La mia vita, ricordi autobiografici/XXXI
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XXXI.
L’associazione della stampa in Toscana.
(1893-98).
Poco dopo il 90 vi fu chi pensò, in Firenze, a costituire un’associazione della Stampa toscana. Avrebbero potuto far parte della nuova società i giornalisti, gli scrittori, gli autori di lavori drammatici, i corrispondenti politici.
L’idea era buona, ma siccome al giorno d’oggi non c’è nessuno che non abbia sulla coscienza qualche mezza dozzina di recensioni, o un paio d’aborti chiamati pomposamente commedie a... tesi, e siccome anche il semplice ufficio di un microscopico corrispondente che inviasse una lettera semestrale a un qualche organetto di provincia costituiva un titolo per essere ammessi nell’associazione, così non farà meraviglia il sapere che del nuovo sodalizio costituivano parte integrale...... moltissimi impiegati alle ferrovie, che nelle ore libere dall’ufficio e dalle cure domestiche sfogavano la loro manìa versaiòla in sonettucci d’amore, o correvano ansiosamente al telegrafo per informare il loro giornale degli strepitosi avvenimenti fiorentini. Anzi sui primi tempi, nell’associazione della stampa non figurava neppure un nome di giornalista vero; di un individuo cioè che facesse solamente ed esclusivamente il giornalista di professione. Ciò, s’intende, per la solita smania di parte e per le solite discordie intestine che in tutte le classi e in tutti i tempi sono state le principali caratteristiche del nostro popolo. Non è possibile in Firenze l’accordo unanime di un’intera classe: v’è riuscita soltanto tra gli operai l’idea socialista perchè si fonda esclusivamente sulla questione economica; perchè gli ascritti ad una lega, a un partito, a una società veggono subito, a prima vista l’utile diretto del loro accordo, in lire e centesimi, e non perdono il loro tempo in fantasticherie.
I giornalisti veri (in Firenze non arrivano alla dozzina), dicevano parlando della nuova Società: Ma che cos’è questa associazione della stampa toscana, composta tutta di dilettanti e di impiegati alle ferrovie, di piccoli corrispondenti e di minuscoli scrittorelli che non hanno mai levato un ragno da un buco? È questo il rispetto che si deve a noi, a noi che rappresentiamo il famosissimo quarto potere; che siamo gli interpreti sinceri della pubblica opinione e delle alte idealità politiche? O fuori loro o fuori noi!
E i soci dell’associazione rispondevano in coro: «Ma si può una buona volta saper la ragione di tutta quella superbia, di tutta quella mutria, di tutta quella muffa? Che cosa credono d'essere questi galoppini della questura; questi sforbiciatori di notizie; questi raffazzonatori di telegrammi? Credono forse di abbassarsi a far parte della nostra società? La letteratura non val forse il giornalismo? o fuori loro, o fuori noi!
In verità, tutt’e due le parti avevano ragione. L’associazione della stampa toscana non aveva ragione di esistere. Firenze, nucleo principale della società, non ha l’importanza industriale ed economica di Milano, non quella politica di Roma, sicché, mentre le altre due associazioni della stampa, la lombarda e la romana, crescevano e prosperavano, la nostra, foggiata inutilmente su quel modello e ispirata erroneamente a quei medesimi criteri, non aveva nel suo seno germi di vita duratura.
Firenze è la città del passato e della bellezza; ha quindi soltanto una funzione storica ed artistica.
La città moderna comincia appena ora a farsi, e le idee del nostro tempo non trovano fra noi che qualche rara applicazione. Una città come Firenze, che conta più di duecentotrentamila abitanti è rimasta vergognosamente indietro per tutto quello che si riferisce a progresso politico, amministrativo, morale, edilizio. I suoi cittadini non si appassionano mai per le questioni vitali che si svolgono nel Parlamento nell’interesse o nel danno del paese. Firenze non conta che pochissime istituzioni di beneficenza e anche quelle rachitiche, malaticcie, moribonde prima di nascere; Firenze non ha, da anni, un’amministrazione comunale che si proponga di svolgere pienamente un programma, e cammini risolutamente per la sua via. Per la sua apatìa diventata ormai proverbiale, la nostra cittadinanza non è mai insorta contro una legge che la offenda, contro un decreto che l’avvilisca, contro un provvedimento che ne menomi, in qualche modo le tradizioni gloriose. Firenze è arretrata in tutti i servizi pubblici, non ha slanci di iniziative, non ha generosi ribellioni. La nostra maggior biblioteca (una delle prime del mondo) minaccia quasi rovina; i miglioramenti edilizi sono osteggiati dalla feroce critica dei partiti, le strade principali sono ancora illuminate a gas, i quartieri fuori di centro oscurissimi, la vigilanza interna esercitata da un piccolissimo numero di guardie comunali.
