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V. L'Orlando Furioso - 1. L'angelo Michele

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i. — L’angelo Michele.

Nel brano che vi ho letto comparisce per macchina epica l’intervento di Dio che non è serio nell’intenzione dell’Ariosto, ma un’ironia delle macchine epiche. Ironia non chiaramente spiegata, che non giunge sino alla satira, di cui non vi accorgete; che consiste nel dir famigliarmente cose che, dette seriamente, sarebbero poetiche; con un tono conveniente al fondo prosaico della poesia. Anche Tasso descrive una processione ed una preghiera de’ cristiani a Domineddio; ma con che tono elevato che lascia trasparire la sua commozione! Sulle labbra dell’Ariosto v’è un sorriso. Mostra l’ironia, parlando di queste cerimonie come di nude forme, di pratiche esterne, di cose abituali e senza importanza. Chi penserebbe a trovare esaltazione nel modo in cui dice che l’imperatore fece celebrar messe in Parigi?

     L’imperatore, il di che ’l di precesse
Della battaglia, fe dentro a Parigi
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Per tutto celebrare uffici e messe
A preti, a frati bianchi, neri e bigi;
E le genti che dianzi eran confesse,
E di man tolte agl’inimici stigi,
Tutte comunicar, non altramente
Ch’avessino a morire il di seguente.

È il tono più famigliare, ordinario, indifferente; ed in questa familiarità, ordinarietà e indifferenza sta l’ironia appunto.

Segue la preghiera di Carlomagno: qui l’ironia comincia a svelarsi nel tono triviale e nelle cose dette. La preghiera, presa sul serio, è ciò che v’ha di più lirico, come la preghiera di Margherita alla Madonna nel Fausto, o di san Bernardo in Dante. Ma qui Carlomagno comincia a persuadere Dio che, aiutando Carlomagno, farà bene a sé stesso: — Se non m’aiutate, perderete i vostri partigiani — . È un argomento preso dall’utile. Finisce con ragioni da venditore, con un calcolo aritmetico; e la trivialità dell’espressione risponde alla trivialità del concetto.

Ecco come Dante esprime quest’ultima idea:

Immensi furon li peccati miei,
Ma la bontà divina ha si gran braccia
Che prende ciò che si rivolve a lei.
Qui si sente la serietà dell’espressione.

Carlomagno sparisce e viene in iscena Domineddio in persona. Non vi è cosa più imbarazzante del dovere far parlar Dio. Se dite che comanda col sopracciglio, il Giove omerico divien sublime. Ariosto fa parlar Domineddio a Michele come un capo d’affari parla ad un commesso, abiettamente: «digli da parte mia» è il modo più triviale della lingua: e l’Angelo esegue più abiettamente le «commissioni»! L’ironia, in tutto questo, è nel tono.

V’ho detto che se l’autore ha un tono elegante può elevarsi senza nulla di brusco. L’Ariosto, che sin qui ha raccontato ordinariamente, quando comincia alcun che di poetico ad uscir dal fatto, cambia tono a un tratto. Quel trivialissimo Angelo, lasciato [p. 102 modifica] appena il cielo è una forma appartenente al mondo d’immaginazione dell’Ariosto; la forma e l’espressione divengono sublimi:

     Dovunque drizza Michel angel l’ale,
Fuggon le nubi, e torna il ciel sereno;
Gli gira intorno un aureo cerchio, quale
Veggiam di notte lampeggiar baleno.

Questo tono elevato riesce tanto più sensibile, in quanto contrasta co’ versi precedenti e seguenti. Dopo avere strisciato, si leva ad un tratto.

