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260 ATTO SECONDO
Cellina. Di voi più assai mi dolgo, se di me vi dolete:

S’io son poco amorosa, un satiro voi siete.
Alfin voi non potete lamentarvi di me.
Bramaste dei figliuoli? Io ve ne ho dati tre.
Rigadon. Grazie alla sua bontà.
Cellina.   Farne degli altri ancora
Saprò, se non vi bastano.
Rigadon.   Troppe grazie, signora.
Ma ciò sarà difficile, continuando l’usanza
Di star io nella mia, voi nella vostra stanza.
Cellina. Chi diavolo volete che star possa con voi?
Un uom che solo ha in cuore gli argenti e gli ori suoi:
Un uomo tal, con cui ogni dì s’ha a contendere
Nelle minute cose, allor che s’ha da spendere.
Se mio fratel non fosse, farei bella figura!
Egli è, che per affetto all’onor mio procura;
E voi, cuor ingratissimo, così ricompensate
Il ben che si riceve, che voi non meritate?
Siete un uomo indiscreto; ho noia nel sentirvi
A ragionar da ingrato. No, non posso soffrirvi, parte

SCENA VIII.

Monsieur Rigadon.

Dica pur ciò che vuole, so ben quel che cerch’io.

Senza badare ad altri, vuo’ fare il fatto mio.
Questa graziosa villa, che un dì goder io spero,
Lasciar non vuo’ che vada in man d’un forastiero.
Sì, sì, voglio eseguire quel che in mente or mi viene;
Già in tre ore a Parigi si va, si sta e si viene.
Della curia un ministro meco farò venire:
Pretendo su tai beni, e li farò interdire.
Le mie ragion son certe. Le mie ragion son note
Vuo’ assicurar su questi il dritto della dote;
E pria ch’altri vedere padron di questo loco,