La poesia cavalleresca e scritti vari/La poesia cavalleresca/V. L'Orlando Furioso
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V
L’«ORLANDO FURIOSO»
Il Boiardo morendo lasciò nome popolarissimo e ricordato con un misto d’ammirazione e dispiacere: ammirazione per un poema così esteso e che veniva considerato da’ letterati come il non plus ultra della poesia italiana, e dispiacere perché fosse rimasto interrotto sul più bello, e sopratutto perché fosse rimasto incompiuto non solo per l’ordine de’ fatti, ma ancora per lo stile. Quindi capirete come si popolarizzasse il poema, come quelle avventure immaginarie fossero note non meno della storia greca o romana, come que’ nomi fantastici suonassero in bocca a tutti.
Alcuni letterati pensarono a compiere il suo poema: fra gli altri l’Agostini avvocato, il Domenichi professore, e Ludovico Dolce letterato, l’hanno continuato; e sono ignoti per la perfetta aridità e grossolanità d’invenzione e di rappresentazione. Altri vollero dargli le ultime cure: fra’ quali il più celebre è il Domenichi, un gran pedante, che ha corretta l’opera del Boiardo come un maestro pedante può correggere le composizioni d’uno scolare, aggiungendovi oscurità, pedanteria, contorcimenti e pretensione. Il Berni è stato più abile ed ha saputo ritoccare da maestro l’opera del Boiardo.
Tale era il poema romanzesco in Italia, quando l’Ariosto sorgeva nella Corte di Ferrara, dove fu perfezionata la poesia italiana, ch’era cominciata nella corte de’ Medici.
Chi guarda il suo ritratto con quel volto sereno e quelle labbra sorridenti, e legge il suo Orlando, gli suppone un carattere leggiero; eppure la sua vita fu tragica. Era malaticcio, sottile, con un affanno di petto che gli rendeva di quando in quando impossibile il lavoro. Il padre morì lasciandolo giovane con quattro fratelli e cinque sorelle da provvedere e la sua vita fu impiegata a provvedere non solo a sé ma a questi; in tale ingrata e prosaica lotta con le necessità della vita concepì l’Orlando. Possedeva un fondo inesausto di buon umore, e quello spirito che distaccandosi dalle cose se ne pone spettatore e sa scherzare non che sulle altrui ma sulle proprie disgrazie. V’è un tratto caratteristico dell’età sua giovanile. Componeva commedie che i suoi condiscepoli mandavano a memoria e rappresentavano: voleva ritrarre un uomo incollerito, e non gli veniva; non sentiva verità e naturalezza in quelle espressioni di sdegno. Tutto occupato della sua commedia incorse in non so che atto di distrazione innanzi al padre: ch’essendo irritabile, inquieto, e’ s’incaloriva tanto più quanto più silenzioso e tranquillo rimaneva il giovinetto; sinché questi lascia il padre, corre al gabinetto, e dà di mano alla penna; aveva studiato il padre. Così anche quando gli avvenimenti avrebbero dovuto toccarlo sapeva rimanere come spettatore.
Le commedie non erano allora alla moda; e giovanetto incominciò un poema; Rinaldo l’Ardito. Fu ammesso alla corte di Ferrara sotto la protezione del cardinale Ippolito d’Este. E tristo pe’ bisognosi d’accettar protezione: e Ippolito d’Este lo faceva sentire, e l’impiegava in tali uffici che l’Ariosto ebbe a dire in una satira: mi credea poeta e mi trovo cavallaro.
Pure affezionatosi a quella famiglia pensò d’immaginare un poema che ne fosse la glorificazione. Boiardo aveva pensato un episodio che si riattaccasse alla casa d’Este, ed avea supposto che Ruggiero, ultimo personaggio dell’Orlando Innamorato, fosse lo stipite della casa d’Este. Ecco perché l’Ariosto pensò di impadronirsi di quest’ultimo episodio e di farne un poema. Studiandolo l’orizzonte gli si allargò dinanzi; il soggetto prese importanza sociale. Pensò d’impadronirsi dell’ultima azione del Boiardo e di farne un poema epico, che in sul principio tentò di comporre in latino.
La scelta del soggetto è stata biasimata. Nulla di peggio infatti del porsi a continuare un’opera altrui. Fra i biasimatori fu il Tasso, il maggior dotto del suo tempo, il quale, parlando de’ poemi dell’Ariosto e del Boiardo, dice che ciascuno non è un poema compiuto, che all’uno manca la fine, all’altro il principio, che non sono due totalità, ma due parti di un tutto, e considerandoli come tali rimarrebbe una cosa mostruosa.
