La metà del mondo vista da un'automobile/XVIII

CAPITOLO XVIII. — Gli Urali

../XVII ../XIX IncludiIntestazione 5 settembre 2018 100% Da definire

XVII XIX

[p. 397 modifica]

CAPITOLO XVIII.


GLI URALI

Dall’automobile alla «Troika» — Tjumen — Addio Siberia! — Il saluto di Kamylschow — Jekaterinburg — Dall’Asia all’Europa — Le foreste degli Urali — Il primo minareto — Perm — Una ruota malata e la sua cura.

La steppa, sempre la steppa.

Alle cinque del mattino, 18 Luglio, i campanili d'Ischim sparivano al nostro sguardo, lasciavamo i boschetti di betulle che formano come un’oasi di alte piante sulle rive del fiume Ischim, confluente dell'Irtysch, e rientravamo nella verde eguaglianza della pianura.

La nostra distrazione principale consisteva nel seguire la numerazione delle verste, che ricomincia da villaggio a villaggio; nel fare il conto della distanza percorsa; e nel variarlo facendo il conto di quella da percorrere. Dopo le prime ore la nostra corsa cominciò ad essere rallentata da numerosi sabbioni profondi, che cercavamo di evitare, quando era possibile, correndo sull’erba ai lati della strada. Di tanto in tanto il terreno ondulava lievemente. Cominciavamo insensibilmente a uscire da quella perfetta pianura, da quell’oceano di terra sul quale avevamo viaggiato per quasi mille chilometri. E gli alberi, i grandi alberi, non dovevano essere lontani. Non li vedevamo ancora, ma incontravamo carri che [p. 398 modifica] trasportavano tronchi di pino. A mezzogiorno, superate delle dune, abbastanza faticose per il motore, arrivavamo in un grosso villaggio: Zowodonowskaja.

All’ingresso del villaggio stavano delle troike superbe, i cui magnifici cavalli neri, scuotendo impazienti le teste nervose, facevano trillare sonagliere d’argento; sui dugà oscillavano dei campanelli; i cocchieri dai capelli lunghi e le barbe fluenti vestivano armiak sgargianti alla circassa, con vistose cinture, e portavano gli abiti imbottiti alla vecchia moda russa, per la quale il cocchiere stylé appare enorme, mastodontico, più largo che alto. Il servo di grande famiglia deve essere grasso in Russia, per dimostrare l’opulenza e la generosità dei padroni. Quelle troike aspettavano noi. Un ricchissimo mercante siberiano, proprietario di miniere nei dintorni, voleva offrirci da colazione in un suo possedimento vicino. Accettammo. L’automobile fu lasciata nel villaggio, e noi, insieme al nostro ospite e ad alcuni suoi amici, prendemmo posto nelle troike; e via a corsa sfrenata fra nembi di polvere, tenendoci abbracciati per non essere sbalzati via dai piccoli seggi senza spalliera.

In genere le vetture veramente russe non sono eccessivamente comode; occorre una certa abilità per reggervisi; si direbbe che i russi amino aggiungere ai sedili dei loro veicoli le attrattive della sella; bisogna conoscere i segreti e le risorse dell’equitazione per servirsi impunemente di quelle carrozze. Ma esse sono create per essere veloci, e fanno godere, per la loro stessa semplicità, per la loro leggerezza, tutto il piacere della corsa. L’attacco a troika ha qualche cosa di classico; potrebbe essere l’attacco d’un carro romano. I cavalli vi sono disposti con una simmetria scultoria: nel mezzo il gran trottatore, ai fianchi i due volantini che galoppano. E galoppano divergendo le teste, con i musi volti all’esterno e trattenuti così da robuste tirelle; i tre cavalli sono disposti come quelle delle bighe trionfali.

Andavamo furiosamente per sentieri sabbiosi; quindi entrammo fra boscaglie, e mezz’ora dopo la steppa si trasformava [p. 399 modifica] miracolosamente ai nostri occhi: sorgevano folti boschi di pini, frutteti, e poi un parco ombroso sulle rive d’un fiumicello calmo e limpido, e fra gli alberi tetti di hangars, di palazzine, di scuderie, e un opificio che prendeva dal fiume la sua forza.

