La pupilla/Atto II
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Atto I | Atto III | ► |
ATTO SECONDO.
SCENA PRIMA.
Orazio, Quaglia.
A venir qui contro mia voglia, e sentomi
Tremar le gambe. Io tengo come un lepore
Le orecchie tese ad ogni lieve strepito,
E mi par sempre udir la voce solita
Di messer Luca a dir: Via di qua, bindoli.
Quaglia. Ed io mi aspetto di veder sì docile
Il vecchio, e sì proclive ai desiderii
Nostri, che la pupilla accordi subito,
E ve la dia colle sue man medesime.
Orazio. Come si può sperar che ciò si accomodi
Ad accordar, se ricusò prometterla
Finora a tanti ancor di me più nobili,
È ver ch’io spero con il matrimonio
D’assodarmi del tutto, ed ogni pratica
Trista lasciare, e il gioco, e ogni altro vizio;
Ma al vecchio chi potrà darlo ad intendere?
Quaglia. Quand’io ci sono in un impegno, è facile
Superar ogni cosa. Ad ogni ostacolo
Pronto ho il ripiego, e la mia testa è carica
Di tante mine che anche i monti spianano.
Orazio. In te dunque confido, e sol riposomi
Nell’arte tua.
Quaglia. Ma il danaro esibitomi
L’avete in pronto?
Orazio. Ecco la borsa gravida
Di trenta ruspi che per te riserbansi.
Quaglia. Quand’è così, non vi perdete d’animo;
Ne vedrete l’effetto... Oh, viene il vecchio.
Ritiratevi un poco, ed a me il carico
Lasciate di tentarlo1 e il capo svogliere2
Del tutor.
Orazio. Mi ritiro, e aspetto il termine,
Che, tua mercede, il mio desio feliciti.
SCENA II.
Quaglia solo.
Tutto l’ingegno tuo, sol per non perdere
I trenta ruspi; questi mi dan l’anima.
SCENA III.
Messer Luca, Quaglia.
Quaglia. Signore..
Luca. Chi vi ha aperto l’uscio?
Luca. I servidori al solito
Del voler del padrone all’incontrario
Voglion far sempre. Mai le porte chiudono3.
E vien chi vuole.
Quaglia. Non montate in collera,
Signor, per me; che sol da sè voi conducemi
Cosa che a mio parer non vi può offendere.
Luca. Che volete da me?
Quaglia. Vi vuò proponere
Un buon negozio. Conoscete Orazio
Figlio d’Anselmo, quel modesto giovane
Venuto da Pavia fuor di collegio,
Che la legge studiò sotto al Menocchio,
E sta qui dirimpetto...
Luca. Sì, conoscolo.
Pria d’inoltrarmi in un discorso inutile,
S’ei vi mandasse Caterina a chiedermi,
La negativa alla richiesta anticipo.
Non la vuò maritar.
Quaglia. (Corpo del diavolo!
I trenta ruspi se ne vanno in polvere;
Ma se ingegno mi val, non li vuò perdere). (da sè)
Luca. (Ho conosciuta l’intenzion del giovane).
Quaglia. Signor, per dire il vero, in parte astrologo
Siete, ma non del tutto. Io vengo a chiedervi
Per Orazio una donna, egli è verissimo,
Ma non è questa Caterina; ei priegavi
Che gli accordiate per isposa Placida.
Luca. La serva chiede?
Quaglia. Per l’appunto; ei spasima
Per amor suo.
Luca. Dove si vanno a perdere
I giovincelli che non han giudizio!
Sì vil partito per un uom che al nobile
Studio legal fu consacrato e dedito.
Se vivesse suo padre, udrialo fremere
Di tal bassezza, e non ho cuor di perdere
Coll’opra mia nel fior degli anni il misero,
Acceso troppo dell’amor dal fomite.
Quaglia. Signor, sappiate ch’ei lo fa per debito.
Luca. Come! che dite? nella casa propria
Di messer Luca il giovin temerario
Tentò la serva, e l’ebbe a beneplacito?
Quaglia. Non dico questo. Ma sentite: l’avolo
D’Orazio, che morì di beni carico,
Lasciando il figlio erede fiduciario,
Ordinò che il nipote, di cui trattasi,
Sposar dovesse una fanciulla povera.
E siccom’era il testator bassissimo
Di natali, e morì con quelle massime
Colle quali era nato, in un articolo
Dice del testamento, che abbia ad essere
Del nipote la sposa affatto ignobile.
E rende la sagion, così spiegandosi:
Non vuò che i beni miei, che sudor costanmi,
Una pazza li sciupi e li dilapidi;
E ritrovar la vanità è più facile
In donna che abbia nobil sangue o titoli.
Così voglio e comando, (a dire ei seguita)
E chi ricusa il testamento adempiere,
Privo di tutto in saeculorum saecula.
Luca. Al senato l’erede può ricorrere;
Far dichiarare il testamento inutile,
E ab intestato conseguire i redditi4
Dell’avo suo.