Il Tassoni aggrava l’accusa: dice che Ariosto s’è condotto per rispetto al Boiardo come Martano per rispetto a Grifone: e dimostra che ha rubata ogni invenzione al Boiardo. Alcuni critici francesi hanno affermato che racconta avventure a casaccio, senza scopo o disegno. Questa critica è effetto della scuola antica che considerava la forma segregata dallo spirito.
Ristabilirò i principii perché vi sia più. chiaro ciò che ho a dirvi.
L’unità interiore d’un poema è la società rappresentata con ogni sua forza e determinazione: al di sotto della guerra di Troia v’è la società greca contemporanea. La vita cavalleresca manca d’un centro chiamato il dovere, la legge che comandi a tutti; il centro è nominale: tutti se ne allontanano; la vita cavalleresca è la vita dell’immaginazione. Questo è il significato della vita cavalleresca. Questa unità interna deve, manifestarsi al di fuori, l’Ariosto doveva trovare un’azione che vi corrispondesse, giacché l’unità esterna è la rappresentazione dell’unità interna. Se avesse creata un’azione centrale seria che producesse ogni parte, avrebbe falsificata la vita cavalleresca. Per virtù della situazione l’azione non deve esser tale che ogni fatto, ogni carattere, ogni passione ne sia determinato, ma tale che la vita cavalleresca le rimanga libera accanto.
Nel Boiardo sono due azioni: quella intorno ad Angelica esaurita e senza grandezza epica, e la guerra fra Cristiani e Pagani. L’Ariosto non ha continuato tutto il Boiardo, ma l’azione ultima, appena cominciata in otto o nove canti. Se ne è impadronito, e, supponendo pochi antecedenti, ha fatto il vero poema. L’Iliade ha antecedenti. Che i greci prendessero le ai mi per vendicare l’onore di Menelao: che navigassero a Troja, che vincessero una prima battaglia e che i Troiani si chiudessero in Troja. Gli antecedenti dell’Ariosto sono più brevi. Agramante riunisce tutte le sue truppe, passa in Francia, vince una battaglia e chiude Carlomagno in Parigi. Sarebbe imperfetto se fosse inintelligibile senza il Boiardo: ma più d’uno ha letto e riletto l’Ariosto ignorando l’esistenza del Boiardo. L’azione dell’Ariosto non è un’azione seria, centrale. I Pagani vincitori assediano Parigi; è inverno; gli eserciti non si muovono, e le avventure cominciano. Carlomagno manda Rinaldo per raccoglier «truppe in Inghilterra. Agramante manda anch’egli a cercar rinforzi in Africa. Orlando va in caccia d’Angelica. I Paladini si trovano a Parigi di primavera. Rinaldo sopraggiunge; i Pagani sono sconfítti. Tutti i gran guerrieri lontani. Rodomonte, Mandricardo. Marfisa, Sacripante, Ruggiero, Gradasso, accorrono e rompono i cristiani. Vincono, ma sopravviene la più poetica discordia che poeta abbia mai immaginata. Marfisa lascia il campo, Rodomonte sdegnato lascia il campo, Mandricardo è ucciso da Ruggiero, Ruggiero è gravemente ferito. I Pagani sono sconfitti. Agramante s’imbarca ma parte della sua flotta è sommersa dalla tempesta, parte è presa dalla flotta di Dudone. Il re torna ne’ suoi regni in una barchetta con Sobrino; giungendo vede fiamme di lontano: la sua capitale. Biserta veniva incendiata da Orlando e Astolfo. Da un’isola deserta dove trovano Gradasso manda a sfidare Orlando e due altri cristiani, ed è ucciso. Mentre i cristiani son vincitori, Rodomonte comparisce e sfida Ruggiero che si era convertito; ed il poema finisce con la morte di Rodomonte. Non è un’azione generatrice, sicché tutti i fatti ne nascano e vi ritornino. È una linea retta che traversa da parte a parte il poema, alla quale convergono, dalla quale si allontanano mille altre linee curve o spezzate, che prodotte da altre cause vanno a finire in essa, o prodotte da essa vanno altrove. Tutta la vita cavalleresca gli si svela liberamente accanto. Con quanta penetrazione della vita cavalleresca, l’azione principale è stata scelta solo come nesso cronologico! Potete dubitarne? Ma leggete e studiate la prima ottava e vedrete quanta coscienza ne aveva. Omero canta l’ira d’Achille; Virgilio i viaggi di Enea; Ariosto non canta un’azione determinata, ma tutta la società cavalleresca: l’azione serve ad indicare il tempo in cui si sviluppa.
