La metà del mondo vista da un'automobile/XIX

CAPITOLO XIX. — Dal Kama al Volga

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XVIII XX

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CAPITOLO XIX.


DAL KAMA AL VOLGA

Automobile, latte ed uova — Una bufera — La ruota è rotta — La ruota è rifatta — Un villaggio che ha paura — Un guasto ai freni — «Postowo!» — Melekeski — Il lavoro sulla terra — Kazan.


I cittadini di Perm, al mattino del 21 Luglio, debbono aver constatato, con loro grande sorpresa, un sensibile rincaro nei prezzi del latte e delle uova. Poco latte e poche uova sul mercato, in quel giorno. Noi abbiamo il rimorso d’essere stati la causa innocente di quella profonda perturbazione economica. L’automobilismo, nei paesi nuovi a questo sport, produce degli effetti inaspettati; ha delle conseguenze assolutamente imprevedibili. Ecco che cosa era accaduto:

Eravamo appena usciti dalla città, con un tempo minaccioso e piagnucoloso, quando c’imbattemmo in una gran fila di teleghe. Portavano prodotti agresti al mercato di Perm. I contadini, maschi e femmine, guidavano i cavalli con la loro abituale noncuranza, seduti sul bordo della telega, le gambe ciondoloni. Il mujik ha due modi per condurre il carro: un modo per andare al mercato, e un modo per tornarne. Al ritorno è la testa che ciondola, e le gambe sono dentro alla telega; perchè il mujik non manca mai di convertire coscienziosamente in vodka, una buona parte del denaro guadagnato, e di bere con eguale coscienza la vodka [p. 416 modifica] fino all’ultima goccia. Ma in quel mattino, come ho detto, si trattava di contadini che andavano al mercato, e le teleghe erano perciò guidate nel modo numero uno.

Quando ci avvicinammo, il cavallo del primo carro diede segni di terrore, e poi di furore. I cavalli del governatorato di Perm, non so per quale misteriosa influenza, sono i più feroci nemici dell’automobile. Noi avevamo trovato una grande differenza di contegno verso di noi fra i cavalli d’un governatorato e quelli di un altro: quelli di Transbaikalia, ostili; quelli d’Irkutsk, diffidenti; quelli di Tomsk, indifferenti; quelli di Omsk, variabili; quelli di Perm, irriducibili. Aggiungo anche, per chi volesse approfondire le imperscrutabili relazioni fra il carattere dei cavalli e le religioni degli uomini, che i cavalli dei buddhisti e dei maomettani dimostravano per noi dei sentimenti quasi amichevoli; nelle stesse vicinanze di Perm, i cavalli dei tartari ci guardavano con grande indulgenza, da bestie tolleranti che non pretendono al dominio assoluto della strada, che corrono e lasciano correre. Dunque, dicevo che la bestia attaccata alla prima telega s’impennò.

L’automobile rallentò al passo d’uomo: inutile precauzione. Il cavallo fece uno scarto, e la telega si rovesciò. Era carica di latte e d’uova. Si formarono per terra dei rivoletti bianchi e gialli.

Stavamo per riparare all’involontario misfatto, quando con la rapidità d’un baleno il panico si comunicò da cavallo a cavallo. La seconda telega si rovesciò. Poi la terza. Non c’è nulla di più contagioso del cattivo esempio. Tutte le teleghe si trovarono in un istante con le ruote in aria. Il latte scorreva da tutte le parti, e i contadini, incoraggiati dalle loro mogli, si precipitarono contro a noi. Che fare? Che fare quando si è sopra un’automobile da quaranta cavalli, minacciati da una folla di muijk armata di bastoni? Una cosa semplicissima; con rincrescimento, ma con decisione; la leva della velocità fu spostata, e la macchina allungò il passo fuori della portata dei bastoni. Ma non avevamo percorso una versta, che scorgemmo avanti a noi un nuovo lungo convoglio di teleghe. [p. - modifica]L’Itala tratta in salvo dopo essere stata travolta dal crollo d’un ponte nella Transbaikalia. [p. 417 modifica]

Questa volta decidemmo di fermarci e di lasciarlo passare. Ebbene, l’automobile ferma non appare ai cavalli meno spaventosa dell’automobile in moto. Avvicinandosi cominciarono a rizzare le orecchia, a squassare la testa, a sfrogiare, a nitrire, e improvvisamente il primo cavallo si sollevò sulle zampe posteriori, e fece un voltafaccia, dimenticandosi d’essere attaccato; la telega, sterzando di colpo, si rovesciò. La seconda fece lo stesso, e sùbito dopo la terza, e le altre. Latte e uova in terra, e bastoni in aria. E automobile in fuga.