Con i chiamati, e nella lite spendere
L’eredità pria di vederne l’esito.
Egli vuol la sua quiete. Alfin ricordasi
Che il padre suo fece lo stesso, e in animo
Fiso ha di prender donna di suo genio,
Sia serva, sia villana, o rivendugliola
Del verzè, della piazza o del Carubio5.
Luca. Vano è, quando ha fissato, ogni consiglio.
Posto ch’egli abbia a prendere una povera
Ma onorata fanciulla, ei non può sciegliere,
Per dir il ver, giovin miglior di Placida.
Quaglia. Gliel’accordate adunque?
Luca. Per me accordola,
Per quanto puossi il mio consiglio estendere;
Ma ella dee contentarsi.
Quaglia. Tanto stolida
Non la cred’io, che al ben voglia resistere,
Per istar peggio.
Luca. Parlerò alla giovine.
Sentirò come pensi.
Quaglia. Permettetemi,
Che introdur possa il giovinetto Orazio
A ringraziarvi del cortese animo,
Che per lui dimostrate.
Luca. Quando comodo
Gli tornerà, venga egli pur, ch’i’attendolo.
Quaglia. Eccolo qui. Signore, approssimatevi.
Luca. Stava qui dunque?
Quaglia. Egli è rispettosissimo;
Non ardiva venire. Via, movetevi.
SCENA IV.
Orazio, Messer Luca, Quaglia.
Quaglia. (Va benissimo.)
Ecco qui messer Luca che propizio
Vuol contentarvi, e la fanciulla impegnasi
Che sarà vostra. In grazia confermatelo,
Per consolarlo.
Luca. Per mia parte impegnomi
Non oppormi.
Quaglia. Non ha niente in contrario.
Orazio. Se la mia brama non ritrova ostacoli
In chi può comandar, son sicurissimo
D’esser felice.
Luca. Ma voi, caro figlio,
Ci avete ben pensato?
Quaglia. Udite, Orazio?
Figlio vi dice.
Luca. Per amore.
Quaglia. Intendesi.
Luca. Il passo a cui tali desii vi guidano,
Siete poi certo che non vi abbia a increscere
In avvenir? Sapete voi che al laccio
Altro che morte non può dar rimedio?
E se la condizion di cotal femmina...
Quaglia. Non lo mortificate. Ei sa benissimo
Quanto gli si può dir. Sollecitatevi
Di parlar alla giovin, disponetela
Con quel poter che autoritade accordavi.
Luca. Le parlerò, ma per sfuggir l’equivoco
Della risposta, a cui il rispetto movere
Potrebbe il labbro suo, qui tosto mandola,
A risolver da sè più franca e libera.
SCENA V.
Quaglia, Orazio.
Che abbia poco operato?
Orazio. Un uomo celebre
Sempre sei stato e lo sarai...
Quaglia. Mi merito
I trenta ruspi?
Orazio. Sì.
Quaglia. Dunque contateli.
Orazio. Ma se la figlia non consente?
Quaglia. Il dubbio
Mi pare in caso tal fuor di proposito.
Se comanda il tutore, condescendere
Dee la pupilla. Ho fatto quanto bastavi
Per ottenerla, e la mercè promessami
Datemi volentieri e con buon stomaco.
Orazio. Aspettiam Caterina.
Quaglia. Non vuò perdere
Altro tempo per voi. So che mi attendono
Parecchi altri innamorati giovani
Che han bisogno di me. Tosto contatemi
I trenta ruspi; o se mi sdegno, al diavolo
Mando quanto ho operato, e vi precipito.
Orazio. No, per amor del ciel. Tieni... ma sembrami
Che alcun qui venga. Sarà dessa.
Quaglia. È Placida,
La sua servente.
Orazio. Ah, di sentire aspettomi
Che Caterina non consenta, e inutili
Abbia tu sparse le parole all’aere.
Quaglia. Quel che ho fatto, vedeste, e voglio il premio
Che mi si deve.
Orazio. Quel che dica ascoltisi
Questa che or viene, e poi te li do subito.
SCENA VI.
Placida, Quaglia, Orazio.
Quaglia. Con licenzia6.
(Te l’ha detto il padrone?)
Placida. (E posso crederlo?)
Quaglia. (Orazio è tuo, se l’amor suo ti accomoda).
Placida. (Basta ch’ei non si penta, io non oppongomi.
Che a dir il ver, mi dà nel genio Panfilo,
Ma sì bella occasion non è da perdere).
Quaglia. State allegro, signor, che tutto è in ordine;
La fanciulla vi ama e non ricusavi,
Anzi è pronta alle nozze; è ver tu, Placida?
Placida. Sì, certamente, e chi potrebbe opponere
Alla bontà ch’ave il signor Orazio
Verso colei che un tanto ben non merita?
Orazio. La sorte mia non mi poteva rendere
Più contento e felice. Andate, io pregovi...
Quaglia. Andate tosto a messer Luca, e ditegli
Che le nozze disponga.
Orazio. E se mi è lecito
Dare alla sposa...
Quaglia. È di buon cuor, credetelo.
