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maligni dissero e sparsero per stupida insinuazione) ma di tutte le donne d’Italia per il loro cavaliere, e gli offrii un modesto banchetto da Capitani a cui convennero moltissimi amici miei e del De Gubernatis. Ma al solito non mancò chi disse che avevo voluto pagare la vittoria, la medaglia, e magari le trecento lire del comitato. Se non avessi fatto nulla è indubitato che mi avrebbero gridato la croce addosso, tacciandomi di sconoscente e d’ingrata. La solita immortale favola di Lafontaine, che durerà quanto il mondo e magari più là!

Proprio in quell’anno, e più specialmente nell’occasione delle feste Beatriciane, strinsi vincoli di affettuosa amicizia con una bionda e soave signora che della

    gido di latte, con le guance smunte, con gli occhi rossi di pianto; voi non le avete udite dire singhiozzando alle direttrici e — ohimè — anche ai direttori scapoli: — Scusi il ritardo, la prego; il bambino è mezzo malato e inghiottisce il latte con difficoltà!... — Voi non le avete udite far lezione con quel supremo spasimo nell’anima!
    La maestra madre! Signore, io proporrei di farne un lascito ai poeti e tutti i pedagogisti senza cattedra e senza cuore, che s’ispirano a tavolino, vivono a tavolino e moriranno, se Dio vuole, a tavolino!
    Ma dunque la maestra dovrà vivere senza marito, senza figliuoli, senza amore? Perchè no, se la scuola le terrà luogo di tutto? Perchè no, se, all’altissimo ufficio ella sarà stata scorta da una profonda, irresistibile vocazione?
    Non fo della poesia, signore. La donna dev’essere maestra per vocazione e non per calcolo, dacchè il magistero sia il più nobile, il più divino dei sacerdozi: e quando il sacerdote non reca all’altare un cuore mondo da ogni altro affetto terreno, si attira, presto o tardi la vendetta del Nume.

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