Da quel momento cambiammo tattica, e con fortuna. Passando vicino ai carri, andammo a tutta velocità; e non avvenne più alcuno spargimento di latte. I cavalli avevano appena il tempo di accorgersi del passaggio del mostro, che il mostro era sparito; ed essi continuavano la via completamente rassicurati. Tutto si riduceva ad un leggero moto di spavento delle teste: era un istante. Applicavamo in fondo la tattica adottata sui ponti di dubbia resistenza; i cavalli non avevano il tempo d’impennarsi, come i ponti non avevano il tempo di rompersi. Il momento critico era ridotto ad un attimo. E i contadini ci salutavano con entusiasmo, sorridenti e sorpresi allo spettacolo di quella corsa vertiginosa.

Qualche ora dopo entravamo in grandi foreste di abeti, mentre si scatenava uno dei più violenti temporali. Un vento impetuoso s’abbatteva sugli alberi, li curvava tutti ululando, sibilando; e il cielo buio pareva che sfiorasse le loro cime acute, nere ed agitate. Filtrava una luce crepuscolare, come fosse tornata la notte, spezzata dal bagliore violastro dei lampi che ci abbacinava.

Rombava continuo il tuono. La pioggia torrenziale scrosciava per tutto come una gran cateratta, e inondava ogni cosa, allagava la strada, riempiva i sedili della vettura, ci penetrava sotto alle impermeabili, batteva sui nostri visi con una violenza che faceva male, che dava un vero dolore quasi che l’acqua fosse stata solida tanto le gocce erano grosse e il vento forte. Dovevamo andare lentamente, il terreno non si vedeva più, era coperto [p. 418 modifica] d’acqua e velato dagli spruzzi. L’automobile, naturalmente, si abbandonava a tutte quelle bizzarrie che rappresentavano il suo modo di protestare contro il fango: pattinava, scivolava sui fianchi, camminava di traverso, mostrava una irresistibile propensione a voltarsi con la fronte indietro, aveva disobbedienze e capricci. La bufera continuò per quattro ore. Alle nove e mezza avevamo appena percorso cinquanta verste da Perm, in quasi sei ore di viaggio.

Giungemmo in riva al Kama. Spioveva. Passavano ancora le nuvole basse impigliandosi negli alberi delle foreste che bordeggiano il fiume, ma verso tramontana appariva una striscia di chiarore. Attraversammo il largo fiume — che è la più grande via di comunicazione della Russia orientale, dopo il Volga del quale è confluente — sopra un battello rimorchiato da un piccolo vapore. Era un vecchio vaporino, rappezzato, rammendato da tutte le parti con latte da petrolio rinverniciate, al quale demmo subito il nomignolo di “caffettiera„. La caffettiera non aveva fretta, bolliva a malincuore, sprecava tutto il fiato in gran fischi per segnalare la sua presenza alle rive deserte, e non si dimostrava certo preferibile a quel comodo motore a cavalli adottato dai siberiani nei loro massimi traghetti. Come Dio volle sbarcammo sulla riva destra, guadando una parte di sponda allagata dalia tempesta; e proseguimmo la corsa nel fango. Talvolta dovevamo scendere, per spingere la macchina, quando le ruote motrici s’ostinavano a girare senza procedere.

Attraversammo, in vicinanza del Kama, la cittadina di Ochansk, dove cominciammo a vedere delle case di legno nell’antico e pittoresco stile russo, dalla cuspide a cuore rovesciato, cariche d’intagli e di trafori ingenui e graziosi come ornati bizantini; e continuammo assiduamente a camminare come meglio potevamo, sperando di poter giungere a pernottare a Malmysh sul fiume Wjatka — tributario del Kama — a circa 150 verste da Kazan. Ci eravamo prefissi di percorrere in quel giorno 360 chilometri, e contavamo di essere a Kazan l’indomani mattina.... [p. 419 modifica]Doveva avvenire ben diversamente. In certi viaggi non bisogna mai far delle previsioni. Prevedere è un deplorevole atto d’orgoglio, un fissare i limiti al destino. Il destino volle vendicarsi ed umiliarci.

Verso le undici avevamo percorso una trentina di verste dal Kama. La strada migliorava, si prosciugava. Il tempo s’era rischiarato. Profittammo di queste favorevoli circostanze per aumentare la velocità. La ruota malata ricominciò a scricchiolare.

Dopo dieci minuti cigolava. Proseguimmo — che altro fare? — e il cigolìo si cambiò in uno stridore più alto. Pochi metri ancora, e poi uno schianto. Ci fermammo. Il Principe saltò a terra ad osservare la ruota, e mandò un’esclamazione di sorpresa dolorosa.

— Che c’è? — gli chiesi.

— È finita! — rispose — non possiamo fare un passo di più!

Infatti i raggi della ruota s’erano completamente separati dal cerchione; girando entravano e uscivano dagli alveoli; vi entravano nella parte bassa della ruota, pressativi dal peso della vettura, e ne uscivano risalendo nel fare il giro.

Non potevamo essere colpiti da un danno maggiore. Eravamo fermati e per un tempo incalcolabile, in mezzo ad una campagna disabitata, a centinaia di chilometri dalla ferrovia. Fu un momento di costernazione. Tacevamo, guardando la ruota sconnessa con delle occhiate malevoli d’un inutile rancore.

