Atto I

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Personaggi Atto II
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ATTO PRIMO.

SCENA PRIMA.

Messer Luca e Panfilo.

Luca. Vi è nessun che ci ascolti?

Panfilo.   No, certissimo.
Siamo soli, parlate.
Luca.   Odimi, Panfilo.
Sai se ti amo qual figlio, e se in te fidomi;
Nè servo mai ebbe padron più docile
Di quel ch’io sono, nè padron può esigere
Servo più fido.
Panfilo.   Sì, onorato veggomi
Dall’amor vostro assai più ch’io non merito.
Luca. Ora vuò confidarti un duol che l’anima
Tienmi afflitta a tal segno, che se mancami
Pronto rimedio, mi conduco a perdere.

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Panfilo. Un uomo, come voi...

Luca.   Soggetti gli uomini
Sono a impazzare, e se nol fan da giovani,
Da vecchi il fanno e per lor peggio. Ascoltami.
La mia pupilla, Caterina amabile,
Cresciuta è meco, e la beltade aumentasi
In lei cogli anni, ed ogni giorno veggole
Accrescer grazie alla vezzosa immagine.
L’amai qual padre nell’età più tenera,
Nè mi guardai dalle coperte insidie
D’amor, cui diede la pietade il mantice.
Volea tacer; ma il tempo ormai si approssima
Di collocarla. Un tal pensier mi lacera;
Cor non ho di veder da me dividere
Quella che il viver mio sostiene e modera.
Ma d’altra parte come mai difendermi
Posso da cento che costei mi chiedono,
Giovani, ricchi, poderosi e nobili?
Panfilo mio, ti apro il mio cuore; aiutami.
Panfilo. Parmi il rimedio al vostro mal sì facile,
Che poco onor credo di farmi in dirvelo.
Caterina vi piace? e voi sposatela.
Luca. Ci ho pensato ancor io; ma chi assicurami,
Ch’ella sia paga delle mie canizie?
Giovane è troppo.
Panfilo.   Siete voi decrepito?
Un uom che tocca appena il cinquantesimo
Anno dell’età sua, vecchio non chiamasi,
Ond’abbia il mondo di sue nozze a ridere.
Anzi vi loderanno, che accasandovi
Con giovin vaga, morbidetta e tenera,
I beni vostri ai vostri figli passino,
Non gl’ingrati a saziar congiunti ed avidi.
Luca. Ecco un altro pensier che mi sollecita,
Forse quanto l’amor. Sai che di Panfila

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Marito fui; ma che fu breve il termine

De’ miei contenti, e che morì la misera
Nello sgravarsi del suo primo ed unico
Parto immaturo.
Panfilo.   Fece maschio o femmina?
Luca. Nol so, nol seppi mai. Partii per ordine
Del Duca nostro di Milano, e in Bergomo
Ero nel dì della fatal mia perdita.
N’ebbi l’annunzio; a ritornar sollecito
Mi affrettai. Ma a che prò? La madre e il tenero
Parto trovai sotterra, e dalla stolida
Nutrice invano ricavar poterono
Cento parole mie del parto il genere:
Al cugin vostro (mi dicea) chiedetelo;
Poi sorrideva, e mio cugino Ermofilo
Mi consigliava a non cercar d’affliggermi.
Ciò mi fe’ creder che di un figlio maschio
Padre stato foss’io, prima di stringerlo
Al sen paterno, già ridotto in cenere.
Panfilo. In tempo siete di rifarvi al doppio
Dell’ingiuria di morte. Padron, giuravi,
Non passa un anno che la giovin tumida
Di voi vedete, e vi regala un bambolo.
Luca. I miei congiunti che diran se prendomi
Questa per moglie, che pupilla affidami
La buona fede del cugino Ermofilo?
Panfilo. È figlia sua?
Luca.   Sì, n’ebbe quattro, e in termine
Di due anni tre maschi a morte andarono.
Gli restò questa figlia, e a me più prossimo
Parente suo la consegnò, partitosi
Per Roma, ov’egli ancor finì di vivere.
Panfilo. Tanto più, s’egli è morto, a voi sol spettasi
Di lei disporre, ed al suo ben provvedere.
E provvedendo al suo sicuro e stabile,