Ha voluto anche dare una forma esteriore a questo concetto; e quindi spezza le avventure. Mentre siete più curioso, passa a parlare d’altro, manifestando con queste brusche rotture, con questo passar di cosa in cosa l’essenza del poema: e lo fa con tanta buona grazia che non osate sdegnarvene.
Qual è il contenuto dell’ordito? Avea poca vena inventiva, doveva molto affaticarsi per inventare; ma, inventato, esprimeva agevolmente. Ha inventato poco, ma quel poco è il più bello: l’ippogrifo, la pazzia di Orlando, le ultime avventure di Ruggiero. Ma per lo più riproduce; spesso lo affetta senza necessità. Nel Boiardo v’è un eremita che avendo visti insieme Brandimarte e Fiordalisi, pensa di farle forza; e così ha immaginato Ariosto per Angelica. Cosa lo sforzava a riprodur questo fatto? Nel Boiardo non ha importanza e significato: nell’Ariosto è una delle più belle invenzioni che sia.
Confusa l’invenzione con la fantasia, Ariosto è stato chiamato la «terza fantasia del mondo», perché il Boiardo era stato dimenticato. Il Forteguerri cenando una sera con certi amici che magnificavano la fantasia d’Ariosto, scommise che ove venisse chiuso per un mese in camera ne potrebbe inventare di più strane. Tenne parola e si credé di fantasia uguale all’Ariosto. Ma l’invenzione non è che il materiale greggio: il poeta può ben prendere un fatto tanto da un libro che dalla natura; la sua grandezza è nel vivificarlo, nel ringiovanirlo. Con che orgoglio non dové Ariosto prendere quella invenzione dal Boiardo! Certe minute correzioni ne’ caratteri e ne’ nomi bastano a mostrare il suo buon gusto. Ha cambiato «Rodamonte» in Rodomonte, perché l’o esprime lo stare in quantunque, e quella folla di o esprime il vero concetto di Rodomonte. «Ferrauto» è divenuto Ferraú, gittando le stampelle. Ha tolto a Rinaldo quanto aveva di volgare e plebeo. Astolfo ha perduto il carattere di buffone ed è divenuto l’organo principale dell’immaginazione nel poema.
La grandezza dell’Ariosto comincia dove comincia la poesia; lì comincia il suo lavoro: col Boiardo, con l’invenzione e la concezione non comincia la poesia. Chi dopo Omero più s’innalza nella compiuta obiettività della rappresentazione è Ariosto. Ha rappresentata la vita cavalleresca senza mescolarvisi. Vi sono uomini attori e spettatori; l’Ariosto, rappresentando la Cavalleria con tutta la vivacità dell’immaginazione, ne sta lontano, la guarda con l’occhialino del suo tempo, con una ironia superiore che distinguete dallo stile o da qualche barzelletta finale. Questi due punti avremo quindi da esaminare in Ariosto: la sua rappresentazione obbiettiva; la sua ironia.
Voglio caratterizzarvi la forma dell’Ariosto. Il carattere proprio di questa forma è la rappresentazione diretta e immediata dell’oggetto, detta «rappresentazione omerica».
Sonvi momenti felici nella vita, in cui la nostra intelligenza è così lucida e potente che apprendiamo immediatamente l’oggetto senza che nulla d’estraneo s’inframmetta fra esso e noi. In altri momenti la nostra intelligenza è turbata; più ci sforziamo d’afferrarlo, e più ci sfugge l’oggetto, e meno possiamo afferrarlo; ne rimaniamo staccati; e volendo né potendo pur coglierlo in sé, ci affatichiamo almanaccando, stillandoci il cervello per esprimerlo con rapporti e comparazioni. E facciamo come il cieco che diceva il color rosso esser simile al suono del tamburo, non afferrandone che una circostanza, la forza.
La forma artistica più perfetta, il segno caratteristico della fantasia, sta nell’apprender l’obietto come se ci stesse dinanzi; facoltà propria di tutti i grandi ingegni di tutti gli indirizzi.