Il suo maggiore Istituto di istruzione è povero. Lo Stato non gli concede che poco. Le cliniche sono sprovviste, i laboratori miseri, le biblioteche pressoché vuote. Il commercio è appena vivificato dall’annuale invasione di forestieri chee restaurano le nostre esangui finanze coi loro marchi, i loro dollari e le loro sterline, né rivela mai l’audacia della concorrenza e l’impronta dell’originalità. Siamo artisti, grandi artisti, solamente artisti.
Non abbiamo che una sola ricchezza: il gusto.
Ora, per questa freddezza congenita della nostra popolazione, per questa indifferenza ai miglioramenti di qualunque genere, per questo vieto paolottismo che s’è ormai radicato nelle ossa dei buoni fiorentini, per questa mancanza di idee, di spirito, di fatti, di generosità, di attività, Firenze non ha giornalismo. Ed ecco perchè l’Associazione della stampa toscana, che non aveva ragione d’essere, rimase sempre un grazioso e simpatico circolo ricreativo e nulla più.
⁂
E come circolo ricreativo non mancò al suo scopo. Le feste più belle e più simpatiche furono organizzate dall’Associazione della stampa.
Al teatro Pagliano convennero, in una sera memorabile le più note individualità artistiche d’Italia, quali Roberto Striglio, Gemma Bellincioni, l’arpista Lorenzi, il baritono Battistini, Ermete Novelli.
Il teatro era gremito e all’ultim’ora si offrivano per i posti distinti prezzi elevatissimi. L’Associazione intascò in quell’occasione parecchie migliaia di franchi che servirono a pagare i debiti. Debiti di mobilia, di tappezzeria, di pigion di casa ecc. Un’altra volta, nell’occasione della venuta di Pietro Mascagni a Firenze per le rappresentazioni di Cavalleria rusticana la «Stampa toscana» offrì un solenne ricevimento al superstizioso e chiomato maestro. Conobbi allora per la prima volta il giovane compositore, il quale durante il banchetto che gli veniva offerto con tanta cordialità dai miei colleghi in giornalismo, non fece che dir freddure e raccontarmi, con grazia inarrivabile, una quantità di aneddoti esilaranti. Confesso, ad onor del vero, che in quel tempo Pietro Mascagni non posava, non ostentava neppure di quelle arie da grand’uomo che molti critici volevano attribuirgli. Egli era il maestro di musica, più buono, più semplice e più pacifico che mai si potesse immaginare. Tutto fiero dell’esito strepitoso di Cavalleria rusticana, non sognava ancora le... Maschere. Sempre grazie all’iniziativa dell’Associazione della stampa, fu organizzato un altro ricevimento in onore di Emilio Zola e della sua graziosa signora. Il grande scrittore francese passava in quei giorni da Firenze per recarsi a Roma dove avrebbe raccolto i materiali per il suo futuro romanzo. Il nome e la popolarità dello scrittore meritavano moltissimo; ma gli impiegati alle ferrovie dell’Associazione della stampa toscana dimostrarono, se non altro, di saper far bene gli onori di casa.
Però le continue rappresentazioni teatrali che si ripetevano con regolarità cronometrica alla fine di ogni semestre fecero nascere nella cittadinanza il sospetto che più dell’amor dell’arte fosse radicata nell’intellettuale sodalizio la bramosìa della pigione, sicché si divulgò presto in Firenze la dicerìa che sarebbe presto giunta l’ora della nostra morte.
L’arte medica consiglia ai moribondi le frequenti inalazioni di ossigeno. Vivificò per qualche altro tempo la languente Associazione (nuovo ossigeno letterario) un corso di conferenze, che riuscirono, se non altro, a riempire le nostre sale quasi deserte. Io fui invitata1 (con una cortesissima lettera dal consigliere di turno) ad una lettura. Acconsentii di buon grado; e scrissi per l’Associazione una briosa conferenza intitolata Il bacio.
Siccome ho sempre nutrito un orrore salutare per i discorsi troppo lunghi, così feci in modo d’esaurir l’argomento in venti o in venticinque minuti, e bene o male ci riuscii. Più ben che male, forse, perchè la breve conferenza piacque moltissimo, e prima ancora che fosse pubblicata, Re Vittorio Emanuele, che allora era principe di Napoli e risiedeva in Firenze come comandante del corpo d’armata mandò più volte il suo aiutante di campo, capitano Algozino, a chiedermela.