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Provvedete a voi stesso; e quei che dicono

Diversamente, per invidia parlano.
Luca. Tu dici bene e la ragion più facile
Penetra al cor, se a quel che uno desidera
Si uniforma e si adatta. Un forte ostacolo
Temo nel cuor di Caterina. Io bramola,
È ver, quanto può mai bramar un’anima;
Ma a costo di penar, soffrire e fremere,
Non sarà mai ch’io la disgusti un atomo.
Panfilo. Dunque soffrir volete in voi medesimo,
Senza tentar, senza parlar?
Luca.   Confidolo
A te per ora.
Panfilo.   Confidenza inutile.
Se mi potessi trasformare in femmina,
Vi direi: Sì signor, ma ciò è impossibile.
Luca. Scherzi dal servo mio non mi abbisognano;
I consigli li ho intesi, e mi congratulo
Del tuo giusto pensar. Quel, di che pregoti,
Panfilo, è questo, che tu voglia in opera
Porre l’ingegno tuo, perchè discoprasi
L’inclinazione del suo cor. Se nubile
Brama restar, che minor mal parrebbemi;
Se vuol marito, e quale ella il desideri.
Se può sperarsi preferito a un giovane
Che può cambiarsi, un uom canuto e stabile.
In somma, pria di avventurarmi ad essere
Disprezzato e deriso, raccomandomi
A te, che mi apri la via certa e facile.
Hai talento che basta, altro non dicoti.

SCENA II.

Panfilo solo.

Maraviglia non è dunque, se un giovane

Sia innamorato; che i vecchi medesimi

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S’innamorano anch’essi, e il mio dolcissimo

Padrone, a cui donato ho per far grazia
Dieci anni almeno, anch’ei sotto le ceneri
Del bianco crine per amore abbrugiasi.
A dir il ver, mi fa pietade, e massime
Perch’è sì buono, ed il suo cuor confidami,
E mi vuol sì gran ben, che tutti dicono
Cose che il nome di mia madre oltraggiano.
Ma comunque ciò siasi, ogni possibile
Vuò far per contentarlo. Ecco qui Placida;
Esser può questa la sicura ed ottima
Spia del cuor della figlia, poichè sogliono
Confidar tutto le padrone giovani
Alle lor serve, ed esse le consigliano.

SCENA III.

Placida, Panfilo.

Placida. Buon dì, Panfilo bello.

Panfilo.   Buon dì, Placida;
Ma non mi fare insuperbir, con titoli
Che lo specchio mi dice che io non merito.
Placida. Così fossi tu meco un po’ men barbaro,
Come sei bello.
Panfilo.   Lasciam’ir le frottole.
Ho bisogno di te.
Placida.   Di me? comandami.
Che non farei per te?
Panfilo.   Quel, di che priegoti,
Serve per un che assai di me più menta;
Ma questa volta vuò che ti abbia a movere
Più l’amor mio che del padron medesimo.
Sappi che il vecchio è innamorato.
Placida.   Oh capperi!
Che mai mi narri? e chi è colei che accendelo?

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Panfilo. Caterina.

Placida.   Codesto è l’amor solito,
Ch’ebbe per essa fin dall’età tenera.
Panfilo. Oh, pensa tu. La vuol sposar.
Placida.   Corbezzoli!
Il vecchio questa fiata entrato è in frugnolo.
Come lo sai?
Panfilo.   Egli mel disse, proprio
Or di sua bocca, e per escir del guaio
Raccomandasi a me. Saper desidera
Come sta il cuor della fanciulla.
Placida.   Io credola
Indifferente. Praticar non lasciasi
Con chi che sia: è ver che natura opera
Per se medesma, ma se non si attizzano,
Tardi si veggon le fiammelle a nascere.
Panfilo. Dunque si può sperar ch’ella si accomodi
A cambiar pel tutor l’affetto timido
In più tenero amor.
Placida.   Di ciò non dubito,
Quand’io le parli, e la disponga, ed animi
Colle ragioni.
Panfilo.   Fallo dunque, e aspettati
Buona mercede.
Placida.   Qual mercè?
Panfilo.   Promettoti
Che averai dal padron quanto desideri.
Placida. Una cosa mi basta, e pongo in opera
Tutto l’ingegno mio, tutto il mio studio.
Panfilo. Chiedi pur quel che brami.
Placida.   Il cor di Panfilo.
Panfilo. Che ne vuoi far?
Placida.   Nel seno mio tenermelo.
Panfilo. Ed io star senza?
Placida.   Avrai il mio cuore in cambio.

