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Si può dire dunque che il De Gubernatis raccogliesse l’idea, la modernizzasse, la rendesse pratica. Non bastò al suo sogno la sterile e fredda contemplazione di una ispiratrice; ma di quel nome reso glorioso egli si valse come di una leva potente, come di una scintilla sacra. Nel nome di Beatrice si imperniò tutto il movimento artistico delle donne d’Italia.


    Lei di quale amore doveva essere, quando veniva a mangiare un boccone, subito dopo aver descritto i supplizi dei dannati?
    Che sfuriate, che urli, e — il ciel mi perdoni — che apostrofi in latino e nel dolce stil novo! Ora se la rifaceva con me, ora coi ragazzi, che, poverini, erano più buoni del pan fresco. Ma nonostante, guardi, io sopportavo tutto in pace. Sentivo d’esser la moglie, la compagna di un intelletto sovrano e questo pensiero mi sorreggeva, mi metteva l'ali alle spalle. Quel che non gli sapevo perdonare era quell'eterno culto a Beatrice. Metterla perfino nella Divina Commedia! Servirsi di lei per andare in Paradiso! Era troppo, via! Non si tratta così una povera moglie...
    Ma gli anni passarono e purtroppo il mio poeta morì, consunto dai dolori e dalla nostalgia del suo bel San Giovanni. Io gli tenni dietro poco dopo.

    Da seicento anni a questa parte, io non ho che da lodarmi del Signore, che mi ricongiunse per sempre al mio Dante e ai nostri figli. Beatrice Portinari esulta molto lontano da noi, col suo caro sposo e col babbo. Quindi nessuna ragione di gelosia. Già Dante è diventato tatt’altr’uomo.
    Ma si vede che neanche in paradiso, alla lunga si può gustare una compierà felicità. Alcuni giornalisti venuti qua di recente mi hanno assicurato che una tal Carlotta Ferrari da Lodi fa fuoco e fiamma affinchè costì in Firenze si celebri il centenario di questa fatalissima Beatrice. Ah, sciagurata lodigiana! Perchè non pensare di farlo a me, il centenario, a me che fui moglie paziente di Dante Alighieri e madre dei figli suoi? Possibile che mi si voglia contristare perfino in cielo?