La colazione fu servita all’aperto, sotto alla frescura delle piante, con la larga e semplice ospitalità di altri tempi. E ci pareva di vivere in altri tempi, in qualche colonia dimenticata dal mondo, o che avesse dimenticato il mondo. Le toilettes delle signore erano di quarantanni fa; una venerabile dama mia vicina, con i capelli grigi a boccole, mi parlava fluentemente in un francese letterario che non è più vivo; il fratello del nostro ospite, un gigante, vestiva l’antico costume siberiano, con la camiciola di seta coperta di ricami e la cintura coperta d’argento. Vedevamo nella padrona di casa un tipo di forte eroina da vecchio romanzo, che amava vestirsi da cosacco, armarsi di fucile e di yatagan, montare a cavallo come un uomo, e galoppare via per la foresta cacciando. I suoi figliuoli indossavano tutti il costume nazionale, come dei piccoli mujik. I servi erano numerosissimi, e venivano, donne ed uomini, a curiosare con familiarità rispettosa. Mangiavamo sotto gli sguardi di una folla pittoresca, multicolore, scalza. Una vecchia salutò il padrone genuflettendosi e toccando con la fronte la terra. Delle giovani fantesche bionde portavano senza interruzione cibi e bevande.

Il convito sarebbe continuato chi sa fino a quando, se dopo tre ore non ci fossimo ricordati di dover pernottare alla sera a Tjumen, lontana 340 chilometri da Ischim. Dovemmo resistere a tutte le preghiere, insistere, ribellarci cortesemente, per non rimanere lì, ospiti perenni. Cominciavamo, avvicinandoci all’Europa, a penetrare in regioni dove ci aspettavano quei piacevoli ostacoli che si chiamano inviti. Il Principe doveva dimostrare più ferma decisione per andare avanti in mezzo all’ospitalità, di quanto non ne avesse avuto bisogno fra le paludi e fra le roccie. Anche il giorno prima, a cento verste da Omsk, eravamo stati fermati da una colazione, che ebbe il merito della rapidità. [p. 400 modifica]

Le troike furono nuovamente attaccate, galoppammo verso il villaggio, e alle quattro riprendevamo la strada di Tjumen. Attraversammo il Tobol a Jalutorowsk, e qualche ora più tardi il Pyschma a Bogandinsk. Nelle città, sulla via, della gente ci aspettava, ci salutava; eravamo precorsi dalla notizia del nostro arrivo. Anche in aperta campagna eravamo talvolta riconosciuti. Ad un bivio domandammo la strada ad un giovanotto, il quale, dopo avercela indicata, mentre ci allontanavamo ci gridò:

— Da Pechino?

— Sì.

— Principe Borghese?

— Sì.

Hurrah!

E agitò il berretto. Questi saluti solitari e spontanei ci erano cari; risvegliavano in noi delle improvvise simpatie come se ci gridassero: — Siamo amici! — e ci volgevamo a rispondere con effusione e con riconoscenza.

Arrivammo a Tjumen alle otto. Vi era un Comitato a Tjumen che ci ricevè all’ingresso della città; e col Comitato v’erano dei fotografi; e con i fotografi dei corrispondenti dei giornali russi. Fummo così ricevuti, ritratti ed intervistati. Uno di quei miei colleghi mi aveva preso specialmente di mira; armato di un gran taccuino e di un lapis ben temperato, mi si era messo vicino come un’ombra. Lo ebbi con me mentre scrivevo i dispacci, e poi al telegrafo, poi durante il mio pranzo (non avevo potuto seguire Borghese ad un banchetto d’onore), quando mi coricavo; venne a bussare alla finestra, bassa sulla strada, mentre dormivo. Era un ometto magro, ostinato, impassibile. Mi diceva:

— Ditemi qualche cosa.

— Non ho niente da dirvi, mi dispiace.... Il viaggio è stato buono. Ecco.

— Ancora qualche cosa.

— Non ho altro.

— Pensateci. [p. - modifica]La traversata del fiume Iro. [p. 401 modifica]

Io tacevo, lavoravo, mi occupavo, dimenticavo la sua presenza. Poi, ad un tratto mi sentivo chiedere:

— Avete pensato?

Egli era là, sempre là, implacabile. Cercavo di consegnarlo ad Ettore, ma inutilmente. Egli era persuaso che io conoscessi delle cose straordinarie sulla Pechino-Parigi.

Tjumen ha veramente l’apparenza di una città della Russia d’Europa, con le grandi strade acciottolate, i palazzi non più di legno ma di muro, i marciapiedi alberati, l’abbondanza di scritte sui negozi — le quali indicano una certa percentuale di gente che sa leggere. Nella Siberia sono più le insegne che le scritte, anche nelle grandi città; sulle botteghe si ammirano molte pitture e poche parole: le cose vi sono espresse col disegno e con i colori; si vedono cappelli, scarpe, samovar, abiti, ruote di carrozza; si è ancora in piena epoca del geroglifico. Con Tjumen principia evidentemente un paese più familiare all’alfabeto.