— Ed ora? — ci chiedemmo dopo qualche minuto.

— Tante fatiche! tante difficoltà superate! — sospirava Ettore. — Per arrivare qui....!

— Non si può nemmeno far trascinare l’automobile dai cavalli — osservai — senza una ruota!

Borghese pensava. Poi, da uomo pratico, disse:

— Andiamo per ordine. Quale è la cosa più urgente? Arrivare in un luogo abitato; il più vicino. Non possiamo già rimanere in mezzo alla strada. Fatto questo primo passo, penseremo al secondo. Vediamo un po’ l’itinerario. [p. 420 modifica]

Consultammo le carte della regione. Il villaggio più vicino era a otto verste.

— Bene! — riprese il Principe. — Ora dobbiamo trovare il modo di fare ancora otto verste. Per otto verste la ruota si può riparare.

Egli dimostrava sempre una calma energia, ricca fonte di rimedi. Fu immaginata una ingegnosa riparazione sommaria, capace di resistere ad un piccolo tragitto, purchè fatto con le debite cautele. Si trattava d’incastrare dei pezzi di legno fra il mozzo della ruota e il cerchione, a guisa di raggi addizionali, messi a contrasto e legati solidamente con delle corde. Ettore si pose alacremente al lavoro. A colpi d’ascia tagliò forti rami da un albero, ne sgrossò i pezzi occorrenti, e li spinse a martellate fra un raggio e l’altro della ruota dopo averla sollevata con la binda. Poi li avvinse strettamente con le corde ai raggi stessi.

La ruota prese l’aspetto d’un singolare fascio di legname contornato da una pneumatica. Mentre si lavorava sopraggiunse un vecchio mujik che spingeva avanti a sè un vitello.

Il vecchio si fermò a guardare, e anche il vitello. Dopo avere osservato attentamente, esclamò:

— Salute!

— Salute.

— Ci vuole la ruota nuova!

— Eh, si.

— C’è un uomo che può farvela, qui vicino.

— Una ruota così? — gli domandò Borghese con tono d’incredulità.

— Così, padrino! — rispose il vecchio — Così. Egli è il più abile fabbricatore di slitte e di teleghe di tutta la regione. Non ne trovate nemmeno a Perm uno così bravo.

— Ma questa è una telega molto complicata. Una telega che cammina da sè.

— Lo vedo che non è come le nostre; però Nikolai Petrovitch è capace di rifarvi una ruota, tale e quale. [p. 421 modifica]

— Dove sta quest’uomo!

— Sei verste lontano. Andate per questa strada, e troverete una piccola chiesa bianca; a sinistra della chiesa c’è una discesa, poi un ponticello; passate il ponte e ci siete. Non vi potete sbagliare; la sua isba è sola nella campagna.

— E lavora oggi? È domenica.

— Lavora alla mattina. Ma se avete premura....

Sul battello a vapore che traversa il Volga a Kazan.

Ringraziammo il buon vecchio, che riprese la sua strada preceduto dal vitello trotterellante, e ci mettemmo in moto, lentamente e cautamente, verso la casa di Nikolaj Petrovitch. Dopo pochi passi la ruota ricominciò a scricchiolare, a cigolare, a gemere; ci aspettavamo di udire un rumore di rottura definitiva e di sentire l’automobile dar giù sul fianco. Ma la ruota, lamentandosi atrocemente, resisteva. Impiegammo più d’un’ora per giungere davanti all’isba del falegname. Era una casa di buona apparenza, fatta di belle travi squadrate, attigua ad un recinto sul quale si sollevavano tettoie di hangars. Fuori, al sole, erano [p. 422 modifica] allineate numerose assi da slitta tenute curve ad una estremità da forti corde di vimini. Chiamammo.

Subito dopo la porta del recinto si schiuse e ne uscì un uomo.

— Nikolai Petrovitch? — chiedemmo.

— Sono io. Salute!

Era un bell’uomo sui cinquantanni, dalla gran barba grigia; il suo volto aveva l’espressione mistica del contadino russo; i capelli lunghi, divisi sulla fronte, gli spiovevano fino alle spalle.

Aveva una corporatura gigantesca; vestiva la camiciola rossa del mujik, aperta sul petto; portava il capo nudo. Lo seguivano i suoi aiutanti, anche loro dall’aspetto patriarcale; dalle maniche rimboccate uscivano braccia atletiche, capaci di abbattere alberi.

— Guardate questa ruota! — disse il Principe al fabbricatore di teleghe.

Egli osservò per alcuni istanti:

— Si possono rifare i raggi. — esclamò — Il cerchione è buonissimo. Ci si fanno degl’incastri più profondi....

— Voi potete rifare i raggi?

— Sì.

— E che resistano?

— Vi faccio diventare la ruota più forte di quando era nuova.

— Ne ho bisogno subito.

— In mezza giornata è fatto.

— Sta bene.

L’automobile venne introdotta in un rustico cortile, sporco di ricci e di scheggie, ingombro di travi, slitte, carri, cerchi di ferro.