Nella letteratura prima appariscono i poeti istintivi, più tardi i raffinati, ché l’arte ha tre forme naturali. Prima quando il poeta non ha la forza di afferrare l’obietto, lo dipinge grossolanamente aridamente superficialmente come Pulci e Boairdo. Quando il poeta sente il bisogno d’afferrarlo, e si sforza e lo vede con l’osservazione, la forma è raffinata, come avviene fra noi oltrepassato l’Ariosto. L’Ariosto ha realizzata la forma poetica nella sua eccellenza, ha raggiunto quanto potrebbe chiamarsi Utopia: la compiuta medesimezza della forma con l’idea. La forma trasparente non è propria di Dante o Petrarca. Fra Dante e Petrarca e l’obietto, ci è sempre la personalità loro, il tempo, le opinioni, le passioni, la scuola poetica dominante; non v’è comunicazione elettrica fra il vedente e il veduto. Questa trasparenza della forma consiste nel suo annullamento, quando diviene una semplice trasmissione e non attira l’occhio per sé. Come uno specchio in cui non vi fermate al vetro. Quali sono le qualità, la fisiognomia di questa forma? qual’è il suo marchio, il suo suggello? La parola chiarezza non è bastante a caratterizzarla, essendo la chiarezza una qualità negativa, un dovere anzi che un pregio. È la limpidezza. Acqua limpida è quella che lascia vedere il fondo come se non esistesse. La forma limpida lascia uscir fuori di sé l’oggetto senza attirar l’attenzione del lettore, e raggiunge l’evidenza, che consiste nel presentar gli oggetti con tanta veritá che ci sembrino posti innanzi agli occhi. Quando Ariosto, per rappresentar la discordia che addita la fraude a Michele dice:
E verso una alzò il dito e disse: — È quella — , |
si serve d’un atto, d’un gesto che mostrano chiaramente l’indicante e l’indicato. Oltre l’evidenza deve avere la facilità, segno della potenza. Quando non si ha vera forza e potenza di concepire si lascia trasparire una certa stanchezza, una certa pena, che stanca e fa pena al lettore. L’Ariosto ha questa perpetua giovinezza: qual’è nel primo verso, tal’è nell’ultimo. Sembra che giuochi con quella forma che gli costa tanto; è tanto facile che leggendolo sembra ad ognuno di poter prender la penna e fare quelle ottave. Eppure nessuno ha lavorato il suo stile quanto Ariosto: avanza un suo manoscritto in cui si vede settantadue volte cassata l’ottava che descrive la tempesta che fa naufragar Ruggiero. È morto correggendo il Furioso, scontento del suo lavoro, e lasciò per ultima volontà ch’e’ venisse bruciato. Un’altra qualità è inerente alla forma trasparente, la naturalezza, effetto necessario di questa apprensione immediata. Se il poeta non ha tutta la potenza d’immaginazione il fantasma gli sparisce; lavora da sé, lo trapassa, lo aguzza, lo assottiglia, diviene esagerato. La naturalezza è la potenza d’immedesimarsi talmente con l’obietto, ch’e’ venga fuori com’è, senza che nulla del poeta vi s’attacchi. Raggiunta questa qualità, il poeta non ha più bisogno di ostentazione, a cui ricorre chi non avendo forza vuol far mostra di averne. Intento a ritrar l’oggetto che ha innanzi, non cerca mai l’effetto, è assente da ogni ostentazione, e pretensione. Queste sono le qualità fondamentali della forma ariostesca. Ma la forma eccellente non è che il pensiero stesso in quanto si manifesta. Qual’è il contenuto di questa forma? La cavalleria. La cavalleria pel Pulci e pel Boiardo è un ammasso di stranezze crudamente raccontate: manifesta buffoneria nel Pulci, e nel Boiardo buffoneria sotto una maschera seria. La cavalleria per l’Ariosto è esteticamente seria: è il regno dell’immaginazione. Quanto meno padroneggiamo e conosciamo la realtà, tanto più si sviluppa in noi l’immaginazione; più conoscete un oggetto e meno è libera l’immaginazione. Ariosto ha soppresso il tempo e il luogo, ha distrutte tutte le condizioni del finito, vi presenta le più strane e amabili cose sempre variando: spoltrisce la vostra immaginazione e vi forza a seguirlo non solo per tutta la terra ma fino nel profondo dell’inferno, fin nella luna.
Perché questo regno dell’immaginazione operi sul lettore, il poeta doveva avere la forza di realizzarlo, di dargli tutte le condizioni materiali necessarie perché produca compiuta illusione sul lettore. L’Ariosto ha questa potenza. Deve presentarvi un palazzo incantato? diviene architetto. Dee presentarvi battaglie e duelli? Non sono burattinate. Ciascuna battaglia ha la sua fisiognomia, ciascun duello ha la sua faccia. Vi presenta le figure di guerrieri e donne in pochi tratti sicché le avete dinanzi come sur un quadro.