Eravamo infatti quasi sui confini politici dell’Europa.


Ripartimmo alle quattro del mattino del 19 luglio, diretti a Jekaterinburg, lontana 328 chilometri.

A Tjumen la steppa finisce. Vicino alla città essa comincia a trasformarsi, a poco a poco, insensibilmente. Vedemmo gli arbusti e i cespugli crescere, allargarsi, infoltirsi, ridivenire alberi, ed ergersi su tronchi sempre più forti, alti, direi quasi prepotenti. La foresta ritornava. Essa riprendeva lentamente possesso della terra, e vinceva la steppa.

Ci trovammo, quasi senza accorgercene, all’ombra di gigantesche betulle fiancheggianti la via. Formavano da prima due immensi e superbi filari; poi si spessirono, divennero bosco, un bosco rigoglioso entro il quale la strada si bucava un passaggio. Alle betulle si frammischiarono gli abeti; sopravvenne quindi l’immensa armata dei pini, con i loro tronchi simili a snelle colonne rossicce. Le tracce del transito si cancellavano sulla via ricoperta selvaggiamente d’erbe. Avevamo l’impressione di entrare [p. 402 modifica] nella taiga. Anche lì la ferrovia — una breve linea che va da Tjumen a Jekaterinburg — condannava la strada maestra all’abbandono. Le chiome folte degli alberi rinserravano lo spazio sulle nostre teste, non vedevamo più che uno squarcio di cielo e sottili striscie di sole. Dovevamo abbandonare le nostre belle velocità, e procedere lentamente nell’ombra verde e fresca, profumata di resina, di timo, di menta, di fiori. L’erba era costellata di piccole fragole mature, rosse e olezzanti.

Eravamo a cinquanta verste da Tjumen, quando nel profondo del bosco, a sinistra della strada, scorgemmo due alti pali vicini, dipinti a fascie bianche e nere, recanti due tabelle. Nelle tabelle era dipinta l’aquila imperiale nera a due teste, con le ali aperte e il globo e lo scettro negli artigli; sotto alle aquile delle parole sbiadite. Rallentammo per leggerle. In una era scritto: “Governo di Tobolsk„. Nell’altra: “Governo di Perm„. Lanciammo un alto grido, che risuonò nel silenzio della foresta:

— Addio Siberia!

Entravamo nella Russia europea.

Non ancora nell’Europa. L’Europa incomincia agli Urali. Non passavamo che un confine amministrativo; ma la Siberia, la vera Siberia era già lontana: era finita colla steppa. Per qualche tempo la nostra mente ritornò sulla strada fatta. Tacevamo, guardando distrattamente avanti a noi. Rivedevamo la Transbaikalia con i suoi panorami svariati che dànno un’idea di disordine, i suoi fiumicelli violenti, il suo gran lago che nella calma sembra un abisso di serenità. Rivedevamo le verdi praterie e le mandrie che vi pascolano, e i buriati che le guardano; e la taiga fosca e grandiosa, immenso popolo d’alberi che si difende. Rivedevamo i larghi, sterminati fiumi siberiani che nascono nel torrido centro dell’Asia e vanno a morire nei mari glaciali, che trascinano nel loro fango le polveri d’oro strappate alle remote e quasi ignote montagne degli Aitai e dei Changai, le quali nascondono forse il più grande deposito di tesori della terra; il Jenissei veloce, l’Obi maestoso, l’Irtysch operoso, si succedevano nella nostra memoria. [p. 403 modifica] Rivedevamo l’infinita schiera di villaggi oscuri, isolati, dalle rozze isbe di tronchi; e le città pittoresche; e le innumerevoli chiese bianche dalle cupole azzurre e verdi; e la steppa che pareva senza fine. Dimenticavamo quanto avevamo faticato e sofferto, e passandone il confine ci accorgevamo di amarla un po’ la Siberia; di amarla appunto perchè vi avevamo sofferto. Perchè tutte le energie e le emozioni che avevamo disseminate sul lungo tragitto, erano una parte viva dell’anima nostra; e ci pareva che questo allacciasse una non so quale intimità fra noi e quella terra.

L’avevamo odiata in certi momenti, quando era forte, quando sembrava che dovesse fermarci, sopraffarci: ma lasciandola l’avevamo vinta.