In un angolo un tarantas verniciato di fresco appoggiato su due cavalletti. La ruota fu sfilata dal perno, svitata, smontata; i raggi separati dal mozzo e dal cerchione servirono da modello per quelli nuovi. Pochi momenti dopo il cortile risuonava di colpi d’ascia. Nessun altro ordigno era adoperato fuorchè l’ascia, maneggiata con meravigliosa abilità. Essa è nelle mani del contadino russo [p. 423 modifica] un attrezzo di precisione. Per determinare il punto dove colpire, quegli uomini non facevano segni, non tracciavano linee: mettevano la mano sinistra sul legno, e il colpo cadeva quasi rasente il pollice. La posizione del dito aveva indicato all’occhio e alla destra la misura. I nuovi raggi uscivano fuori a poco a poco da grossi ceppi di vecchio pino, digrossati a gran fendenti che facevano balzare tutto intorno le scheggie. Gli artefici misuravano sovrapponendo i vecchi pezzi ai nuovi, e non avevano bisogno d’altro; raffinavano esattamente incastri millimetrici con occhio e con colpo sicuro, ad accettate che scendevano a giro di braccio, come se invece di un tanto delicato lavoro si stesse costruendo un’impalcatura o una zattera.

Mentre stavamo guardando quel pittoresco gruppo di rudi uomini barbuti intenti all’opera faticosa, uno di essi si volse a noi, e calmo, serio, ci parlò in latino.

La nostra sorpresa fu tale, che per qualche momento lo guardammo sbalorditi, senza rispondere.

— Dove lo hai imparato? — gli domandò Borghese.

— L’ho studiato da me, a casa, durante gl’inverni — rispose gravemente l’uomo.

Questo mi ricorda un altro latinista incontrato in viaggio, un carrettiere cinese vicino a Hsin-wa-fu. Era un cinese cristiano al servizio d’una missione cattolica dello Shan-si, il quale tornava da Pechino portando ai suoi frati delle provviste. Ma il fatto non è straordinario in Cina, dove il latino è lingua viva nelle missioni, e molti convertiti arrivano a servirsene con una disinvoltura ammirevole. Come c’è il pidgin-english, c’è il pidgin-latino, in Cina, a gloria della fede.

Il latino del nostro mujik era piuttosto russificato, ma gli servì abbastanza bene per dirci che se eravamo stanchi potevamo salire nella casa attigua, dove avremmo potuto riposare e bere del latte. E vi trovammo non solo del latte, ma delle buone fragole di bosco che la moglie del padrone ci ammannì premurosamente.

Alle quattro tutti i raggi erano fatti. Incominciammo la parte [p. 424 modifica] più difficile del lavoro: la messa insieme. Ci vollero altre due ore di lavoro incessante per ricomporre la ruota, la cui centrazione pareva irraggiungibile. Alla fine la ruota fu completa. Non mancava più che fissare i bottoni avvitati che reggono il mozzo d’acciaio e il tamburo del freno. La ruota venne trasportata in una buia fucina primitiva — perchè Nicolai Petrovitch, come tutti i fabbricanti di carri, era anche maniscalco — ; fu acceso il fuoco, e con lunghi punzoni incandescenti i raggi vennero forati dove bisognava passare le viti. Fu un’altra lunga ora di lavoro, in mezzo a nembi di fumo che sorgeva stridendo dalle bruciate piaghe del legno. Finalmente le viti furono messe, i dadi stretti: la ruota era pronta.

I nuovi raggi non erano certo ben sagomati ed eleganti: massicci, tozzi, grossolani, non avevano di esatto che le attaccature. Davano alla ruota un aspetto di solida rozzezza; sembrava la ruota d’un carroccio. Ma essa era tale da resistere a tutti gli urti, a tutti gli sforzi.

In men che non si dica, Ettore l’applicò all’automobile. Erano le sette di sera quando rimontammo in macchina. Uscimmo dal cortile sulla strada. Gli operai ci seguirono salutando. Essi sorridevano soddisfatti, asciugandosi le calme fronti madide di sudore.

Al momento di slanciarci, ci stesero le brave mani callose, che stringemmo effusamente con riconoscenza.

Do svidania! — ci gridarono mentre ci allontanavamo.

Vale! — esclamò il latinista.

Le loro voci ci seguirono. Da lontano scorgemmo quei nostri salvatori che agitavano i berretti, finchè degli alberi ci nascosero. Essi forse sentivano un po’ di fierezza per quella poderosa corsa della macchina. Sentivano che un po’ della loro volontà, della loro abilità, della loro forza ci sospingevano aranti, verso la nostra mèta.