Questa sua eccellenza gli ha fatta trovare la vera ottava italiana. I poeti precedenti presentano gli oggetti crudi, senza carnagione. L’ottava ariostesca comprende un’idea in un periodo ricchissimo di accessorii. Non bisogna, lodandolo, dimenticare i suoi predecessori, che furono: come creatore di questa semplicità omerica Boccaccio, e dell’ottava Poliziano. L’Ariosto si è formato sul Poliziano, che non rappresentando oggetti importanti ha creata un’ottava d’eleganza squisita, ma monotona e impacciata. L’Ariosto, senza sottrar nulla all’eleganza, ha sciolto quell’impaccio, ha rotta quella monotonia.
Tal’è la forma ariostesca ed il contenuto ch’essa nasconde. Mediante tanta potenza realizzatrice ha potuto dare serietà estetica al mondo cavalleresco. Ma vi è al di sotto una serietà reale?
L’autore vi prende parte o rimane come un segregato e lontano spettatore senza mischiarvisi mai? Talora il mondo rappresentato è fantastico per le avventure, ma reale pel fondo. Così per esempio è il mondo omerico. Accade quando il poeta appartiene a quel fondo sociale ch’è ancor vivo e desta l’interesse in lui sicché confondendosi con l’oggetto divengano una cosa. Ma quando l’ordito e il fondo sociale sono parimenti immaginarii, se il poeta può dargli vita con l’immaginazione ha de’ subiti ritorni di realtà: con un sorriso, con una caricatura, strappandovi da quella visione vi richiama alla realtà. Questa l’ironia dell’Ariosto, che talora giunge sino al persiflage, talora è sì fina e sfumata da scernersi difficilmente. La sua ironia è implacabile quando ha innanzi la parte epica; ma la tempera e sfuma quando ha innanzi la parte romanzesca.
La macchina epica è l’intervento del soprannaturale. Anche l’Ariosto l’ha introdotta per dissolverla con l’ironia. Carlomagno la vigilia della battaglia si volge a Dio, il quale, impietositosi, manda Michele a prendere il Silenzio che faccia giungere Rinaldo con gl’Inglesi non visto a Parigi, e la Discordia, che semini zizzania fra’ pagani. Tal’è la macchina burlesca che l’Ariosto ha inventata; e qui l’ironia divien facezia e beffa. Ma quando deve rappresentare passioni umane, sparisce l’ironia. Non per questo l’Ariosto si commuove o commuove: il suo regno riman sempre il regno dell’immaginazione: checché racconti, non piangete: tutto vi rimane innanzi svaporato; tanto serenamente rappresenta ogni cosa, che rasserena le fronti che si rannuvolavano e fa ristagnar le lacrime negli occhi. Zerbino moribondo raccomanda ad Isabella di non dimenticarlo.
A questo la mestissima Isabella, Declinando la faccia lacrimosa E congiungendo la sua bocca a quella Di Zerbin, languidetta come rosa, Rosa non colta in sua stagion, si ch’ella Impallidisca in su la siepe ombrosa. Disse: Non vi pensate già, mia vita, Far senza me quest’ultima partita. |
La risposta, se guardiamo al sentimento, è dell’ultimo strazio. Ma non piangete, perché il poeta vi strappa dal sentimento e vi getta sulla forma, perché vi mette innanzi la faccia d’Isabella che vi rapisce, e non vi lascia pensare al sentimento.
Un poeta che può in quell’istante rappresentar quella faccia e andarle cercando paragoni è dominato dall’immaginazione che tempera l’acerbità della sensazione e lo strazio del sentimento. Ho dovuto indicarvi queste qualità senza ricorrere ad esempio. Nella lezione prossima esaminando l’ironia della macchina, avrò occasione di mostrarvi tutte le qualità di questa forma.