Provavamo per lei una simpatia nuova che veniva precisamente da questo senso di vittoria. La generosità verso il vinto non è in fondo che riconoscenza. Nulla è più dolce alla memoria d’una lotta fortunata. Noi amiamo di più quel che conquistiamo a fatica, quel che ci costa più caro. Amavamo la Siberia per i suoi ponti cadenti, per i suoi fanghi viscidi, per i suoi pantani, per le sue sabbie, per tutto ciò a cui dovevamo in quel momento una più alta e più fiera gioia di trionfo. E rammentavamo con dolcezza tutti coloro che avevamo incontrato laggiù, tutti gli amici lasciati appena conosciuti, tutte le bontà ignote che ci avevano assistito e confortato; sentivamo che al nostro ricordo doveva rispondere un altro ricordo, sentivamo che la Siberia con migliaia di menti ci seguiva.... Addio, Siberia!

Ancora per trenta verste continuammo a correre nel bosco. Poi il folto si diradò, si aprì, cominciarono delle radure, poi vennero dei prati, poi dei campi, sui quali i cavalli a coppie trascinavano l’aratro e l’erpice, guidati da ragazzi a cavallo sul garese, e seguiti da stormi di corvi gracidanti che beccavano i vermi e i semi nel solco appena aperto. Spesseggiavano i villaggi, grandi, popolosi, dalle case più adorne, fatte di tronchi squadrati, ornate d’intagli di legno, le imposte dipinte a fiorami. [p. 404 modifica] I mujik vestivano quasi tutti il camiciotto rosso, quell’indumento che piace tanto a Tolstoj.

Ma non vedevamo più in loro la bonarietà siberiana. Ci accoglievano con segni di meraviglia ostile, come se rappresentassimo l’arrivo di qualche nemico ignoto. Alcuni uomini fuggivano; altri ci guardavano torvamente, atteggiati a difesa. Delle donne ripetevano uno strano segno di scongiuro, sputando dalla nostra parte. Questo solo sarebbe bastato a significarci che entravamo fra gente d’un’altra razza, o per lo meno d’un’altra anima.

La campagna si faceva sempre più variata, ondulava leggermente, offrendoci piccole discese e piccole salite. Non potevamo riprendere la nostra corsa; la strada continuava ad esser cattiva fuori della foresta, era solcata da fossette, piena di buche, attraversata da ponticelli di legno incerti. Avvicinandoci ad una città trovammo della gente sulla strada. Anzi fu la presenza di questa gente ben vestita, di ufficiali, di signore, di studenti, fermi all’ombra d’una pineta, fra le vetture che li avevano condotti, che ci rivelò la vicinanza d’una città. Era la folla dei piccoli centri provinciali russi. Aspettava noi.

Vedendoci arrivare, si appressò e ci salutò. Mentre passavamo si levarono grida di augurio; gli uomini si scoprirono, le donne sventolavano i fazzoletti. Un giovanotto in bicicletta si mise a pedalare avanti a noi facendoci cenno di seguirlo. Discendemmo un declivio, e la città ci apparve, con i suoi tetti disseminati fra gli alberi, i suoi campanili dalla punta dorata. Era Kamyschlow. Seguimmo fedelmente il ciclista che ci pilotò attraverso le vie e le piazze, e poi per un mercato, ci fece passare un ponte, e ci lasciò dopo averci indicato la buona strada per Jekaterinburg. Senza la sua guida, fidandoci alle apparenze, avremmo probabilmente infilato la strada per Irbit. Fu una traversata rapida, che ci lasciò un confuso ricordo di quella graziosa cittadina, verso la quale sentivamo riconoscenza per il saluto inatteso gettatoci nell’aperta campagna. [p. 405 modifica]

Il tempo s’era guastato rapidamente. Partiti con un bel sereno da Tjumen, avevamo trovato la pioggia all’uscire della foresta. Ed ogni tanto un rovescio d’acqua s’alternava con un’ora di sole. Passato Kamyschlow il tempo si contentò d’essere arcigno. All’occidente era tempestoso. Dalle prime ore del pomeriggio il più violento temporale pareva imperversasse sui confini dell’Europa. Noi camminavamo dritti verso quel fosco ponente. La strada non deviava quasi più. Non indugiava a volgersi; In Russia. — Folla che presenzia ad un cambio di pneumatica. pareva divenuta come noi frettolosa di correre direttamente incontro agli Urali. Saliva e scendeva su dolci pendii come un gran nastro adagiato sulla terra; era migliore, e potevamo andare con maggiore rapidità.

L’automobile sollevava e lasciava dietro di sè nell’aria calma — d’una immobilità minacciosa — una nuvola di polvere densa, che rimaneva per chilometri sulla via. Vedevamo la nuvola dalla sommità delle alture persistere lontano, come il fumo d’un incendio appiccato da noi.