Volevamo camminare finchè la luce ce lo avesse permesso. Le strade erano prosciugate; correvamo a trenta chilometri all’ora. Lo splendore delle notti bianche era finito; l’oscurità della notte [p. 425 modifica] tardava a venire, ma veniva. Un’ora dopo che eravamo partiti, tramontava il sole. Dicevamo: “Al prossimo villaggio ci fermeremo„ — ma era in noi troppo vivo il desiderio di rifarci del tempo perduto, e al “prossimo villaggio„ passavamo senza nemmeno fermarci. Nei luoghi abitati la folla della domenica, aggruppata avanti alle case, ora ci faceva delle accoglienze festose gettandoci grida di saluto, ed ora ci guardava con sorpresa diffidente e ostile. Trovammo la spiegazione di questa diversità: il telegrafo. La riva destra sul Volga di fronte a Kazan. I paesi che avevano il telegrafo erano amici; avevano saputo di noi, in qualche posto ci aspettavano anche. Da ufficio a ufficio i telegrafisti si trasmettevano la notizia del nostro passaggio, e la notizia usciva per le vie, circolava da bocca a bocca. Non mancavamo mai di vedere gl’impiegati telegrafici alla finestra; erano i primi a salutarci.

Il sole era tramontato da un pezzo. Alle nove il crepuscolo agonizzava. Giungemmo in un villaggio, e decidemmo di fermarci definitivamente per la notte. Molte isbe erano già chiuse, le [p. 426 modifica] soglie spopolate. Si va a letto presto nelle campagne di tutto il mondo. Qualcuno si affacciava alla finestra al rumore, e ritirava il capo scorgendo quel mostro che fuggiva nella penombra portando degli esseri pelosi. L’ora tarda è propizia alla paura. Vedemmo due giovanotti che camminavano insieme sulle tavole del marciapiede. Li raggiungemmo e fermammo l’automobile per domandar loro dove era la Zemstwoskaja Dom. Ma non avevamo aperta ancora la bocca che quelli, guardatici per un istante con gli occhi sgranati, si fecero il segno della croce e fuggirono a gambe levate, senza una parola, senza un grido, correndo sulla punta dei piedi quasi temendo di doverci attirare col rumore dei loro passi. Evidentemente si trattava d’un villaggio senza telegrafo. La situazione diveniva imbarazzante; non potevamo fare a meno di fermarci in un villaggio perchè le nostre provviste erano finite da un pezzo, e non avevamo mangiato nulla dalla sera precedente, a Perm, salvo le fragole del buon fabbricante di teleghe. Andammo avanti lentamente, immettendo nel “silenzioso„ del tubo di scappamento lo scarico dei gas per far meno rumore, e non destare allarmi. Quello lo chiamavamo “mettere il bavaglio„ all’automobile.

Ecco sulla soglia di una casa alcune donne. Esse ci videro, e noi ci fermammo. Borghese fece per discendere a parlamentare.

— Per carità! — gli sussurrai — Con quella pelliccia le fa scappare subito! Parliamo da qui.

Avevamo già osservato che i nostri vestiti, pellicce o impermeabili, facevano spesso ai contadini una impressione repulsiva. Quando volevamo scendere per domandare loro qualche cosa, dovevamo avere l’avvertenza di rimanere in giacchetta. Parlammo dunque dall’automobile.

Salutammo le donne addolcendo la voce per sembrare meno diabolici.

Il Principe aveva trovato degli accenti di seduzione, dei toni affettuosi, per dire: [p. 427 modifica]

— Buona sera! Volete indicarci dove è la Zem....

Inutile completare la frase. Le donne erano rientrate precipitosamente nella casa, gridando di spavento, e chiusero di colpo i battenti.

— Ahi! — borbottammo. — La migliore cosa che ci possa capitare questa sera è di dormire a stomaco vuoto e all’aria aperta!

Passammo avanti ad una casa di aspetto agiato, tutta verniciata di azzurro, con le finestre contornate di bianco.

— Qui ci dev’essere della gente d’un certo rango, — dicemmo — ed è sperabile ci facciano una migliore accoglienza.

Bussammo alla porta. Silenzio. Bussammo ancora. Nessuno rispose.

— La casa è vuota! — esclamammo.

No, non era vuota. Udimmo un bisbigliare di voci all’interno, un rumore di passi precipitosi sui pavimenti di legno, un bussare d’usci chiusi fortemente, uno stridere di chiavistelli.

Come vincere la paura che ci circondava? Ci accorgemmo che gli abitanti erano desti e, scesi sulla strada, spiavano il carro misterioso. Non era piacevole rimanere così, perchè non era assolutamente da escludersi la possibilità che qualcuno ritenesse opera meritoria tirare una buona fucilata contro il demonio. Borghese osservò:

— Basterebbe che uno solo si avvicinasse; gli mostrerei le lettere ufficiali e saremmo subito onorevolmente ospitati.

Poi, colpito da un’idea, cominciò ad arringare quella gente troppo timida, che si assiepava a cinquanta passi da noi, pronta alla ritirata. Intraprese la spiegazione dell’automobile:

— Questa — diceva — è una macchina simile ai battelli del Kama e alla ferrovia. Venite a vederla! Venite avanti! Non c’è pericolo! Funziona per mezzo della benzina, ecc.