Un francese ha detto che gl’italiani suonano sempre la tromba. Infatti è un difetto generale de’ scrittori italiani una tendenza a mettersi in esaltazione fattizia, anche favellando delle cose più semplici e naturali; esaltazione non solo interna ma esterna; consistente non solo nell’abuso de’ tropi, ma anche nel periodo, nelle frasi, nelle parole. Guardiamo il Cinquecento: lascio stare i pedanti riconosciuti, il Bembo e il Varchi; ma anche in Firenzuola, in Annibal Caro troviamo questo difetto; in Sannazzaro che trattando delle più umili cose, fa parlare i pastori con la solennità di Carlomagno. Annibal Caro, negli Amori di Dafni e Cloe, romanzo pastorale, che ha lo stesso fondo di Paolo e Virginia, descrivendo una capra che allatta i suoi capretti, suona la tromba e prende il tono maestoso. Quando la letteratura italiana è risorta, è risorto ancora questo difetto tradizionale: in Giordani, Perticari, Monti e Foscolo, trovate questo tono superiore alle cose. Quando l’autore è esaltato per sé come Foscolo, quando quest’esagerazione vien dal di dentro, è perdonabile, passi; ma quando è puramente esterna convenzionale, divien ridicola, come in Vincenzo Monti, animo vulgare, il cui rimbombo di frasi e di parole non ha radice nel cuore e nel carattere.
Come oggi lo scrittor più notabile d’Italia è quegli che ha dato alla prosa quel tono d’amabile causerie, di realtà che le mancava, il Manzoni, che opponendosi al Verri delle Notti Romane e al Foscolo di Jacopo Ortis, ha dato uno stile facile, andante e naturale alla prosa nostra, così i due maggiori scrittori del Cinquecento hanno inutilmente tentato d’opporsi a questo convenzionalismo, e sono in prosa il Machiavelli, in poesia l’Ariosto. Ariosto è perfettamente lontano da quel tono convenzionale, poi malauguratamente suggellato dall’esempio del Tasso; è come una vecchierella che racconti a nipotini, che si diverte osservando le loro impressioni:
I’ vi vo’ dire, e far di maraviglia stringer le labbra, ed inarcar le ciglia. |
Questo è il suo tono ordinario. Che ne nasce? Se suonate la tromba parlando di cose ordinarie, che farete giunto alla parte poetica? Se narrate tutto sur un tono, manca il rilievo, il risalto necessario a certe parti; se tutto è sublime, nulla è sublime; volendo attirar l’attenzione su tutto, non l’attirerete su nulla. Così n’è della Basvilliana, che sul principio v’alletta e stordisce; ma riman fredda e monotona nelle parti poetiche; quel poema riempie solo l’orecchio. Se pure voleste dar risalto a quelle parti, cadereste nel difetto del Tasso, che giunto alle parti elevate cade nell’affettato, precipita nel raffinato.
E non solo l’esaltazione fattizia è biasimevole per questo, ma per sé. Non tutte le circostanze d’un fatto poetico sono poetiche; vi riman sempre un fondo volgare e prosaico. Una poesia ha valore perché qua e là, se ne spiccano le parti poetiche che hanno rilievo dal contrasto. Il tono per un poeta narrativo è il semplice, lo spedito, dal quale potete innalzarvi a qualunque elevazione, seguendo il soggetto senza che paia brusco.
L’Ariosto ha potuto giungere ad una infinita varietà di stili e toni senza render mai suono falso, giacché adopera sempre il tono richiesto dal soggetto; ed ha potuto passarvi senza aver nulla di ributtante. Tasso non può passare al chiaroscuro, alle parti inferiori, perché il suo tono dominante è quella esaltazione; in Ariosto dopo due versi ammirabili ne trovate due che fannovi scoppiar di risa; è l’antidoto del cattivo gusto.
In che consiste questo tono di conversazione? Primo, nel periodo, nel modo di concepir l’ottava. Chi parla in quantunque, analizza il suo pensiero, ne scarta quanto è volgare, e lo condensa in un verso che gitta come un colpo di pistola. Tal’è il procedimento del Tasso. Prendete la sua prima ottava
Canto l’armi pietose e ’l capitano Che ’l gran sepolcro liberò di Cristo. |
Molto egli oprò co ’l senno e con la mano molto soffri nel glorioso acquisto. |
E invan l’Inferno a lui si oppose e in vano S’armò d’Asia e di Libia il popol misto... |
Quando uno parla senza artificio, si ripete talora, ha un lasciar andare, caratteristico del modo di scrivere che si avvicina al modo di parlare. L’imitazione del linguaggio parlato consiste in quella negligenza apparente tanto difficile a raggiungere. I scrittori aridi tagliano tutti gli accessorii inessenziali al concetto, che sono la pienezza, l’abbondanza, il rigoglio del linguaggio naturale, non logico né pensato. Un tono elevato non ammette che certe parole, esclude metà del vocabolario. Grazie all’adottato tono naturale l’Ariosto può adoperar le parole più triviali senza parer triviale. Quando dice:
So che i meriti nostri atti non sono a satisfare al debito d’un’oncia |