Cento segni daralle d’amor tenero,
Ben radicato nel suo cuore, e stabile.
(Partite, e fate ch’ei più vi desideri7).
Placida. Signore sposo, con licenzia.
Orazio. Il debito
Che mi corre con voi saprò discernere,
E sarò grato...
Quaglia. Di sua gratitudine
Possovi io stesso assicurar.
I miei difetti compatire, e rendermi
Degna di quell’amor ch’io non mi merito.
SCENA VII.
Quaglia, Orazio.
Volerle bene.
Orazio. Se la sposa apprezzala,
Io pur ne terrò a conto.
Quaglia. Orsù finiamola;
Parvi ancor tempo di darmi da bevere?
Orazio. Sei assetato?
Quaglia. Sì, ma non dissetomi
Che con bibite d’oro.
Orazio. Affè, aver meriti
Indorate qual Mida infin le viscere.
Prenditi i trenta ruspi, e in pace godili,
Che sienti cari e che buon pro ti facciano.
Quaglia. Voi non sapete ancor quanto mi costino;
Ma lo saprete un giorno.
Orazio. Al sposalizio
Verrai tu pure. Or per allora invitoti.
Quaglia. Oh, non vorrei che avessemi lo stomaco
Da conturbar. Davvero io vi ringrazio.
(Non saran le sue nozze sì festevoli,
Com’ei si pensa. Oh, quanto vogliam ridere!)
SCENA VIII.
Orazio solo.
Giunto mi sia de’ miei desiri al termine.
Par che felicità non abbian gli uomini,
E il non provarli in pria, mi mette in dubbio,
Che dopo il bene, il male abbia a succedere.
Ma non vuò tormentarmi con inutile
Timor... Oh dei, quella ch’io veggo, e volgere
Mostra qua il passo, è Caterina amabile,
La sposa mia. Numi, numi, assistetemi,
Sicchè non cada per l’estremo giubilo.
SCENA IX.
Caterina, Orazio.
Ed io sfuggo vederlo.
Orazio. O mia dolcissima
Sposa diletta.
Caterina. Come mai sì subito
Ciaschedun sa questo novel mio titolo?
Orazio. Non vi disse il tutor, non disse Placida,
Che voi siete la sposa?
Caterina. Sì, mel dissero.
Orazio. Siete contenta?
Caterina. Non saprei rispondere.
Orazio. Al tutor vostro vi vorrete opponere?
Caterina. No certo.
Orazio. Dunque rassegnata e placida
Vi sopporrete del buon padre agli ordini.
Caterina. Non come a padre, per quel che mi dicono.
Orazio. Come a tutor.
Caterina. Nemmeno.
Orazio. Come a un provvido
Amico e consigliero.
Caterina. Indur mi vogliono
Quello di sposo.
Orazio. A far cosa v’inducono
Ragionevole, santa, e ogni or lodevole.
Caterina. Ma ne ho vergogna.
Orazio. Meco discacciatela.
Tre mesi or son, che dal balcon si parlano
I vostri occhi ed i miei. Le labbra aggiunsero
Qualche parola, e lusingar mi fecero
I detti e i sguardi, che non dispiacevole
Siavi il mio amor. Alfin parlare indussemi
La mia passion che più ogni giorno aumentasi.
Il tutor vostro che può sol disponere
Della pupilla, per mia sposa accordavi....
Caterina. Io sposa vostra?
Orazio. Sì, cara, non disselo
Messer Luca medesmo, ed ancor Placida?
Caterina. (Oh mia ignoranza! mi credea volessemi
Il tutore in isposa, ed ora avveggomi
Dell’error fatto. Dunque mi destinano
Orazio?)
Orazio. Via, mia cara, confidatevi
Con chi vi adora.
Caterina. (Non so che rispondere).
Orazio. Un vostro si può ravvivar quest’anima.
Caterina. Dal tutore io dipendo.
Orazio. Ei testè dissemi,
Che voi contenta, sarà contentissimo.
Che rispondete voi?
Caterina. Io? perdonatemi.
Cose son queste ch’io non giungo a intendere.
Egli faccia di me quel che è il mio meglio.
SCENA X.
Orazio solo.
Quel che non dice il labbro suo, comprendesi
Dagli occhi suoi che per amor sfavillano.
Sarò felice un dì. Deh, sian sollecite
L’ore a passar, sicchè più presto arrivino
Quei momenti di gioia, onde quest’anima
Anche in distanza col pensier s’inebria.
Fine dell’Atto Secondo.
Note
- ↑ Ed. Zatta: di parlargli.
- ↑ Pasquali, Zatta e altri: svolgere.
- ↑ Ed. Zatta: Mai porte non chiudono.
- ↑ Edd. Pasquali. Savioli, Zatta e altre: i crediti.
- ↑ Luoghi pubblici in Milano, ove si vendono i comestibili. [nota originale]
- ↑ L’ed. Zatta aggiunge fra parentesi: verso Orazio.
- ↑ Zatta e. s.: in disparte a Placida.