I più arditi si avvicinarono. Gli altri li seguirono, e si formò in breve un cerchio di persone che cominciò a persuadersi che [p. 428 modifica] noi eravamo uomini in carne ed ossa. La distanza sparì del tutto; l’automobile fu toccata, dapprima con timidezza, come se potesse scottare, poi con sicurezza confidente. Due contadini, invitati, accettarono eroicamente di salire sull’automobile e di lasciarsi trasportare. Si entusiasmarono al punto che non volevano più discendere. Tutti chiedevano di provare. La calca ci serrava da ogni parte. Giunse il pope, e ci espresse il desiderio d’essere condotto all’indomani mattina al prossimo villaggio.

Il ghiaccio era rotto. Tutti divennero buoni amici. La casa azzurra schiuse i chiavistelli, spalancò le porte, ci ospitò. Venne il samovar sul tavolo, e dopo il samovar arrivarono delle uova, del latte, e pane e burro, e ci sfamammo. La macchina ricoverata nel cortile, era assalita dalla curiosità ammirativa della popolazione.

Noi ricevemmo visite fino a mezzanotte; la gente entrava e usciva liberamente, all’uso russo, senza chiedere il permesso; volevano vederci da vicino: si affacciavano alla soglia, si scoprivano, ci contemplavano in silenzio, e se ne riandavano via contenti come pasque, dopo aver mormorato qualche timida parola di saluto tormentando il berretto fra le mani. A mezzanotte spegnemmo il lume, ci avvolgemmo nelle fedeli pellicce, e ci coricammo sul pavimento: gli ultimi visitatori si allontanavano a punta di piedi per annunziare dalla porta di casa: “Gli stranieri dormono!„


La mattina di poi, 22 Luglio, alle quattro, riprendemmo la corsa attraverso un immutabile paesaggio: grandi foreste, rare praterie, qualche campo coltivato, prigioniero dei boschi maestosi che detengono ancora tanta terra vergine.

Passammo su barche il piccolo fiume Uchim, poi un altro più largo, il Wala, tutti confluenti del Kama — la gran via maestra che i vapori percorrono fino al Volga, che è la massima arteria della Russia. Sfortunatamente le vie d’acqua, tanto numerose e facili, fanno trascurare quelle di terra, che trovavamo pessime, al punto da dover procedere con una lentezza irritante, [p. 429 modifica] sottoponendo l’automobile alle stesse prove terribili che fecero la nostra disperazione fra Marinsk e Tomsk. Temevamo che le molle non resistessero più. Le sentivamo molto più sensibili alle scosse. E non ne avevamo di ricambio. Sicuri di non doverne avere mai bisogno, avevamo lasciato le molle di ricambio a Kalgan, perchè troppo pesanti, e forse stavano ancora, come ricordo del nostro passaggio, negli uffici della Banca Russo-Cinese. L'ultimo affondamento dell’Itala fra Kazan e Nishnii-Nowgorod

Per avere un’idea del terreno, s’immagini di andare in automobile sopra un campo arato, avendo per prospettiva centinaia di chilometri di cammino nelle stesse condizioni. Naturalmente pioveva di tanto in tanto. Attraversavamo delle cittadine spopolate, quiete, immensamente tristi con le loro case di legno imbiancate per distinguerle dalle case della campagna sinceramente nude. Ne avevamo una grande impressione di malinconia, pensando alla loro vita eguale, grigia, silenziosa; ci sembravano città in esilio. Apparivano in una valle, dietro a un bosco, in riva a un fiumicello, isolate in mezzo alla monotonia d’una campagna [p. 430 modifica] incolta, oscura di abeti e di pini, d’un verde funebre. Alcune di esse hanno dei nomi che non sono russi, nomi tartari, e bulgari.

Qualche nome rimane a ricordare quello strano popolo bulgaro che ebbe qui un impero, della cui capitale si vedono ancora splendidi ruderi presso le rive del Volga. Essa era così dimenticata, che s’era perduta; i boschi l’avevano ricoperta; ne rimaneva soltanto la tradizione, quando sotto Pietro il Grande le sue rovine maestose furono ritrovate nel folto d’una foresta. Erano amanti dei grandi fiumi, i bulgari; si divisero il Volga ed il Danubio; “bulgari bianchi„ quelli del Volga, “bulgari neri„ quelli del Danubio, ma furono assorbiti gli uni dai tartari, gli altri dagli slavi. Sono rimasti dei nomi: Bolgary sul Volga, Bulgaria sul Danubio, ma la razza non c’è più.

Nel pomeriggio ci ritrovammo in serie difficoltà. La strada, attraverso boschi sterminati, si era fatta così cattiva, che dovevamo procedere alla velocità di quindici e spesso di dieci chilometri l’ora. La carrozzeria scricchiolava, si muoveva tutta ad ogni urtone, quasi stesse per rompersi. Il freno a pedale, quel benedetto freno che ci prese fuoco tre volte in Siberia, non ardeva più, è vero, ma anche non funzionava più. S’era completamente guastato, ed eravamo rimasti col solo freno a mano, che, come si sa, funziona sulle ruote motrici. Ora, in una ripida discesa, mentre l’unico freno era chiuso, sentimmo l’automobile sussultare violentemente ed udimmo nella parte anteriore uno scrocchio metallico. La macchina si fermò tutta di traverso.