Entrammo verso le tre in terre nuovamente selvagge. I [p. 406 modifica] villaggi s’erano fatti rari; passavano lunghe ore senza vederne alcuno. Poi la foresta si richiuse su di noi in pinete secolari, magnifiche, caratteristiche degli Urali. La strada vi correva infossata. Pareva tagliata in una valle di tronchi maestosi. Ma la foresta aveva delle radure, e nelle radure sorgevano ville signorili. Dalle verande gruppi di eleganti signore ci salutavano. L’aspetto primitivo del paese mentiva: eravamo vicini a una grande città, e città ricca. Jekaterinburg si annunziava. Jekaterinburg la capitale mineraria della regione degli Urali, il gran mercato dell’oro e del carbone.

Erano le sette, quando in cima ad una salita scorgemmo una folla che agitava le braccia. Le arrivammo vicino e intorno a noi si levò un lungo hurrah! Anche Jekaterinburg ci aveva mandato avanti il suo saluto.

Seguiti da biciclette e da vetture entravamo poco dopo nell’elegante città, mentre si rovesciava un diluvio d’acqua. A Jekaterinburg, fra le più simpatiche e cordiali accoglienze, trascorremmo le ultime ore della nostra vita asiatica, cominciata a Pechino, seimila chilometri lontano.


Abbiamo passato il confine geografico dell’Europa nella mattina del 20 Luglio, alle ore 5,17.

Vicino alla strada, in una piccola radura in mezzo alla foresta, al valico d’una delle più alte vette degli Urali, si erge un obelisco di marmo, sulla cui fronte orientale è incisa la parola “Asia„; e sull’occidentale la parola “Europa».

Aspettavamo con impazienza questo varco. Avevamo parlato più volte dell’istante in cui saremmo passati da un continente all’altro, di quell’istante fuggevole e pure indimenticabile, grave, pieno di significazione profonda, nel quale avremmo finito di correre sul suolo asiatico. In quell’attimo compivamo l’intera traversata dell’Asia dal suo più lontano confine, dalle rive dell’Oceano Pacifico. In quaranta giorni avevamo percorso tutto l’immenso antico continente. Passo per passo ci era nota una delle più [p. 407 modifica] grandi strade dell’umanità, la più grande forse, che da epoche immemorabili ha visto un flusso e riflusso di razze e di civiltà, che ha portato verso l’Occidente le maree tartare ed ha portato verso l’Oriente la marea slava: strada maestra di conquiste e d’idee, di religioni e di tesori, di leggende e di mercanzie, di eserciti e d’oro. Avevamo sentito intorno a noi tutto il misterioso fascino dell’Asia, specialmente laggiù nella Mongolia, nei vasti silenzi, in mezzo a un popolo sognante, assorto nel pensiero di infinite rincarnazioni, che considera la vita presente un episodio infimo come il moto d’un’onda nell’oceano, che vive per la morte; ed avevamo pensato se non fosse nell’aria, nell’acqua di quel centro asiatico una qualche mistica potenza che distaccasse milioni d’uomini dal mondo. Le più grandi religioni sono nate nell’Asia; sono scaturite come faville da quella terra accesa d’ideali, per divampare lontano.

L’idea d’un’anima, che forse è la più alta idea che abbia mai avuto l’uomo e che ha creato la coscienza, la virtù e la bontà, è un’idea asiatica. La nostra scettica civiltà materialista, refluendo sull’Asia, urta nel grande dispregio delle cose terrene. Non trova l’ostilità; trova di più: l’indifferenza. E l’indifferenza stessa del mujik, quella serena contentabilità che è il solo ostacolo ad un rapido progresso della razza slava, non è che una eredità dell’Asia. Nel risveglio siberiano sono gli stranieri che portano l’iniziativa e l’energia maggiori, che comunicano una febbre di attività all’anima contemplativa e sognante del popolo biondo. Noi avevamo sentito l’Asia in tutto, nell’abbandono delle strade, nella indifferenza e nella rassegnazione della gente ad ogni circostanza della vita, nella stessa ospitalità che ci accoglieva e che non voleva lasciarci ripartire perchè non comprendeva il valore del tempo, perchè non sapeva rendersi ragione delle nostre premure, della stessa nostra corsa così lunga e così inutile. Per noi la traversata dell’Asia non aveva rappresentato soltanto una successione di paesaggi; avevamo avuto un contatto intimo e costante con quella gran terra e con le sue genti; passando dai cinesi ai [p. 408 modifica] mongoli, ai buriati, agli slavi, ai kirghisi, passando dal buddhismo alterato da Confucio al buddhismo dei Lama, al cristianesimo feticista della Transbaikalia, all’ortodossia della Siberia occidentale, all’islamismo, avevamo sentito sfumature di razza e di coscienza, parentele di sangue e di carattere, affinità di linguaggio e di opinioni, e senza capirlo avevamo intuito un lento movimento di stirpi, un incalcolabile andare e venire di emigrazioni, un fluire di popoli, nell’immobilità apparente, dalle stesse origini, dallo stesso cuore dell’Asia, e un loro ritorno trasformati; avevamo avuto la visione vaga d’un moto che sorpassa i confini della memoria storica. L’Asia, l’Asia che tace, l’Asia che dorme, la vecchia Asia che sembra quasi un continente spento, ci era parsa invece piena d’una attività troppo vasta per essere percepita. Quella gran madre di popoli, dalla quale la nostra stessa razza è uscita, ci si era rivelata ancora giovane, circondante di silenzio e di quiete una sua nuova fecondità. Ecco perchè avevamo pensato con una specie di riverenza al momento in cui avremmo varcato il suo confine.