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Panfilo. Odimi, non ti dico un sì prontissimo,

Ma non ti dico un no. Se un po’ di dubbio
Mi resta ancor, se tempo per risolvere
Ti domando, non è ch’io ti consideri
D’amore indegna; ma le cose durano,
Quando prima di farle l’uom vi medita,
E vi consiglia sopra. In questo impegnati
Che ora mi preme, e se il padron contentasi
Ch’io mi mariti.... più non dico, intendimi.

SCENA IV.

Placida sola.

Il tristarello vuol tenermi in fregola,

E chi sa poi se corbellar non mediti?
Ma ad ogni modo se sperar convienemi,
Deggio operar. Che se poi in van mi adopero,
Gli renderò pan per focaccia, e in tossico
Convertirò di mie parole il balsamo.
Ecco la Caterina; sì, vuò subito
Entrar di balzo seco lei in proposito.
Ma con tal arte, quale a cuor convienesi
Non ancor tocco d’amorosa pania.

SCENA V.

Caterina, Placida.

Caterina. Placida, che ha il tutor che tristo veggolo

Più dell’usato, e pare che gli tremino
Fin le ginocchia, e se la mano io chiedogli,
Me la porge tremando, e tosto involasi?
Sdegnato è meco? Se me stessa esamino,
Colpa non trovo, onde a scemare ei m’abbia
L’antico amor.
Placida.   Anzi non mai sì tenero
Fu il suo cuore per voi, non mai sì provvido

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Pensò a voi, Caterina, e il dì si approssima

Che avete il frutto del suo amore a cogliere.
Caterina. Che più sperar, che più ottener potrebbesi
Di quel ch’ei fa, da un genitor medesimo?
Niente mi manca, il vedi.
Placida.   Oh figlia amabile,
Per esser lieta qualche cosa mancavi,
Che or non vi cale, ma l’età più fervida
Fa le donzelle di ottener sollecite.
Caterina. Sai ch’io non amo l’ambizion soverchia
Pascer con ricche vesti, e che mi bastano
Le poche gioje che il mio collo adornano.
Son della vita che da noi qui menasi,
Contenta sì che invidiar non restami
Donzella alcuna anche di me più nobile.
Placida, e che mi manca?
Placida.   O figlia, mancavi
Un non so che, di cui tant’altre ambiscono,
E piacerà a voi pur, sol ch’io vel nomini.
Caterina. Dimmelo dunque, ch’io per me non veggolo.
Placida. Uno sposo vi manca.
Caterina.   Oh, non ti credere
Che mi caglia di sposo. Tutti gli uomini
Non son, qual egli è il mio tutor, sì docili,
Nè affè lo cambierei, se mi dicessero:
In di lui vece si offerisce un principe.
Placida. Codesto sposo che il mio dir proposevi,
Lo potete ottener, senza che stacchisi
Messer Luca da voi.
Caterina.   No, no, il pericolo
Voglio sfuggir, che da un amor contrario
S’infastidisca il mio tutor, che placido
Suol esser meco.
Placida.   In ciò vi lodo, e dicovi
Non vi è meglio di lui nell’uman genere.

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Caterina. Dunque di sposo il ragionarmi è inutile.