Balzammo a terra. Guardammo:

— Ed ora? Che si fa? — esclamammo angosciati vedendo quale danno era sopraggiunto.

L’azione del freno, troppo violenta, aveva avuto per effetto la rottura di quella specie di staffa che unisce le molle al perno della ruota, e l’asse delle ruote motrici s’era completamente separato dalle molle, cioè dallo chassis. Vi erano delle staffe di ricambio, ma troppo corte. Fortunatamente Ettore, rovistando fra [p. 431 modifica] i suoi ferri trovò dei perni e dei dadi, con i quali potè, dopo un lungo e paziente lavoro, rimettere insieme e rinserrare molle ed asse. Ma un danno più grave ci si rivelò. Le molle posteriori si rompevano. Dei nove “fogli„ di cui ognuna era composta, alla sinistra ve n’erano tre spezzati, alla destra cinque. Tutta la nostra fiducia si riponeva sulla resistenza del “foglio„ grande, il più lungo e più grosso che ha alle estremità le imperniature d’attacco, e che è fatto del più fino acciaio che esista. Era però una ben lieve fiducia, la nostra. Sentivamo bene che una forte scossa avrebbe finito tutto.

Annottava, e il lavoro continuava ancora nel bosco. Era una mesta serata per noi. Ci risorgeva il dubbio che l’automobile non resistesse. Ed erano tutte rotture esteriori, che ci minacciavano, rotture di cose alle quali non si dà importanza. Quando il motore, le trasmissioni, gl’ingranaggi, il cardàno, le giunture dello chassis, tutta la parte “macchina„ è sana, è perfetta, è nuova, forte, esatta, chi pensa al resto? Quando il cuore, lo stomaco, e tutti gli organi vitali d’un uomo sono robusti e funzionano in modo perfetto, chi pensa ai piedi? Ed erano proprio i piedi della nostra automobile che s’ammalavano: grave quando s’ha da camminare.

Udimmo un tintinnare di campanelli, e pochi minuti dopo sull’alto della salita apparve un tarantas. Era una diligenza. Il postiglione profittò di non avere viaggiatori, per fermarsi. Il brav’uomo era ubbriaco ed espansivo. Aveva una faccia pelosa da orso biondo, un orso intelligente...; no, intelligente no; diciamo orso bonario. Vestiva un armiak di pelliccia, vecchio, untuoso, sdrucito; portava stivali di feltro, e sul suo berrettone di pelo luccicava la gran targa d’ottone con impressavi l’aquila imperiale. Egli si toccava quella targa, vi batteva con la mano aperta per indicarci la sua qualità, e a guisa di presentazione ci gridava:

Postowo! Postowo! — “Postiglione!„

Scese di cassetta, e ci barcollò intorno, tutto festoso. Pareva che avesse ritrovato dei cari amici, dopo tanto tempo. Veniva [p. 432 modifica] vicino ad ognuno di noi, come per confidarci qualche cosa separatamente, c’indicava la targa, e ci gridava il suo “Postowo! Postowo!„ con l’aria di dire: “Come! non ti ricordi più... postowo?

— Dove vai? — gli chiedemmo.

— A Melekeski.

— È lontano?

— Quindici verste.

— C’è da alloggiare per la notte?

— Come? a Melekeski se c’è da alloggiare? Ma c’è una buona stazione di posta — e ricominciando a battersi il berretto — postowo! postowo!

“Va bene — ci dicemmo — andiamo dunque a Melekeski!» — e poichè la riparazione era finita, ci rimettemmo in cammino, adagio, con precauzioni gelose, ed arrivammo dopo più di un’ora alla stazione di posta. Ci cucinammo delle uova, bevemmo del latte, e ci addormentammo per terra.

La stazione era poco più di un’isba, e, come si vede, non ci consentiva dei lussi strepitosi. Il capo, una specie di mujik che sapeva leggere e scrivere, non possedeva in abbondanza che delle icone e dei regolamenti, gli uni e le altre attaccati alle pareti.


Alla mattina fummo risvegliati dallo scalpitare dei cavalli nel cortile e dai gridi dei postiglioni che attaccavano i loro tarantas. Prendemmo un thè, e ripartimmo. Erano le quattro. Pioveva.

Entrammo a poco a poco in una regione più florida e più bella. Cambiò il paesaggio, ma ahimè! non cambiò la strada. Passammo Malmysh — quella Malmysh alla quale ci lusingavamo di giungere il giorno stesso che lasciammo Perm — una cittadina presso al fiume Wiatka, che attraversata in fretta ha l’apparenza di essere abitata soltanto da una decina di funzionari, da un farmacista e da due gendarmi. Non dev’essere allegra la vita a Malmysh. La strada peggiorò; o ci sembrò che peggiorasse a causa della maggiore sensibilità alle irregolarità del terreno, [p. 433 modifica] sensibilità che dovevamo allo stato delle nostre molle. Procedevamo lentamente, preferendo i passaggi erbosi.