L’Ariosto è sobrio quando dee rappresentare le parti poetiche; ma non ritorna al tono precedente: l’ironia a poco a poco va fino alla satira. Di naturale il tono divien comico e faceto. L’Angelo comincia un ragionamento: dove trovare il Silenzio, e finisce per dire, con convincimento, che dev’essere nei monasteri dove sta scritto dappertutto. Il comico è tutto relativo all’Angelo: corre al convento: «Non è silenzio quivi...». L’ironia sarebbe solo nel fatto:

                                   E gli fu ditto
Che non v’abita piú, fuorché in iscritto.
Di qui l’ironia si svela: il poeta intende di farvi ridere, e non abbandona più questo campo. Il non trovare il Silenzio è meraviglia per l’Angelo. Avea pensato di trovar con quello altre virtù, e non solo non ve le trova, ma vi trova i vizi contrari; e quel riso mutasi nel riso amaro dell’indegnazione:
     Né Pietà, né Quiete, né Umiltade,
Né quivi Amor, né quivi Pace mira.
Ben vi fur già, ma nell’antiqua etade;
Ché le cacciâr Gola, Avarizia ed Ira,
Superbia, Invidia, Inerzia e Crudeltade.
Qui è come un uomo che, vedendo una cosa che non sta bene e d’apparenza ridicola, prima ride e poi s’indegna. Ritorna il ridicolo: ridicolo obbiettivo nelle impressioni dell’Angelo. L’Angelo [p. 103 modifica], meravigliato nel trovar lì la Discordia, che credeva di dover cercare in inferno, è rappresentato nel modo più atto a provocare il riso:
Pensato avea di far la via d’Averno,
Ché si credea che tra’ dannati stesse;
E ritrovolla in questo nuovo inferno,
(Ch’il crederla?) tra santi ufficii e messe.
Con che abilità ha serbato quel contrasto per l’ultimo «tra santi uffici e messe».

Ariosto è il primo cinquecentista che abbia introdotte figure allegoriche; prima, s’introducevano figure mitologiche, che erano personificazioni rettoriche, freddamente riprodotte. Nel Voltaire i personaggi allegorici sono ridicoli e freddi, perché si conducono come esseri viventi. L’Ariosto, con giudizio e misura ammirabili, s’è limitato alla parte scultoria: a dar loro faccia, e faccia tale che sia in rapporto con le passioni che rappresentano.

Bellissima d’originalità è la forma della Discordia, co’ capelli discordi «che aver pareano lite»; quando poi dice:

Avea dietro e dinanzi, e d’ambi i lati
Notai, procuratori ed avvocati,
il riso diviene irresistibile, e cessa tutto quel non so che d’inconcreto che rimaneva. È la Discordia realizzata negli uomini.

A’ suoi tempi non erano ancor sorti i Gesuiti; ed ha saputo indovinarli e rappresentarli nella rappresentazione della Fraude, che è il ritratto dell’ipocrita. È impossibile immaginar quanta destrezza e varietà di toni v’impieghi. Sul principio, è piena di grazia e soavità:

Avea piacevol viso, abito onesto,
Un umil volger d’occhi, un andar grave...
Fin qui la figura è piacevole, il tono grazioso. Poi comincia a caricar la mano e vi mette in cospetto della caricatura:
Un parlar si benigno e si modesto,
Che parea Gabriel che dicesse: — Ave — .
[p. 104 modifica]Dopo avervi così condotti col persiflage, passa alla seconda parte: all’orrore interno ed al disgusto:
Era brutta e deforme in tutto il resto:
Ma nascondea queste fattezze prave
Con lungo abito e largo; e sotto quello.
Attossicato avea sempre il coltello.
Comincia graziosamente e finisce tragicamente.

La stessa potenza realizzatrice troverete nelle altre cose. La casa del Sonno è realizzata con tutte le qualitá convenienti all’eminente personaggio che vi soggiorna.

L’ironia, prima nascosta nella trivialitá d’espressione, poco per volta si distriga, «s’en dégage», prende forza, divien facezia, indegnazione, sarcasmo, e finisce in buffoneria, quando Michele prende a calci e pugni la Discordia, e, mancando di rispetto alla Croce, ne piglia una per bastonarla:

E pugna e calci le dié senza fine.