Placida. Anzi è util cosa, e a voi necessarissima.
Caterina. Non ti capisco.
Placida.   Caterina, ditemi:
Col tutor vostro, a cui rispetto or legavi,
Non cambiereste di pupilla i termini
In quei di sposa?
Caterina.   Perchè mai dovrebbonsi
Cambiar nomi fra noi? Non è il medesimo
Che sia sposo o tutor, se fra noi vivesi?
Placida. Oh, vi è tal differenza infra i due titoli,
Quanta ve n’è dalla lattuca al cavolo.
Ama il tutor, ma sta l’amor fra i limiti
Delle cure paterne. I sposi si amano
Con tenerezza, e uniti stan se vegliano,
E uniti stanno in compagnia, se dormono;
E mai disgiunti...
Caterina.   Oh, questo poi continuo
Starsi attaccati1 mi sarebbe un tedio.
Piacemi di star sola alle ore debite,
Nè maggior compagnia d’aver io curomi,
Di quella ch’ebbi negli anni preteriti.
Placida. Ma io so che messere or si sollecita
Per trovarvi uno sposo.
Caterina.   Ah sì, conoscolo;
Egli è stanco di me. Testè guardandomi
Bieco, qual ti dicea, dal cuor le lagrime
Trassemi a forza. Che mai feci io, misera,
Che lo suo sdegno a provocar condottami
Abbia senza mia colpa? Alfin conoscere
Ignoranza dovrebbe, e non malizia
In me, se fui cagion della sua collera.
Deh, Placida, se mi ami, va ritrovalo,

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Di’ che tu stessa mi hai veduto a piangere;

Che mi perdoni, e nel suo cor rimettami.
Placida. Altro gli vorrei dir.
Caterina.   Ma che?
Placida.   Con semplici
Mala cosa è trattar.
Caterina.   Ma via, perdonami;
Mi conosci, lo sai, più chiaro spiegati.
Placida. Messer Luca vi ama.
Caterina.   E perchè torbido,
Se mi ama ancora, agli occhi miei presentasi?
Placida. Figlia, apprendete dall’amor, che varia
Gli effetti in lui, quai differenze passino
Dal tutore allo sposo. Un dì godevasi
Senza penar la sua pupilla amabile,
Con amor innocente ancor che tenero;
Ora il diletto che in passion convertesi,
Dinanzi a voi lo fa tremante e timido.
E se un tal uomo, in cui virtude annidasi,
Al violento amor non sa resistere,
Temete un dì le vergognose perdite
Del vostro cuor, che in libertade or vantasi.
Amor è dolce cosa, ed è amarissima
Talora ancor. Certi momenti arrivano,
In cui la donna vien costretta a cedere,
E pel mondo di noi corre il proverbio,
Che ogni or le donne al suo peggior si attaccano.
Questo che vi offre il ciel sposo dolcissimo,
E tal fortuna che invidiar farebbevi
Da più donzelle costumate e giovani.
Del tutor vostro nelle luci languide
Un po’ meglio fissate il ciglio tenero,
Che sì, che in sen voi vi sentite a pungere?
Dite allor fra voi stessa: il cuor principia
A innamorarsi, e buon per me che l’anima

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Per sì bella cagione amore allacciami.

Tutto, a chi non ne usò, parrà difficile;
Ma a quel che dà piacer, presto accostumasi,
E in materia d’amor, soglion le semplici
Scolare divenir mastre prestissimo.
Tutto quel che vi ho detto, in cuor fissatevi.
(Abbastanza parlai. Natura or operi).

SCENA VI.

Caterina sola.

Sento che il cuor tal confusione ingombrami,

Che mai non ebbi turbamento simile
A quel ch’io provo. Se il mio ciglio incontrasi
Del tutor con il ciglio o torbo o timido,
Chi mi assicura che tremar non veggami
Per tante strane e sì confuse immagini?
Lo sfuggirò! Ma se mi cerca? Oh Placida,
Che mai dicesti? Ah, che m’intesi all’anima
Le tue parole penetrar. Già sentomi
Un non più inteso palpitar, che scuotere
Mi fa le membra. Oimè, più non mi reggono
Le piante. Dove sei? Dove sei, Placida?

Fine dell'atto primo.

Note

  1. Edd. Savioli e Zatta: starsene insieme.