Eravamo però rallegrati e rincorati dalla vista della magnifica campagna coltivata. Rivedevamo, dopo epoche che ci sembravano immemorabili, la ricchezza del lavoro sulla terra. Emergendo dalle ombre dei boschi, ci affacciavamo finalmente nell’Europa. Per tutto, fra il verde, sorgevano villaggi, tartari e cristiani, minareti sottili e campanili, mezzelune e croci, frammisti nella gran Sopra un ferry. pace dei campi. Nulla più parla delle antiche lotte. Così dissimili in tutto, tartari e slavi, nella fede come nella favella, nella fisionomia e nel carattere, biondi gli uni e bruni gli altri, alti i biondi e piccoli i bruni, si somigliavano però in una cosa: nell’indulgenza.

Ogni villaggio ha i suoi costumi puramente mantenuti da secoli. Rimanevamo sorpresi, ammirati, come davanti a visioni di epoche lontane. Pittoreschi abbigliamenti dell’antica Russia, che non sono più portati ove giunse violento il contatto del progresso moderno, si vedono laggiù, lontano dalle ferrovie. [p. 434 modifica]

Le popolazioni sembravano vestite per qualche immensa festa. Era la raccolta del fieno. Le genti sparse sui campi vi ponevano come una grandiosa fioritura vivente. Fra le erbe alte, e fra le messi mature, risaltavano mantiglie rosse, gialle, bianche, strane mitrie da donna coperte di ricami, acconciature ricche d’argento, cappe e camiciole singolari, collane di monete, cinture d’oro, fascie di seta. In questo tumulto di colori scintillavano file di falci nel lento moto eguale. Ci giungeva l’eco dei canti. Centinaia di carri e di cavalli aggruppati sui campi aggiungevano alle scene una non so quale fierezza militare, come di fantastici bivacchi.

È sorprendente la diversità dei costumi, ad ogni passo. Si sente che sotto alle due denominazioni di russi e di tartari si nascondono altre razze, riunite e non mischiate. Le religioni sono due: le stirpi tante. E vogliono ancora distinguersi, vogliono conservarsi, vivere. Certi abbigliamenti incomodi e stravaganti non possono essere indossati per dei secoli senza uno scopo, lo scopo di mostrare la propria diversità, di portare l’uniforme della propria schiatta, di riconoscersi, di difendersi dalla mescolanza. Vi è un istinto di conservazione in quelle mode tradizionali. Ogni villaggio è un piccolo Stato che vive discosto e in pace, così diverso dagli altri come se ne fosse separato da grandi lontananze.

A 24 verste da Kazan trovammo una piacevole sorpresa; una strada all’Europea, massicciata, inghiaiata, cilindrata, bianca, perfetta. Era la prima vera strada carrozzabile che trovavamo da Pechino. Ma i contadini che tornavano dalla città preferivano di non farvi passare i loro carri, e li conducevano invece nelle fangaie dei campi. I mujik dicono che quelle strade rovinano le ruote perchè sono troppo dure, e le sfuggono. Per costringerli a passarvi le autorità fanno scavare dei fossi e costruire delle trincee ai lati della strada. I contadini passano in fondo ai fossi e sopra le trincee, profittando del minimo spazio che basti alle strette ruote delle loro teleghe.

Erano circa le tre quando, discendendo la valle del fiume Kazanka, verso l’occidente, che si era rasserenato dopo una lunga [p. 435 modifica] pioggia, vedemmo scintillare una striscia d’acqua: il Volga. E nella bruma luminosa si erse il profilo d’una grande città. Finalmente Kazan con i campanili e le cupole delle sue chiese, con i minareti delle sue tredici moschee!

Entrammo per ampie strade piene di movimento e di rumore, fra il viavai delle iswoshchik e il fuggire rombante dei trams elettrici, osservati curiosamente, riconosciuti da molti, salutati qualche volta.

Una signora fece voltare la sua sontuosa carrozza per inseguirci e vederci meglio; ci raggiunse. Era una signora con gli occhiali d’oro, il cappello da uomo, e che fumava una sigaretta. Ci chiese:

— Venite da Pechino?

— Si, signora.

— Oh! — e ci osservò con profondo stupore mentre correvamo di conserva — Ed ora dove andate?

— All’albergo, signora.

— Quale?

Hôtel d’Europe.

— Conoscete la strada? Volete che vi conduca?

— Volentieri, grazie!

La carrozza si mise davanti, e noi la seguimmo. Passammo vicino a delle chiese, a dei giardini, arrivammo alla via principale. Delle persone ci corsero incontro, con le mani tese, affannate, sorridenti. Erano italiani:

— Ben arrivati! — gridavano.

— Evviva!

— Cari!

In fondo alla strada intravvedemmo il Kremlino e la grandiosa torre Spaskaja che pare una vecchia minaccia di fronte alla città moderna.