Una breve parentesi. Il ricordo di quella cortesia mi fa venire in mente una particolarità del mio carattere che forse può interessare. Quantunque abbia nutrito e nutra sempre una simpatia vivissima per la famiglia reale di Savoia, e quantunque non mi sia mancato il mezzo di potermi far presentare, se avessi voluto, a qualche personaggio della casa, io sono stata sempre a me, paga della mia solitudine e timorosa che il mio affetto sincero potesse — anche lontano — sembrare cortigianeria.
Il Re d’Italia leggeva, quand’era giovinetto, i miei libri e più volte ha parlato di me con benevola simpatia, esprimendo il suo vivo desiderio ch’io venissi presentata una volta o l’altra all’Augusta madre. La Regina Margherita stessa ebbe la bontà di ricordarmi recentemente, e con parole affettuose a chi, in mio nome, le recava l’omaggio di una mia pubblicazione. Ma io personalmente non mi son fatta mai viva. Soltanto nel 90 parlai un’ora circa col Duca d’Aosta all’Esposizione Beatrice. Il Principe, meravigliato della mia fecondità di scrittrice, aveva voluto conoscermi e congratularsi con me. Gradii moltissimo gli elogi; ma ero così poco abituata a conversare con un principe del sangue che proprio sul più bello del nostro colloquio, mi scappò fuori dalle labbra un «signor duca» che non poteva in nessun modo sostituire l’«Altezza Reale» di prammatica. Un’occhiataccia del conte De Gubernatis tentò di rimettermi sul seminato; ma ormai il male era fatto ed il rimedio impossibile. Per fortuna il Principe non si accorse di nulla, o non mostrò di accorgersene e il democratico appellativo non ebbe — a Dio piacendo — conseguenze disastrose.
Ritornando all’Associazione della Stampa, dirò che uno dei suoi ultimi atti di governo, consistè in un malinconicissimo veglione al Teatro Nuovo, immaginato all’ultimo momento dal consiglio direttivo per rimediare a uno spaventevole vuoto di cassa... La nostra assoluta mancanza di fondi, che avrebbe impietosito anche il tiranno Ezzelino, non impietosì il buon pubblico, il quale capì la ragia e non volle aiutarci in nessun modo a pagar la pigione di casa. Il veglione cominciò tardissimo, a mezzanotte suonata ma in compenso prima delle tre il teatro era vuoto e il consiglio direttivo della nostra Associazione dovè rassegnarsi, con terrificante amarezza a fare a meno del pubblico e a verificare che, anche quella volta, le uscite erano state più delle entrate.
Nell’intimissimo periodo di vita dell’Associazione della stampa io fui nominata dall’assemblea generale socia del consiglio direttivo, e bibliotecaria dell’Associazione. Per una donna, viste le idee antiquate dei fiorentini, era un onore insperato!.... Ma l’accesso di femminismo durò poco, forse perchè la società si spense lentamente, quasi senza accorgersene, per mancanza di soci e per conseguenza di quattrini. I mobili furono venduti, gli impiegati alle ferrovie ripresero malinconicamente la strada del loro ufficio, i pochi letterati che ne facevano parte alzarono le spalle con molta filosofia, e i giornalisti di professione i nostri più feroci nemici — sorrisero sarcasticamente una volta di più.
- ↑ Riporto quì la gentilissima lettera d’invito:
Gentile collega,
Firenze 8 Gennaio 1895
Come è a vostra conoscenza fin dal decorso novembre venne iniziata nella sede della nostra associazione dagli egregi colleghi cav. Guido Carocci e Gattesco Gatteschi una serie di conferenze che dovrebbe essere, secondo gli intendimenti di questo consiglio direttivo, proseguita, mercè il concorso di valenti letterati a preferenza soci della nostra associazione.
A tal uopo il consiglio nell’adunanza del 4 corr. con voto unanime deliberava di pregarvi, gentile ed illustre collega, a voler tenere nella sede nostra ed entro il mesa corrente una conferenza sopra a quel tema che a voi piacerà scegliere, nella piena certezza che qualunque soggetto, trattato da voi con quella leggiadria ed eloquenza di concetto e di forma che vi sono proprie, desterà il più vivo interesse ed incontrerà il gradimento e l’ammirazione di quanti avranno la fortuna di ascoltarvi.
La vostra nota gentilezza e l’affetto da voi nutrito per la nostra assoluzione mi fanno fermamente ritenere esser certa la vostra adesione. Ond’è che, fin d’ora ringraziandovi, mi pregio di confermarvi l’espressione della piena e devota mia stima.Il Consigliere di turno