E poiché quel passaggio era per noi anche un ritorno, avevamo deciso di fermarci e di brindare sulla poetica soglia del nostro continente. Nella cassetta degli attrezzi era riposta, per una previsione encomiabile, della quale mi vanto, una buona bottiglia di champagne destinata a questo scopo. Ma quando giungemmo lì, non so dire perchè, tacemmo, e per un accordo inespresso continuammo a correre, chiuso ognuno di noi nei suoi pensieri, non scevri da una certa emozione. In quell’istante la cerimonia ideata ci parve meschina, fermarci a bere in quel luogo era una specie di profanazione. Nulla valeva la solennità di quel nostro raccoglimento.

L’automobile scivolava rapida per i dolci declivi di quelle pigre e molli collinette che usurpano il nome di monti. Gli Urali sembrano alti ed imponenti soltanto agli uomini della steppa: sono montagne perchè sorgono fra la pianura siberiana e la pianura russa. Noi, abituati alle imponenti linee degli Appennini e [p. 409 modifica] delle Alpi, eravamo arrivati agli Urali senza accorgercene. Giungendo a Jekaterinburg alla vigilia, credevamo che le loro vette ci fossero nascoste dal temporale. Poi, alla prima mattina, salendo fra ondulazioni boscose, supponevamo di trovarci sui primi contrafforti degli Urali. Invece passavamo le cime più alte di quel sistema montuoso.

La strada, larghissima e abbastanza buona, fuggiva diritta per lunghissimi tratti, grande solco bianco ed infinito nel folto Un battello sul Volga. dei boschi nei quali non penetra il sole. Le sterminate pinete ci sembravano piene di notte. Ad un certo punto, ecco balzar fuori un daino: si ferma sulla strada per alcuni secondi, sorpreso dell’avvicinarsi fulmineo dell’automobile, il leggiadro corpo fulvo pronto allo slancio, si volge verso di noi col muso sottile e il collo snello in atteggiamento pauroso, salta indietro, e sparisce fra gli arbusti che s’intrecciano ai piedi dei grandi tronchi. Spesso vedevamo degli alberi schiantati dal fulmine o dalla bufera giacere abbattuti: qualcuno di questi giganti atterrati ingombrava i lati della strada. [p. 410 modifica]

Attraverso questo paesaggio primordiale camminammo per due ore. Non avremmo mai creduto di trovarci in una delle più industri regioni russe, se non avessimo scorto ogni tanto, in fondo a qualche vallata, al di sopra della massa scura degli alberi, levarsi ciminiere fumanti di opifici, di miniere, di fonderie. La ricchezza di queste contrade non è sulla terra: è sotto. Diboscare è inutile. Quando si scopre una miniera si crea una strada per trasportarne i prodotti, ed è tutto; il paese può rimanere selvaggio. Dovevamo spesso rallentare la corsa o fermarci per lasciar passare lunghe carovane di centinaia di teleghe cariche di ferro, di carbone, di rame, dirette a Jekaterinburg dove una breve ferrovia porta questi frutti degli Urali a Tscheljabinsk, sulla gran linea di transito. Ora una linea diretta fra Jekaterinburg e Kazan è in costruzione, e c’incontrammo più volte nella mattinata sui lavori ferroviari che tagliavano la nostra strada e ci costringevano a percorrere tratti di banchine terrose, a traversare passerelle malferme e ponti provvisori. I carrettieri degli Urali c’ingiuriavano. Non ce ne sentimmo offesi: vedevamo in quelle ingiurie il segno più evidente di essere giunti in Europa. Il paesaggio, presso a poco, poteva essere anche asiatico; era bene che ci accorgessimo che qualche cosa mutava. La pazienza e la serena benevolenza degli abitanti erano rimaste all’altro versante.

