lancia lunga piú d’ogn’altra avea
due palmi, e una pantera in su l’elmetto:
ma sospeso venía sí che parea
ch’andasse a quell’impresa al suo dispetto.
Sonâr le trombe; e ’l suon, che gli altri fea
dentro brillar, fe’ in lui contrario effetto:
corre; ma sembra ai timidi atti fuore
portato dal destrier, non giá dal core.
68
     Pur si ristrigne negli arcioni, e abbassa
la lancia in su la resta, e gli occhi serra
in arrivando, e i denti strigne, e passa
come chi va sol per vergogna in guerra:
e a quell’incontro l’inimico lassa,
con maraviglia de’ due campi in terra.
Allor tutta s’udí quella riviera
gridar: — Viva il campion de la pantera. —
69
     Ed ei maravigliando al suon rivolto
vide l’emulo suo giacer disteso:
onde di sé per allegrezza tolto,
fermossi a riguardar tutto sospeso.
Ma l’abbattuto, a l’infiammato volto
mostrando il cor di fiero sdegno acceso,
ratto risorse, e con un piè percosse
la terra e ’ntorno il pian tutto si scosse:
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     e s’estinsero i lumi, e ’l padiglione
sparve fra tuoni e lampi in un baleno,
e l’isoletta diventò un barcone
colmo di stabbio, di fascine e fieno;
né rimasero in esso altre persone
di tante, onde pur dianzi era ripieno,
che ’l cavalier vittorioso e un nano,
ch’avea uno scudo e una lanterna in mano.

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     E lo scudo porgendo al cavaliere:
— Questo è il premio, dicea, del vincitore
tratto da la colonna, e in tuo potere
lasciato al dipartir dal mio signore;
che per ragion di cortesia ti chere
che, come l’hai de l’alto tuo valore,
cosí ti piaccia ancor farlo avisato
del nome e de la patria onde se’ nato. —
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     Ringalluzzossi il cavaliero e al nano
rispose: — Al tuo signor riferir puoi
che la mia stirpe vien dal lito ispano,
ed è famosa oltre i confini eoi.
Quel don Chisotto in armi sí sovrano,
principe degli erranti e degli eroi,
generò di straniera inclita madre
don Flegetonte il bel, che fu mio padre.
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     Questi in Italia poscia ebbe domino,
e si fe’ in ogni parte memorando;
solo a la gloria sua mancò Turpino,
che scrivesse di lui come d’Orlando:
eroe non l’agguagliò né paladino,
e sol cedé al valor di questo brando;
e perché cosa occulta non rimagna,
digli ch’io sono il conte di Culagna.
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     Ma poi c’ho soddisfatto al tuo desío
e t’ho dato di me notizia intera,
resta ch’ancor tu soddisfaccia al mio
in dirmi il nome e la sua stirpe vera. —
Rispose il nano: — Informerotti anch’io
di quel che brami: usciam de la riviera;
ché tanti cavaiier che colá vedi
bramano anch’essi quel che tu mi chiedi. —

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     Giunser del fiume in su la destra sponda,
dove molti guerrier facean soggiorno;
che, subito che ’l nano uscí de l’onda,
gli furon tutti a interrogarlo intorno.
Egli che lingua avea pronta e faconda,
fermando il piede: — A voi, disse, ritorno
per soddisfare a la comune voglia:
state or a udir; né alcun di me si doglia.
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     Poi che de la cittá cacciati fôro
gli Aigoni dal furor de’ ghibellini,
e ’l conte di Vallestra capo loro
uscí con gli altri anch’ei fuor de’ confini,
trovò per arte magica un tesoro,
e fe’ ne’ monti al suo castel vicini
una grotta incantata, ove gran parte
del tempo stassi esercitando l’arte.
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     Quivi un figliol di tenerella etate
ch’unico egli ha, detto Melindo, e’ tiene;
le cui maniere nobili e lodate
destan nel vecchio padre amor e spene.
Questi, uditi i costumi e la beltate
e ’l valor che mostrò su queste arene
una donzella in questo proprio loco,
arse per lei d’inestinguibil foco:
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     e con prieghi e sospir dal padre ottenne
di comparire a far qui di sé mostra;
onde su l’isoletta in campo venne
armato a mantener la bella giostra.
Ma il timoroso vecchio, a cui sovvenne
l’etá ineguale a la possanza vostra,
fece un incanto ch’esser perditore
per forza non potea né per valore.

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     Fu l’incanto ch’ei fe’ con tal riguardo,
che non potea cader Melindo a terra,
se non venía un guerrier tanto codardo
che non trovasse paragone in terra;
e quanto piú l’incontro era gagliardo,
tanto meglio il fanciul vincea la guerra;
come il ferir del fulmine che spezza
con piú furor dov’è maggior durezza.
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     L’aste, il cavallo e l’armi onde guernilo
era il fanciul, tutte incantate avea:
e chi traea la spada era spedito,
ché de l’isola a forza uscir dovea.
Il cambiar lancia era miglior partito;
ma non per questo il cavalier vincea,
se non era di forza e di valore
piú d’ogn’altro a Melindo inferiore. —
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     Qui tacque il nano: e ’n giubilo fu volto
de gli abbattuti il mal concetto sdegno.
Ma il conte di Culagna increspò il volto
e ritirando il passo e d’ira pregno
trasse la spada, e a quel piccin rivolto
che di timore alcun non facea segno,
— Tu menti, disse, menzogner villano,
e te lo manterrò con questa in mano.
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     Tu vorresti macchiar la mia vittoria;
ma non la macchierai, brutto scrignuto,
ché giá nota per tutto è la mia gloria,
né scusa ha il tuo signor vinto e abbattuto. —
Non volle il nano entrar seco in istoria;
ma fatto a que’ signori umil saluto,
al conte che seguiva il suo costume,
rispose: — Buona notte; — e spense il lume.