Verso le dieci eravamo nuovamente nella pianura. Pioveva. Avevamo lasciato Jekaterinburg sotto un promettente sereno; ora minacciava un diluvio. La strada, passata la regione delle miniere, ridiveniva cattiva, melmosa, difficile. Le distanze ci sembravano interminabili. Eravamo trattenuti da salite ribelli quasi come quelle di Krasnojarsk, ma, dopo qualche tentativo per superarle, trovavamo quasi sempre il modo di evitarle andando sull’erba dei prati. Cominciavamo ad essere interamente ricoperti di fango. Il fango schizzava così assiduamente su di noi, che avevamo dovuto rinunziare a mangiare un boccone di cioccolata per riconfortarci; non avevamo fatto in tempo a tirar fuori quella [p. 411 modifica] modesta colazione, che era già coperta di mota. Quell’interminabile rovesciarsi di fango su di noi, che ci penetrava persino nella bocca e negli occhi, ci avviliva, ci umiliava, c’irritava come un dispetto ingiurioso. Ci sentivamo stanchi. Ordinariamente ci avveniva di sentire di più la stanchezza quando ci accorgevamo di essere molto lontani dalla tappa prestabilita; era un fenomeno curioso; si può dire che eravamo meno stanchi per la strada fatta che per la strada da fare. E quel giorno ne avevamo da fare molta della strada. Dovevamo arrivare a Perm, alla sede del governatorato, lontana circa 394 chilometri da Jekaterinburg. Alle quattro del pomeriggio non avevamo percorso che 293 chilometri.

Più tardi la pioggia cessò. Potemmo accelerare la velocità. Nella monotonia della strada una sonnolenza invincibile ci aggravava le palpebre, quando una singolare visione ci ridestò. Erano cupole dorate, argentate, smaltate, grandi e piccole, campanili di ogni forma, che si aggruppavano al disopra d’una piccola città: Kungur. Kungur presenta una delle più belle visioni di città orientale. Ha il profilo d’un paese da leggenda, con tutto quello scintillio di metalli preziosi. Deve essere un gran santuario, qualche centro della fede, perchè all’apparenza ha più chiese che case. Per le strade abbondano le imagini sacre, i tabernacoli, le cappelle votive, la cui penombra interna è costellata da fiammelle di lampade e di candele. I mujik passando si scoprono e si genuflettono.

Dopo alcune ore avemmo un’altra sorpresa religiosa: vedemmo il primo minareto tartaro a Kojonowa, a trenta verste da Perm. Ma era un minareto conciliativo, dall’aria quasi di campanile, con una mezzaluna invece della croce, e dominante una moschea di legno con delle finestre da isba; una moschea russificata, insomma. Soltanto al sud di Kazan, nella provincia di Samara, s’incontrano quei bei minareti bianchi e snelli, caratteristici, che l’Islam ha piantato nelle sue regioni come delle candide lance in segno di conquista.

I tartari accorrevano festosamente a vederci, e ci [p. 412 modifica] sorridevano con le loro buone facce asiatiche; indossavano casacche variopinte con quell’artistica trascuratezza che è propria degli orientali. Intravvedevamo dietro ai vetri delle piccole finestre i visi bruni delle loro donne, ornate di monili come gitane. Esse ci rammentavano appunto tipi di zingare incontrate più volte lungo il nostro viaggio.

Ecco un altro popolo misterioso: lo zingaro. Abbiamo visto numerose famiglie di zingari persino a Tomsk, e per la steppa, accampate fra i loro carri e i loro cavalli. Come son giunte fino là? Da dove viene questa gente? Chi sono? Se il sentimento musicale rappresenta veramente una raffinatezza, un segno d’aristocrazia intellettuale, da quale nobile ceppo non discende mai questa razza di fuggiaschi che nella vita errabonda e selvaggia conserva l’amore e l’istinto della melodia, che sa mettere nei suoi canti passioni e dolori inesprimibili?

Non molto lontano da Perm, la strada entra fra boschi di abeti, e diviene sabbiosa. Sforzando il motore per superare i sabbioni nei quali le ruote affondavano, ci accorgemmo di una cosa terribile. La ruota motrice sinistra si sfasciava.

Ho già detto che la catena avvolta da noi alla pneumatica di quella ruota per impedirle di scivolare nel fango, fra Kansk e Krasnojarsk, aveva prodotto qualche danno all’attaccatura dei raggi al cerchione. Era evidente che sulle salite il cerchione incatenato aveva offerto troppa resistenza, e le commessure s’erano allentate. Si trattava di allentamenti capillari! gli alveoli nei quali le teste dei raggi s’incastrano si erano allargati di frazioni di millimetro. Potevamo appena vedere una leggera fessura tutto intorno all’attaccatura d’ogni raggio. E la fessura spariva affatto quando la pioggia gonfiava il legno. Ma sotto al sole la ruota cominciò a scricchiolare; ed Ettore quando metteva l’acqua nel radiatore, aveva preso l’abitudine di gettarne un secchio sulla ruota ammalata: il rimedio parve efficace. Questo avveniva fra Omsk e Jekaterinburg.

Ed ecco che vicino a Perm la ruota si mise a cigolare come [p. 413 modifica] non aveva mai fatto. Scendemmo a guardarla. Le fessure si erano allargate; i raggi giuocavano nei loro alveoli aprendoli sempre più. Ma Ettore aveva sempre dei rimedi pronti: prese delle solide funicelle, ne legò i raggi incastrandole nelle fessure, e assicurò così alla ruota una certa rigidità. Il cigolìo si fece più sommesso.

Arrivammo a Perm verso le otto di sera. Il giorno era ancora chiarissimo. Le strade erano affollate, i trams pieni di gente. I trams ci fecero un’impressione gradevole; non ne avevamo ancora rivisti; erano i primi trams che incontravamo. Ogni città ci riserbava una sorpresa nuova, qualche cosa che ci dava improvvisamente la visione della distanza superata, un segno inaspettato dell’avvicinarci alla meta. A Perm erano i trams, che guardavamo quasi con la stessa attenzione che la folla metteva a guardar noi. Dei ciclisti ci erano venuti incontro.

Erano dei bravi giovanotti, rappresentanti di non so quale grande associazione sportiva di Perm, pieni di cortesia e di simpatia, ma che a quell’ora, coperti di fango come eravamo, stanchi, con una ruota zoppa, reduci da una corsa di quasi quattrocento chilometri, ci pilotarono al loro velodromo; e questo allo scopo di vederci fare un giro della pista. Certe cose in Siberia non ci avvenivano.

All’albergo le nostre cure furono rivolte subito alla ruota. Smontata, fu osservata attentamente. Tenemmo un consulto. Il caso era gravissimo. Non v’era dubbio che i raggi minacciassero in massa di abbandonare il cerchione. Il Principe risolvè di fasciare con nuove cordicelle asciutte i raggi, facendole penetrare negli spazi apertisi, e d’immergere per tutta la notte la ruota nell’acqua. Il legno e la corda si sarebbero rigonfiati per l’umidità assorbita, e la ruota sarebbe tornata salda e forte. Ettore approvò il piano e si mise al lavoro. Due ore dopo la ruota era legata. Non mancava che da immergerla nell’acqua: il meno. Cioè il più. Non si trovava a Perm un recipiente capace di contenere la ruota. Le ricerche furono lunghe; cominciarono dall’albergo e si estesero per tutto il quartiere. La gente che s’era [p. 414 modifica] adunata intorno all’automobile e che aveva presenziato il lavoro, s’interessava attivamente alle nostre indagini cercando di ricordare i più grossi recipienti veduti.

Un grosso funzionario in uniforme ebbe un’idea pratica e originale. Si avvicinò a Borghese e gli disse:

— Scusi, lei vuol bagnare la ruota?

— Sì.

— E allora, perchè non la manda in uno stabilimento di bagni?

Sarebbe sembrato uno scherzo, se il grosso funzionario non fosse rimasto serio, imperterrito sotto lo sguardo scrutatore del Principe, che sorrideva non sapendo come prendere la proposta.

— Lei dice...?

— Io dico che dovrebbe mandare la ruota in uno stabilimento di bagni, prendere in affitto una cabina, fare immergere la ruota nella vasca, e farla riprendere domani. Così sarà anche sicuro che nessuno la tocca.

— Quale stabilimento?

— Ne conosco uno buonissimo, sulla Kama. Se vuole, lei carica la ruota sopra un’istvoshchik e io do l’indirizzo al cocchiere.

— Benissimo! Ed è ancora aperto a quest’ora?

— È aperto sempre.

E così si verificò il fatto, certamente poco comune, d’una ruota d’automobile malata condotta a fare una cura idroterapica in uno stabilimento balneare.

La mattina dopo, alle quattro, la ruota aveva ripreso il suo posto di fatica.

— Come va? — chiesi ad Ettore indicandola.

— Va benone — rispose tutto contento. — È tornata più forte.

Fallace apparenza. Le malattie gravi fanno di questi effetti alle volte; producono l’illusione di miglioramenti subitanei. La nostra povera ruota era moribonda. Poche ore dopo rimanevamo in panna.